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Erminia non avea dormito neppur
essa; si levò abbattuta e disfatta in viso; sembrava inquieta anche lei, poiché
le sue mani tremavano sul ricamo. Verso il tocco si udì una scampanellata;
ella, senza muoversi, col capo chino sul telaio, avvampò ad un tratto in viso,
e istantaneamente si fece ancor più smorta di prima.
Dopo il primo saluto, i due
cugini rimasero zitti alcuni momenti, senza poter dominare un inesplicabile
imbarazzo; ella punzecchiava il suo canovaccio più febbrilmente che mai.
«Carlo,» gli disse infine senza distogliere gli occhi dal disegno, «cosa hai
risoluto di fare?»
Il giovanetto sentì la vibrazione
sonora che c'era nella voce pacata di lei.
«Nol so...» rispose esitando e
sottovoce come lei.
«Bisogna che tu parta... La
mamma, vedi, parla così... perché certe cose noi altre donne non le possiamo
sapere... Se dai retta a noi altre donne, ti rovinerai nella carriera e sarebbe
un gran danno... Bisogna partire.»
«Tu lo vuoi?...» diss'egli così
piano che appena si sentiva.
«Bisogna che tu faccia il tuo
dovere...» balbettò più pallida che mai e cogli occhi gonfi... «Bisogna fare il
nostro dovere, Carlo...»
«Partirò», rispose il giovanetto
chinando il capo.
Non dissero più nulla.
«Partirò col treno di stasera»
ripeté infine Carlo.
Ella ricamava sempre, col capo
basso, anzi più basso di prima, e delle lagrime calde le cadevano ad una ad una
sulle mani. Ad un tratto gli stese quelle mani tutte bagnate, convulse e
tremanti, e così rimasero faccia a faccia, senza dire una parola.
«Addio!» diss'egli, «addio! farò
il mio dovere...»
«Anch'io!» mormorò Erminia
ricadendo sul canapè.
Il dottore era stato chiamato in tutta
fretta. La signora Ruscaglia, che veniva dall'accompagnare il nipote colle sue
querimonie sino alla stazione, era accorsa tutta scalmanata. Erminia avea una
febbre violenta con delirio, e il male mostravasi tanto più pericoloso quanto
più era stato trascurato, e sembrava irrompere tutt'a un tratto, con una
veemenza che non dava tempo a combatterlo. Rendona avea messo tutta la casa
sossopra in un batter d'occhio, ed erano anche stati chiamati due altri medici
per fare un consulto. La Ferlita andava e veniva come un sonnambulo; ascoltava
quello che dicevano i medici, seguiva cogli occhi le persone che si
affaccendavano per le stanze; di tanto in tanto si passava una mano sulla
fronte.
«Che te ne pare?» domandò a
Rendona mentre costui rientrava in sala.
L'altro si strinse nelle spalle:
«Cosa vuoi che ti dica?... vedremo domani al calar della febbre...»
Giorgio sedette di botto come se
le gambe gli mancassero.
Verso mezzanotte era arrivato un
dispaccio urgente da Acireale per Rendona.
«Dite che non posso», rispose
costui dopo averlo letto. «Telegrafate.»
Giorgio ascoltava istupidito;
tutta la notte la passò al capezzale dell'inferma senza muoversi; sembrava
fosse stato colpito più mortalmente della moglie.
L'indomani la febbre rimesse un
poco, il delirio cessò, ma il male si mantenne ancora gravissimo. Tornarono gli
altri due medici a consulto.
«Cosa dicono?» domandò nuovamente
La Ferlita appena se ne furono andati.
«Nulla di nuovo; non abbiamo
peggiorato», rispose Rendona.
«È salva!» esclamò Giorgio.
«No... non ho detto questo...
Vedremo.»
Tutto il giorno fu un va e vieni
di medici, di amici che s'informavano alla porta, di amiche che venivano un
momento a bisbigliare sottovoce in sala fra di loro, e a strascinarvi il
fruscio delle loro vesti. La sera calò lenta e triste, una sera d'estate,
calda, pesante; i lumi cominciavano ad accendersi; il rumore delle carrozze si
udiva più forte e vicino adesso che era cessato il frastuono del giorno; dalle
finestre aperte, fra le grandi tende immobili, le stelle cominciavano a
tremolare in fondo ad un cielo grigiastro; a poco a poco la luce rossigna del
gas si disegnò qua e là sulle muraglie delle case di faccia, vincendo il
chiarore incerto del crepuscolo; passavano per la via tutti i consueti rumori
della sera; nella gran camera silenziosa e quasi oscura arrivava l'eco di quei
passi discreti che si erano uditi tutto il giorno e non osavano avvicinarsi
all'uscio; si udiva frequente, sommesso e timido il tintinnio del campanello in
anticamera, e di quando in quando la vocina del povero Giannino che strillava
fra le braccia della balia nella camera accanto, come se sapesse la sciagura
che lo minacciava... Le ore dal tramonto sino alla mezzanotte durarono eterne.
L'ammalata non delirava più, non si lagnava più, stava immobile, rivolta verso
la finestra, col viso nell'ombra, gli occhi chiusi penosamente; di quando in
quando li riapriva a stento; si udiva la sua respirazione irregolare e a
scosse.
Verso mezzanotte Rendona,
affranto dalla fatica, disse che andava a riposare un poco, poiché lo stato
dell'inferma in quel momento lo permetteva. La signora Ruscaglia era più morta
che viva.
«Va a dormire anche tu una
mezz'ora», disse il medico a Giorgio posandogli una mano sulla spalla. «Devi
esser rifinito anche tu.»
Giorgio scosse il capo, e non si
mosse dalla poltrona ai piedi del letto.
«Ma Giulietta farà quanto te, e
meglio di te; alle due o alle tre poi verrai a rilevarla.»
«No», disse Giorgio con la voce
rauca che avea dalla mattina. «Non ho sonno.»
E rispondeva sempre: «È inutile,
non ho sonno». Infine Rendona lo lasciò stringendosi nelle spalle.
La Ferlita non avea sonno, ma era
affranto. I suoi nervi si contraevano penosamente, e sentivasi il capo preso in
una morsa gigantesca; gli si ripercuoteva penosamente dentro il cervello il
rumore delle ultime carrozze e i passi rari che si udivano sotto le finestre;
il caldo di quella notte di giugno lo spossava. In mezzo al grande stordimento
della sua mente c'era un guazzabuglio confuso, doloroso, il passato, il
presente, le vicende turbolente della giovinezza, i ricordi più lontani e
insignificanti, Nata, suo figlio, Firenze, Erminia, la chiesuola di
Tremestieri, il viso che avea Rendona quando gli avea detto vedremo,
Carlo che solcava il mare, il treno che sbuffava alla stazione di Acireale,
tutte queste cose che si urtavano, che si arruffavano, che si confondevano
insieme. In mezzo a quel turbinio c'era sempre la figura di quell'inferma su
cui teneva gli occhi fisi, tal quale la vedeva in quel momento, rivolta verso
la finestra e col viso nell'ombra. Il suo pensiero rifaceva continuamente lo
stesso camino, dal viale Principe Amedeo alla chiesuola di Tremestieri, e
andava a finire a quel letto bianco su cui il paralume gettava la sua ombra.
Poi ricominciava da capo. A poco a poco in quel gran cerchio scuro si rilevava
il corpo di Erminia con contorni indecisi, che si perdevano e sfumavano nelle
larghe pieghe della coperta, e a forza di fissarvi lo sguardo quel corpo si
vestiva di quella tal veste scura a pieghe molli che cadevano sul tappeto ai
piedi dal canapè, com'egli soleva vederla di tanto in tanto, vicino al medesimo
lume che dorava quella nuca bianca, screziata dalle ombre leggiadre dei ricci
più fini... e Carlo veniva a mettersi là, fra lui ed Erminia, chetamente, senza
far rumore. Allora si ricordava di quell'altra donna lontana, gli pareva di
vederla in quella camera d'albergo, colle braccia tese, gli occhi da fantasma -
il suo spettro sorgeva ad ogni tratto dall'ombra, inaspettato, minaccioso e
severo, e sembravagli che egli stesse a guardarlo stupidamente, senza sentir
nulla in fondo al cuore; a poco a poco sentivasi invaso da una gran paura del
fantasma immobile e silenzioso; allora girava gli occhi smarriti per le note
pareti che l'attorniavano, li riposava su tutti gli angoli, su tutti i mobili
che conosceva minutamente, sulla tappezzeria a gran fiori, sulle tende immobili
a larghe strisce orientali, sul canapè trapunto e imbottito; sembrava che
quelle pareti domestiche lo circondassero, lo abbracciassero quasi, per
proteggerlo e per difenderlo. L'orologio della camera suonava lentamente le ore
una dopo l'altra, con rintocchi netti e sonori, come uno squillo che gli era
famigliare anch'esso; poi rispondeva l'orologio della chiesa vicina, poi, ad
uno ad uno, nel silenzio della notte, spesso confondendo insieme i rintocchi,
tutti gli altri che conosceva, che gli rammentavano delle altre ore passate in
quella stessa camera, che gli presentavano con una singolare chiarezza di
contorni e di circostanze le immagini di altri avvenimenti, di altri
particolari minimi che non credeva di ricordare più, che erano passati forse
inosservati e che ora, sfumati così nella lontananza, avevano una identità
dolce, malinconica ed amara nel tempo istesso: erano le ore passate accanto a
quel canapè, mentre Erminia ricamava - quella sera in cui non erano andati al
ballo, ed ella riempiva tutta la poltrona colle balzane leggiere e rigonfie
della sua veste - i dolci colloquj, semplici, affettuosi, intimi d'allora,
quando si dicevano tutto, in cui non avevano negli occhi dell'imbarazzo, in cui
non ci avevano delle febbri, dei turbamenti, degli altri fantasmi lontani,
assorbenti, gelosi, implacabili, quando la pace di quella camera era ancora
inalterata, e facevano dei progetti, e parlavano insieme dell'indomani, di
Giannino, della campagna con fiducia. Allora quel tempo passato rivestivasi di
tutte le iridi dell'ideale. Giorgio v'immergeva il suo pensiero affaticato con
l'energia di chi sente il bisogno di riposo. Il presente lo sorprendeva sempre,
inesorabile, all'improvviso, con l'immagine di Erminia che era là, rivolta
verso la finestra, col viso nell'ombra. Mentre teneva gli occhi fisi su di lei
cercava di indovinare per quali lotte fosse passata ella pure prima di
allontanarsi da lui, cercava di leggere su quei lineamenti, che nell'ombra
sembravano cangiare di aspetto ad ogni istante, al pari di quelli di una
sfinge, quali passioni si svolgessero mostruosamente in mezzo ai vaneggiamenti
del delirio. Le ore continuarono a suonare, monotone, impassibili, l'una dietro
l'altra, con lunghi intervalli.
Verso l'alba l'inferma cominciò
ad essere agitata. Giorgio seguiva i movimenti di lei con sguardo ansioso,
senza osar di fiatare. Ad un tratto si accorse che gli occhi di Erminia erano
spalancati, e che da alcuni istanti li teneva fissi su di lui con una singolare
tenacità. Ei si levò, e stette ritto dinanzi a lei. Gli occhi di Erminia erano
attaccati su di lui con tale insistenza, con tale espressione che gli
strapparono la prima parola:
«Cosa vuoi?»
Ella non rispondeva, guardandolo
sempre a quel modo; brancolava col braccio fuori dalle coperte, quasi cercasse
qualche cosa, poi gli afferrò la mano.
«Voglio parlarti», gli disse con
voce appena intelligibile. A lui parve che quella mano gli stringesse il cuore.
«Ho amato Carlo!...» riprese
Erminia vincendo un gran turbamento.
Egli mosse le labbra più volte,
senza che alcun suono ne potesse uscire.
«Perdonami...» singhiozzava
l'inferma dopo un silenzio più lungo. «Ho bisogno che tu mi perdoni...
Giorgio!... Non sono colpevole, sai!... Non sapevo d'amarlo... non me n'ero
accorta... ho pianto tanto tanto... ho tanto sofferto!... gli ho detto
d'andarsene... ed egli se n'è andato... Non è mia colpa se è stato più forte di
me... se mi è parso di morire... Ma lui non ne sa niente... ti giuro!...
nessuno sa quello che ho sofferto... Non dirlo a Giannino... non dirlo nemmeno
alla mamma... dimmi che mi perdoni... dimmi che non mi lasci in collera!:..»
Giorgio non rispondeva, piangeva
silenziosamente, col viso nascosto nell'ombra della ventola. Ad un tratto volse
il lume su di lei, temendo che fosse delirante; allora scorse quell'espressione
d'angoscia indicibile e le vide il viso tutto bagnato di lagrime. Non le disse
una sola parola, si chinò sul letto, la abbracciò stretta, colla fronte su
quella di lei, e confusero insieme le loro lagrime.
«Oh! come mi fa bene!... Come mi
fa bene sentirmi bagnata dalle tue lagrime!... Come mi fa bene vedere che tu
piangi!... Perché non hai pianto?... da tanto tempo!... da tanto!... Come mi fa
bene!... Mi sembra che facciami rinascere... Mi sembra che guarirò...»
Egli non osava dire come fosse
colpevole, sentiva che ella lo sapeva, non osava domandarle quel perdono che
gli era anticipato generosamente. Singhiozzava forte, a scosse, senza staccarsi
da lei; l'alba entrava dolcemente dalla finestra - come in quell'albergo - e
imbiancava quell'altro viso trafelato d'inferma.
«Tu guarirai!...» balbettava
alfine Giorgio con voce rotta «senti cosa ti dico, tu guarirai!... e saremo
felici un'altra volta... partiremo per la campagna... Là staremo insieme...
Sempre insieme!... e nessuno!... nessuno!...»
«Come mi fa bene sentirti parlare
così!... Come mi sembra bella l'alba!... Mi sento meglio, sì, mi pare di star
meglio... Fa venire Giannino... Povero bimbo! Fammelo vedere...»
Giorgio andò a prendere il
bambino, in punta di piedi, e la madre l'avvinse in un lungo e muto abbraccio,
colle lagrime impietrate nell'orbita; poi passò quel povero braccio debole e
stanco anche sul collo di Giorgio, ed entrambi si tennero stretti su quel
piccino roseo e fresco, che li guardava con i suoi grandi occhioni ancora
imbambolati dal sonno.
«Un miglioramento infatti c'è e
sensibilissimo», disse Rendona ch'era venuto per tempissimo. «Un vero
miglioramento sul quale si può contare. Alla buon'ora!... forse la scapperemo
bella anche quest'altra volta», borbottò fra i denti.
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