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Rendona non avea potuto fare la
solita visita della sera alla sua ammalata dell'albergo, perché era stata
chiamato in tutta fretta a casa La Ferlita. Col cadere del giorno il male del
bambino si era aggravato, la febbre erasi fatta violentissima, e la difterite
si era presentata improvvisa e minacciosa.
Il bambino era stato messo sul
letto, ed Erminia non gli si era tolta d'accanto, spiandone con ansia ed
angoscia i più piccoli sintomi sul volto incadaverito, e trasalendo allorché
l'udiva strillare in tal maniera e tal voce soffocata che gli occhi e il cuore
della povera madre si gonfiavano di lagrime. Sin che il sole avea scintillato
sui vetri della finestra l'era parso di sentirselo in cuore a guisa di un raggio
di speranza; ma appena le tenebre cominciarono a calare, sembravale che si
aggravassero come gramaglie su quel corpicino sofferente e l'illividissero, se
le sentiva condensare in petto come un gruppo di lagrime.
Tutti i domestici erano in moto
per la casa, ma ella non permetteva che alcuno entrasse. Era sola in quella
gran camera piena delle ombre del crepuscolo, accanto a quel poveretto che
agitava di tanto in tanto le piccole braccia in cerca d'aiuto; non diceva una
parola, le lagrime le scorrevano zitte zitte sul viso, e solo allorché udiva un
passo nell'altra stanza volgeva verso l'uscio gli sguardi ansiosi per
interrogare la prima impressione del medico che veniva d'ora in ora. I suoi
occhi si seccavano, divenivano febbrili ed ardenti; faceva alcune domande al
dottore, dicevagli quel che l'era sembrato vedere delle fasi del male con poche
parole, brevi e nervose. Verso le nove arrivò il cugino Carlo tutto sottosopra.
«Cos'è stato?» domandò con
premura; «i tuoi domestici mi hanno spaventato.»
Ella gli fece cenno di parlar
piano, gli strinse la mano forte forte, e scoppiò in pianto. Gli disse fra i
singhiozzi e sollevando il velo che copriva Giannino:
«Vedi, poverino!... Vedi come
soffre!»
A quelle parole disperate e a
quelle lagrime che venivano dal fondo del cuore, anche gli occhi del povero
giovane si gonfiarono. Erminia lo guardava piangendo in silenzio, e vedendolo
così commosso gli disse sottovoce, ma con accento penetrante:
«Tu gli vuoi bene almeno a quel
poverino!... Non te ne andare, non abbiamo che te, lui ed io!...»
In quella entrò il dottore,
domandò una candela e si accostò silenziosamente al bimbo; tutti parlavano
piano e camminavano in punta di piedi in quella camera triste e scura. La
candela faceva un gran cerchio giallo sul capezzale. Nessuno osava fiatare;
Rendona finalmente si allontanò dal letto e andò a posare la bugia sul
tavolino.
«Non abbiamo peggiorato da un'ora
in qua»; rispose lentamente alla febbrile interrogazione degli occhi di
Erminia. «La respirazione è ancora abbastanza libera. Bisognerebbe tentare una
piccola operazione, e se questa riesce il bambino è salvo.»
«Dolorosa?» domandò la madre
rabbrividendo.
«No... non molto.»
La poveretta si celò il viso fra
le mani. Il dottore scrisse due righe su di un foglio del suo taccuino, e andò
in anticamera per dare degli ordini ai domestici.
«Ma bisognerebbe avvisare tuo
marito», esclamò Carlo.
Ella non rispose.
«Ho già telegrafato a Giarre»,
disse Rendona, cui Carlo ripeté l'osservazione.
«Ma la campagna di Giorgio è
lontana più di un'ora e mezzo dal paese! Sarebbe stato meglio mandare un uomo a
cavallo per le scorciatoie.»
«Ci ho pensato; forse arriverà
prima. Manderemo Giuseppe.»
Erminia colle labbra strette,
colle mani giunte, cogli occhi sbarrati e fisi nel vuoto, lasciava dire, non
rispondeva nulla, sembrava che un'onda di amarezza le gonfiasse il petto e le
vene del collo.
«Andrò io;» soggiunse Carlo, «e
farò più presto di tutti.»
«No!» esclamò allora Erminia con
voce vibrante, afferrandolo per la mano. «Tu no! Non ci lasciare soli anche
tu.»
Finalmete la signora Ruscaglia,
la quale avea saputo tardi della piega minacciosa che avea preso il male del
nipotino, arrivò anche lei tutta scalmanata. Erminia si lasciò abbracciare e
scoppiò di nuovo in singhiozzi nelle braccia della madre.
Tutti piangevano come se il
povero Giannino fosse morto. Il solo Rendona andava dicendo:
«Coraggio, coraggio, signori
miei! finalmente non siamo a questo estremo!... Abbiamo delle speranze, vi
dico!»
Alle parole del dottore succedeva
un silenzio penoso. La signora Roncaglia piagnucolava in un canto del canapè
per conto suo; il medico passeggiava lentamente per la stanza; Erminia, seduta
ai piedi del letto, covando cogli occhi il bambino, non si muoveva; Carlo le
stava vicino, all'impiedi, appoggiandosi alla colonna del letto, senza muoversi
e senza fiatare anche lui. Si udiva nella strada il gran brulichio, il gran va
e vieni di carrozze. Di tanto in tanto passava un monello cantando a
squarciagola la canzone venuta col maggio. Il pensiero della povera madre
errava vertiginoso su tutte le date principali delle breve esistenza del caro
infermo; le pareva di udire il suo primo vagito, quel vagito che avea fatto
trasalire la prima volta le sue viscere di madre, ricordavasi della prima volta
che l'avea visto a poppare, e del primo sorriso che le avea fatto, e delle
prima cuffietta che avea ricamato per lui, quando l'aspettava, e del primo
giorno che lo avea visto palliduccio, e della prima visita che avea fatto il
dottore, e la gioia muta e profonda che s'era sentita in fondo al cuore quando
quelle inquietudini s'erano dissipate... e poi, la mattina istessa, quando avea
sollevato il velo di quella culla, e avea trovato la sua creaturina con
quell'orribile febbre. In seguito si risovveniva di tutti i castelli in aria
che avea fatto quando l'avea cresciuto cogli occhi e coll'immaginazione, e
l'avea visto andare a scuola, e avea udito il suo piccolo passo rapido
nell'altra stanza, e la vocina che la chiamava mamma - le sembrava di
conoscere già il suono di quella voce. In mezzo a tutti questi ricordi, ce
n'era un altro che vi si mischiava ogni momento, di lui, che era stato sempre
lì, con lei, in quei castelli in aria e in quelle gioie materne, di lui
che aveva tenuto tante volte Giannino nelle braccia, provando un matto piacere
quando quel caro piccino sgambettava, e quelle manine gli accarezzavano il
viso... e adesso lui non sapeva che il meschinello in quel momento era steso
sul letto, gemendo con voce soffocata, e chiedendo aiuto alla sua povera
mamma... e l'avea lasciato, così male, ed era partito, e non era là.
Il domestico che recava la
boccettina ed i piccoli utensili ordinati dal medico picchiò discretamente
all'uscio. Erminia sussultò e si levò di botto, tremando convulsivamente;
seguiva la boccettina e la piccola busta nelle mani di Rendona con l'occhio
spaventato di un uccello prigioniero. La signora Ruscaglia cominciò a dire che
quello spettacolo le faceva male, e andò ad aspettare l'esito dell'operazione
in sala; mentre il medico si avvicinava al letto, la madre, pallida come un
cadavere, gli afferrò le braccia.
«Dottore! dottore!...» e la
poveretta in preda alla convulsione, non poteva più parlare. «Cosa fate? Cosa
gli farete? Gli farete male?»
«Ma no! È una cosa da nulla;
coraggio, cara signora Erminia! vedrà che il bambino sarà salvo; mi lasci fare:
se tardiamo ancora una mezz'ora, non rispondo di nulla.»
«Allora... si! facciam presto...
Oh, Vergine santa, dove ho la testa?... Ci vorranno dei panni? degli
apparecchi?...»
«Ma nulla ci vorrà. Ci vorrà solo
chi mi tenga il bambino un po' sollevato.»
«Io! ci son io! Ma come
qualcuno?... Chi potrebbe tenere mio figlio?»
«No! lei proprio no! Nello stato
in cui è, rischierebbe di farmi fare un malanno.»
«Lo terrò io», disse Carlo.
Erminia stette un momento a
guardarlo, come smemorata, e assentì col capo.
«Oh, dottore, mi raccomando! il
poverino soffre tanto! è così piccino!... Oh, Vergine santa... Oh, Signore!...»
e singhiozzava parole rotte e sconnesse, e andava e veniva per la camera senza
sapere che facesse, torcendosi le mani, aggirandosi sempre intorno al piccolo
gruppo, formato da Rendona e da Carlo che teneva il bambino vicino al lume,
verso il quale era attratta e avea paura di avvicinarsi. Seguiva con occhi
ansiosi i più piccoli movimenti del medico, che le sembravano di una durata
eterna; si sentiva rimuovere dentro il petto, come se le lacerassero il cuore,
tutti i ferri più lucenti e mostruosi da chirurgo che sapesse immaginare. Il
bambino strillava con voce soffocata; ad un tratto mise uno strillo più acuto;
allora ella si avventò con un salto da belva. Il medico riponeva la busticina e
diceva tranquillamente:
«Riponetelo sul letto. È andata
benone.»
La madre prese il figlio dalle
braccia di Carlo con un'aria feroce, e, adagiandolo sul letto, scoppiò in una
crisi di pianto che la sollevò.
La signora Rendona rientrò
gemendo, e il dottore si sbracciava invano a rassicurare le due donne dicendo
che tutto era andato bene, che ci era speranza, che il male avrebbe preso piega
migliore dopo la mezzanotte. Il bambino infatti sembrava respirare più
liberamente. Erminia andava dal letto all'orologio, e di tanto in tanto
fermavasi presso la finestra ad ascoltare, come se aspettasse qualcheduno; poi
ricominciava a passeggiare, un po' barcollando. Il dottore avea promesso che
non si sarebbe mosso sin dopo la mezzanotte. Verso il tocco la signora
Ruscaglia cascava dal sonno, e tutti concordemente l'avevano indotta a buttarsi
sul letto, così vestita com'era. Erminia era andata ad accompagnarla, e mentre
ritornava nella sua camera incontrò nel salotto il cugino Carlo che correva
verso di lei.
«Sta allegra, Erminia! il dottore
dice ch'è salvo! La febbre rimette; s'è addormentato tranquillamente e respira
benissimo.»
La poverina si fece smorta in
viso; rimase un istante senza dir nulla, cogli occhi sbarrati in quelli di lui,
tutta tremante, poi gli buttò le braccia al collo, e scoppiò in singhiozzi
dicendo:
«Oh, quanto ti voglio bene!»
Giorgio arrivò a casa ch'era
prestissimo. La porta aperta a quell'ora insolita, i domestici affaccendati,
gli misero addosso un gran turbamento e lo fecero correre alla camera della
moglie in grande agitazione. La lucerna ardeva ancora, nonostante che la
finestra fosse già chiara: Carlo e Rendona erano seduti sul canapé; Erminia,
curva sul bambino, volgeva le spalle all'uscio; udendo entrare il marito, ella
si voltò trasalendo, e vedendolo rimase come sbalordita, trafelata in viso, le
labbra le incominciarono a tremare senza poter dire una parola; poi quel
tremito si estese alle gambe, e cadde seduta sulla poltrona ai piedi del letto.
Carlo e il dottore, vedendo il pallore di Giorgio che non osava fare un passo
nella camera, s'erano avvicinati a lui.
«Non è nulla!» diceva Rendona,
«siamo fuori di pericolo; l'abbiamo scampata bella, ma siamo fuori di pericolo.»
Giorgio si avvicinò al letto come
non si reggesse bene sulle gambe; interrogò ansioso l'aspetto del bambino che
dormiva, poi prese con mano tremante la mano della moglie. La poveretta si
lasciava fare, ma tremando più forte; all'improvviso si gettò bocconi sul letto
e scoppiò in singhiozzi a voce alta.
«Non è nulla,» andava dicendo
Rendona, «lasciatela sfogarsi. È una crisi salutare, la tensione nervosa durava
da un pezzo. Lasciatela piangere che le farà bene.»
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