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Erminia migliorò realmente, e in
capo a pochi giorni entrò in piena convalescenza. Giorgio non la lasciava un
momento; la covava, come si dice, cogli occhi, quasi dovesse farsi perdonare un
gran fallo, dimenticando i brutti giorni passati a misura che la moglie
rifioriva in salute, e sentendosi rinascere anche lui. Godeva di vederla assisa
nella sua poltrona, vicino a quella finestra, pallida ancora e dimagrata,
sorridendo con una dolce tinta di mestizia a lui e al suo bambino, e provava un
vago sentimento di letizia a far riandare il pensiero a quella notte
angosciosa, passata ai piedi del letto, a quei tristi giorni agitati. Allorché
contemplava le membra gracili e qualche volta ancora tremanti della cara
persona provava una tenerezza nuova, più profonda, più intensa, e insieme una
commiserazione affettuosa per quel che ella avea dovuto soffrire, una grande
devozione, un gran rispetto per la debole creatura che gli avea dato tal
lezione di forza. In alcuni momenti avea vergogna, trovavasi umiliato dinanzi a
lei così nobile e modesta, sentiva confusamente una gran gioia di amarla tanto,
e d'esserne tanto amato, per dimenticare insieme a lei.
Verso gli ultimi del giugno,
Rendona diede finalmente la sua approvazione a quel famoso progetto d'andare a
passare l'estate in campagna, che Giorgio ficcava in tutti i discorsi, e
suggeriva come il rimedio per eccellenza. Faceva già troppo caldo per andare a
Tremestieri o alla Piana; Erminia avea fatto accettare Giarre. I preparativi
furono una grande occupazione e una gran festa. Partirono finalmente una
domenica, col treno della mattina; dal cielo sembrava piovere della polvere
d'oro, il mare luccicava di strisce d'argento; i giardini sparsi lungo la linea
gettavano dentro i vagoni la fragranza dei fiori d'arancio; alle stazioni di
campagna si vedevano dei contadini in abito di festa; le ragazze che passavano
per le vie di campagna parallele alla strada ferrata salutavano il convoglio
con grida giulive. Alla stazione di Acireale c'era una gran folla di venditori
ambulanti, di cacciatori, e di contadini della Calabria che venivano a stormi
per la mietitura. I due sposi erano soli nel loro scompartimento; Erminia
osservava con curiosità il va e vieni di bagagli e viaggiatori; Giorgio
guardava dall'altra parte. Il convoglio stava fermo più del tempo prescritto,
poiché sulle rotaie si eseguivano delle manovre per un altro treno speciale che
partiva. Questo treno era formato da due sole carrozze, oltre la macchina. In
quel momento giungeva un signore di una certa età, biondo e vestito di nero,
seguito da alcuni domestici, anch'essi in lutto; un impiegato della stazione
chiudeva con fracasso lo sportello di uno dei vagoni che all'interno era parato
di nero; in fondo a quel vagone si vedeva qualcosa come una bara, con una gran
corona di fiori e un gran nastro che pendeva da un lato. Il signore in lutto si
era levato il cappello, avea scambiato qualche parola col capo-stazione ed era
montato sull'altra carrozza. Alle finestre dell'albergo stavano affacciati
molti curiosi, coi gomiti appoggiati sul davanzale. Erminia s'era rivolta verso
il marito e l'avea visto pallido e stralunato, ritto presso lo sportello,
guardando quello spettacolo con occhi affascinati. La macchina dell'altro treno
fischiò e il funebre convoglio partì lentamente, barcollando. Giorgio, ch'era
rimasto tutto quel tempo come una statua, senza fare un gesto e senza dire una
parola, si strinse nelle spalle con un brivido improvviso di freddo, sprofondò
il capo nelle spalle, quasi volesse nascondervelo, e cadde seduto.
Erminia s'era fatta pallida
anch'essa, quasi avesse visto anch'essa quel fantasma implacabile mettevasi
fatalmente un'ultima volta sul loro cammino, e sembrava sorgere dalla tomba per
attraversare tutti i loro sogni di pace, di amore e di felicità. Giorgio era
annichilato: ad un tratto sentì stringersi la mano e si trovò il bimbo che gli
era stato messo fra le braccia; il povero Giannino lo guardava sbalordito. La
Ferlita con un movimento brusco e improvviso nascose il volto fra quelle
piccole braccia, fuggendo una visione terribile, e sentì le braccia di Erminia
che gli cingevano il collo.
«Povero Giorgio!» mormorava
Erminia. «Noi t'ameremo tanto! tanto!...»
Egli, senza una lagrima, ma
pallido come un cadavere, se li strinse entrambi sul petto, forte, e a lungo.
Allorché il convoglio si fermò a
Giarre egli alzò il capo tuttora pallidissimo, guardò al di fuori, respirò con
forza; sembrava si destasse da un lungo e penoso sonno. Il funebre corteo che
li precedeva era scomparso; il fumo svolgevasi ancora lentamente
dall'imboccatura della galleria, squarciandosi e diradandosi in larghi fiocchi
sul cielo azzurro.
Non rimaneva più altro del
passato.
Quando furono a Giarre, La
Ferlita vi trovò un dispaccio telegrafico che era stato rimandato dall'ufficio
di Catania, e che l'aspettava. Il telegramma non conteneva, oltre l'indirizzo e
la data, che questa sola parola:
«Addio.»
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