-15-
La sua coscienza però diceva a
Giorgio che «c'era invece qualche cosa», qualche cosa che gli faceva evitare
gli sguardi della moglie, gli toglieva il diritto di domandare del figlio suo,
e lo teneva muto e avvilito in presenza di Erminia. Balbettava con imbarazzo
poche parole sconnesse e prive di senso; per fortuna la suocera e il dottore
erano lì per coprire tutto con la loro parlantina, e il bambino migliorava
sempre nel corso della giornata; le assicurazioni incoraggianti del medico
facevano spuntare dei sorrisi e diradavano le fronti increspate. Erminia
cominciava ad esser calma, ma nello stesso tempo l'effetto della stanchezza e
dell'agitazione sofferta facevasi sentire; diventava sempre più pallida e
abbattuta; la signora Roncaglia la indusse finalmente a mettersi in letto
vicino al suo bimbo, il dottore uscì per le sue visite, Carlo andò per i fatti
suoi, e la casa ridivenne tranquilla; solo si udiva il passo di Giorgio che
andava su e giù pel suo gabinetto. Egli fu molto male per alcuni giorni, senza che
nessuno ne trapelasse mai nulla; un sentimento ombroso di altera delicatezza
gli faceva dissimulare penosamente quello che soffriva nelle lunghe notti
travagliate dalle febbri e dagli incubi.
Fin da quel giorno una
inesplicabile freddezza cominciò ad insinuarsi fra marito e moglie. Giorgio
entrava nella camera di lei, s'informava del figlio, stava presente tutto il
tempo che il medico faceva la sua visita, gli raccomandava con premura la
salute della moglie, la quale era rimasta molto scossa, e poi non si faceva
vedere fino a sera. La serena e rassegnata dolcezza di Erminia gli pungeva il
cuore nel più vivo; sembravagli scorgere qualcosa d'incerto, qualcosa che
voleva nascondersi quand'ella gli rivolgeva la parola e gli figgeva in viso gli
occhi. Era arrendevolissimo ai menomi desideri della moglie: ma allorché
Rendona avea consigliato un cambiamento d'aria per la madre e per il piccolo
convalescente, e avea suggerito che tutta la famiglia andasse a passare
l'estate nella loro campagna presso Giarre, egli si era opposto con molta
vivacità, senza addurne le ragioni. Una volta che proprio ci sarebbe stato
urgente bisogno di una sua gita a Giarre, si era rifiutato risolutamente.
Non era più andato ad Acireale.
Due o tre volte era arrivato sino alla stazione, e poi era tornato indietro più
combattuto che mai. Non avea il coraggio di rivedere Nata, avea paura. Quella
moribonda era sempre lì, coi suoi occhi impietrati, il suo viso livido, il suo
amaro sorriso di rimprovero. Dall'altro canto c'era in fondo al suo cuore, al
di fuori di sé, nelle ciarle del mondo, negli sguardi dei suoi amici, un vago
sentimento del dovere, della giustizia, dell'onore, di tutto quello che
improvvisamente gli avea fatto sentire la sua mano di ferro nel momento in cui
era arrivato sull'uscio della camera del suo bimbo moribondo, sentimento che
avea conosciuto allora, per la prima volta in sua vita, sentendolo insorgere
dentro di sé come una vampa di rossore, come una fitta di rimorso, e gli s'era
inchiodato là, in quella casa, in ogni suo passo, in mezzo a tutti i sofismi
della passione, incrollabile e inesplicabile. Sembravagli in ogni momento di
vedere laggiù, su quell'orizzonte dietro il Capo dei Mulini, qualcosa che
l'affascinava e l'atterriva. Avea il presentimento di aspettare una notizia
funesta; provava delle scosse nervose all'annunzio più semplice, quando il
domestico entrava nel suo gabinetto, quando il campanello squillava
all'improvviso. Errava per la casa quasi barcollante; cercava delle
occupazioni; si creava degli affari imperiosi; andava e veniva con un'aria
affrettata ed inquieta; in certi momenti avea gli occhi di un pazzo. Quando
vedeva giungere il medico diveniva pallido; allorché Rendona cominciava a
parlare dei suoi ammalati si alzava, passeggiava per la camera, tornava a
sedere, non diceva una parola, lo guardava con aria stralunata. Un giorno che
era stato a fargli visita, egli era scappato dalla camera della moglie,
adducendo un pretesto; poi l'avevo trovato sull'uscio dell'anticamera; mi
domandò soltanto:
«Come sta?»
«Credo al solito», gli dissi.
«Non l'hai più vista?»
«No...»
«Insomma, non c'è stato nulla di
nuovo all'albergo?...»
«Nulla.»
Egli respirò con forza, e mi
strinse la mano con un tremito leggiero: «Grazie.»
Di tratto in tratto, in mezzo
alle occupazioni della giornata un pensiero dispotico gli attraversava la mente
e gli dava come una scossa al cuore; la parola gli moriva sulle labbra, i suoi
occhi si fissavano nel vuoto, sbarrati, quasi vedessero sorgersi dinanzi un
fantasma. Aveva delle impazienze brusche, irragionevoli, dei tentativi di
rivolta contro tutto ciò che non aveva rispettato altrimenti che a parole.
Tutti i principii del bene e del male, del diritto e del torto gli si erano
confusi in mente, s'erano smarriti in una grande concitazione; ne parlava con
parole amare, come se gli si gonfiassero in cuore con degli accessi
irrefrenabili d'amarezza e di collera. Osservando alla sfuggita Erminia così
rassegnata, così calma in apparenza, sentiva un sordo rancore verso quella gran
serenità del bene che a lei non costava nulla, eppure inaspriva le sue segrete
torture; le invidiava la coscienza tranquilla, e si domandava quel che valesse
quella pace non contrastata; quella gran calma inalterata dell'onestà gli
rinfacciava ad ogni momento la sua agitazione febbrile e il turbamento della
sua coscienza; se ne sentiva soggiogato, invidiava sordamente sua moglie,
ammirandola, e nei momenti delle sue angoscie più acute provava un sentimento
di ostilità contro di lei.
Se avesse potuto immaginare
quanto costava alla povera Erminia!
Ella avea tutto indovinato, colla
delicatezza squisita della donna; gli amici di Giorgio s'erano creduti in
debito di narrarle un po' alla volta vita e miracoli del marito, e specialmente
la leggenda del viale Principe Amedeo; Giorgio in fondo era troppo onesto per
riuscire a dissimulare completamente quello che soffriva. Da principio la
povera donna s'era trovata sbigottita; l'isolamento in cui avea passato la
prova crudele di quella notte in cui il bambino era stato per morire le faceva
paura, vedeva quel triste isolamento sempre dinanzi a sé, per quant'era lungo
l'avvenire, nel mutato contegno dello sposo, nelle sue attenzioni impacciate e
timide, nelle sue distrazioni, nelle sue preoccupazioni frequenti, in quegli
occhi che evitavano i suoi, e che avevano costantemente qualche altra cosa
dinanzi. Si sentiva derelitta; quel bambino convalescente le stringeva il
cuore, quasi fosse orfano e qualche volta le carezze del padre urtavano la sua
delicatezza, le repugnavano come se fossero mendicate; allora avvampava in
viso. Sentiva istintivamente l'abisso che allargavasi fra lei e quello sposo
sul quale si erano appoggiati ad uno ad uno tutti i suoi affetti, dal giorno
ch'era rimasta sola con lui, in quella carrozza che l'allontanava al gran trotto
dalla sua mamma, dalla sua casa, dalle sue affezioni passate, e metteva intera
la sua vita nelle braccia di quell'uomo che per pochi mesi innanzi era ancora
uno sconosciuto per lei. Ora che lo sentiva allontanarsi alla sua volta,
provava lo stesso sentimento d'inquietudine, lo stesso sbigottimento, lo stesso
bisogno di attaccarsi a qualche cosa che allora l'avea fatta attaccare al
braccio di lui; l'isolamento stavolta era più amaro, più agitato, era
punzecchiato tratto tratto da vaghi turbamenti, da immagini e riminiscenze che
la facevano sognare ad occhi aperti, le gettavano delle fiamme sul viso, delle
tepide correnti nei nervi, durante le lunghe ore silenziose della sua camera
deserta, e la facevano ridestare di soprassalto. Non osava lagnarsi; nascondeva
gelosamente quel che soffriva, non per dignità, ma per un inesplicabile
bisogno, perché non osava confessarlo a se stessa. Poi, cosa più dolorosa,
quello sposo che le toglieva giorno per giorno non solamente il cuore, ma
l'intimità, la schiettezza, la fiducia, il sorriso, le imponeva soggezione,
diventava non solo un estraneo, ma un padrone.
Da quella notte in cui aveva
sofferto per la prima volta come, nelle grandi afflizioni che avea avuto da
ragazza, non avea creduto che si potesse soffrire giammai, il cuore della donna
si era formato con tutte le tenerezze, con tutta la sua delicata sensibilità,
con tutti i tesori dell'affetto, meglio di come non l'avessero fatto le prime
impressioni della vita, della giovinezza, della felicità, dell'amore; meglio di
come non l'avesse fatto il primo sentimento della maternità che s'era svegliato
col primo vagito del suo bambino - e in quella notte il suo Giorgio non era
stato là... il suo pensiero rifuggiva dal cercarlo dove era stato. Sentiva
perciò una gran riconoscenza, una tenerezza più intensa, più profonda pel
cugino Carlo che avea sofferto con lei; perché in quella notte in cui tutti i
suoi pensieri si sconvolgevano e si abbuiavano, erale parso che tutto il mondo
dovesse soffrire come lei. Il primo irrompere della sua gratitudine era stato
impetuoso, l'era montato dal cuore alla testa, come una vertigine, l'avea fatta
trasalire sin nelle più intime fibre del cuore! Però da quel momento in cui
avea gettato le braccia al collo del cugino come se fosse stato un salvatore,
avea evitato istintivamente di trovarsi sola con Carlo; sentiva che il gran
bene che gli voleva e che gli avea sempre voluto, la turbava per la prima volta
- allorché l'avea rivisto si era fatta di porpora in viso.
Anche Carlo non sembrava più quel
di prima. Stava dei lunghi quarti d'ora in silenzio e giocherellando coi guanti
o colla frangia del canapè, mentre la signora Ruscaglia chiacchierava colla
figlia, o mentre Erminia colmava di carezze il suo Giannino ancora palliduccio;
avea perso il suo gaio umore, il suo riso spensierato, la sua franchezza
giovanile; evitava di parlare di quelle cose che potessero rimorchiare a
tradimento il volume del Prati o l'anticameretta gialla; discorreva di rado
della sua partenza, e vi pensava spesso: si confondeva qualche volta allorché
Erminia o suo marito gli domandavano particolari de' suoi viaggi, e si alzava
dieci volte per andarsene quando rimaneva solo colla cugina. - Anche lui, la
prima volta che avea rivisto la cugina e s'era accorto delle vampe che le montavano
dal collo alla fronte, s'era sentito far di bracia in viso. Erminia credeva di
volergli bene perché egli non cercava di leggerle in cuore, e per lo studio che
metteva nell'evitare le occasioni di trovarsi soli e imbarazzati tutti e due.
«Quando ritornerai?» gli domandava. «Chi lo sa? fra due, fra tre anni...»
Erminia sentiva una gran tenerezza pensando che forse non si sarebbero visti
mai più. «Ritornerai contrammiraglio, almeno?» soggiungeva colla migliore
intenzione di sembrare gaia e di farlo ridere. Egli sorrideva tristamente
infatti e la guardava in viso senza dir altro.
Il turbamento di Erminia però
cominciava a dileguarsi, perché in cuore le si andava gonfiando lentamente una
gran pienezza di vita, una grande gioia inquieta e inesplicabile, una dolcezza
che si ridestava di tanto in tanto con punte acute le quali le traversavano
tutte le vene, una dolcezza che l'invadeva, che l'assopiva a poco a poco, che
gettava un balsamo, un velo, sulle sue angoscie, sul suo sconforto, sulle
amarezze e il dolore di vedersi abbandonata dal marito, e fin sull'immagine del
marito, e le faceva sentire come una dolce stanchezza, come un gran bisogno
d'addormentarsi in qualche cosa. Non sapeva da che le venisse, avea paura di
indovinarlo, era felice di ignorarlo. Quando il suo spirito si svegliava
inquieto, ansioso, e turbato, provava un gran desiderio di rituffarsi in
quell'oblio, di stare vicino al cugino, di ascoltare la sua voce, di seguirlo
col pensiero nelle lontane regioni che alla sua immaginazione sembravano tutte
colorate di azzurro; le pareva di volergli bene perché accanto a lui sembravale
di ritornare agli anni spensieratamente felici della sua giovinezza, fra le
rose del giardino, colte per lui, le strette di mano dell'anticameretta gialla,
e i versi letti insieme, vicino a quel tavolinetto, sotto quel lume dalla gran
ventola dipinta a fiori. Sognava, sognava, cogli occhi fisi; il passato era
tutto azzurro, come gli ignoti paesi dove il suo pensiero soleva seguir Carlo;
non vi si vedeva che le gioie più schiette, più dolci, più profonde, e nello
stesso tempo più vaporose. Allora stava ad ascoltarlo delle ore intiere zitta
zitta, a guisa di bambina; ei narrava semplicemente, senza enfasi, ma
coll'accento della verità, le splendide albe del mare, i dolci tramonti, la
pace immensa, le contrade diverse e lontane, le tempeste solenni e gigantesche,
le febbri delle battaglie, fra il rombo assordante, il comando breve ed
austero, il tumulto della vita e della morte, le sublimi ebbrezze della lotta e
della vittoria, l'orgoglio della gloria, dell'onore, della patria e della
bandiera. Ella non fiatava, si sentiva stringere e allargarsi il cuore con
violenza, cambiava di colore cento volte; lo guardava, lo guardava, non poteva
saziarsi di mirarlo, e il suo pensiero errava lontano; le pareva di vedere il
suo povero cugino ch'era piuttosto delicato, così giovane, così debole, orfano
di padre e di madre, in mezzo a tutta quella rovina d'uomini e di elementi in
collera, e sorridente, con dolcezza come in quel momento; allora sentiva una
gran tentazione di buttargli le braccia al collo e di non lasciarlo partire mai
più. Il cuore le si gonfiava, le si gonfiava con un nodo che le stringeva la
gola, e finalmente una volta scoppiò a piangere.
«Cos'hai?» domandò Carlo sorpreso
interrompendosi.
«Nulla... mi fai male... Mi
sembra d'aver paura.»
Ei la fissava attentamente.
Erminia di pallida s'era fatta rossa come un papavero, poi s'era fatta pallida
di nuovo. Allora Carlo le afferrò la mano, con un lieve tremito, senza osare di
mirarla in faccia, ed ella si nascose il viso nelle mani.
«Ora sei tu che mi fai male!» le
diss'egli dopo quel silenzio, e parlando piano. «Abbi un po' di pietà di me!»
Erminia alzò su di lui gli occhi
lagrimosi. Anche in fondo agli occhi di lui si vedevano luccicare delle
lagrime; ei chinò la fronte sulla mano, e dopo un'altra breve pausa, con voce
appena intelligibile:
«Bisogna che io abbia il coraggio
di partire... intendi?... Bisogna ch'io l'abbia questo coraggio!»
Non si dissero altro. Si sentiva
il passo di Giorgio nell'anticamera; ella si alzò trasalendo e si allontanò con
vivacità; il cugino alquanto pallido prese il suo cappello bruscamente e si
accomiatò in fretta.
Giorgio entrava come fosse un
estraneo in camera della moglie, con un'aria imbarazzata che la sua
disinvoltura abituale non riusciva a dissimulare. Era pallido anch'esso da
qualche tempo, e dissimulava le sue sofferenze con una energia virile che non
sarebbesi supposta in lui. Una delle sofferenze più acerbe che sentisse era il
supplizio di dover stare una mezz'ora al cospetto della moglie, di dover
incontrare lo sguardo limpido di lei, e ascoltare la sua voce inalterabilmente
dolce e calma. Quella camera avea una fisionomia onesta; l'aria sembrava
circolarvi pura e libera, fra quel gran letto bianco, quella culla color
celeste, quei mobili semplicissimi - avea un che d'augusto. Giorgio vi entrava
sempre come fosse in chiesa, e stava dinanzi alla moglie, di cui istintivamente
indovinava i dolori e le ripugnanze che egli doveva ispirarle, con una cortesia
affettuosa in fondo, ma che sembrava glaciale. Poi, in quella gran camera
silenziosa e tranquilla si sentiva un gran bene, sembravagli che il sangue gli
si rinfrescasse nelle vene, e l'immagine fosca e fatale di quella moribonda, di
quell'amore spaventoso, non osava inseguirlo sin là. Colà egli si riposava, e
se l'avesse osato avrebbe domandato alla moglie il permesso di fargli dormire
un sonno senza incubi in quella grande poltrona ai piedi del letto. Sentiva un
gran rispetto, una gran gratitudine, una gran tenerezza per la madre di suo
figlio che era costretto a trattare in quel modo, per la donna che portava così
immacolatamente il nome suo; l'ammirava come una natura superiore, parevagli
impossibile che tanta serenità, tanta purezza potesse essere turbata, e che le
passioni che avevano combattuto lui così violentemente potessero sconvolgere
quella tranquilla coscienza, quell'onestà salda e schietta. - Una volta,
vedendo i due cugini seduti accanto, un pensiero gli avea attraversato la mente
come un lampo, e s'era sentito mordere improvvisamente al cuore.
|