EROS
-1-
Verso le quattro di una fra le
ultime notti del carnevale, la marchesa Alberti, seduta dinanzi allo specchio, e
alquanto pallida, stava guardandosi con occhi stanchi e distratti, mentre la
cameriera le acconciava i capelli per la notte.
«Che rumore è cotesto?» domandò
dopo un lungo silenzio.
«La carrozza del signor
marchese.»
«Così presto!» mormorò essa
soffocando uno sbadiglio.
La cameriera era per chiudere
l'uscio del salottino che metteva nelle stanze del marchese, allorché entrò
bruscamente un uomo in abito da maschera, col passo malfermo, e il riso scuro.
«Cecilia dorme?» domandò senza
fermarsi.
«L'ho lasciata or ora, signor
marchese» rispose la cameriera mal dissimulando la sorpresa.
«Domandatele se può accordarmi
cinque minuti.»
Egli rimase immobile, col ciglio
corrugato, e lo sguardo fiso dinanzi a sé. La cameriera ritornando sollevò la
pesante portiera di velluto; il marchese fece alcuni passi verso l'uscio, volse
gli occhi a caso su di un grande specchio che gli stava di faccia: sembrò
esitare un istante, poscia alzò le spalle, aggrottò il sopracciglio, ed entrò
col sigaro in bocca.
La marchesa leggeva, voltata
verso il muro: udendo il passo di lui chiuse il libro, e domandò senza muovere
il capo:
«Siete voi?»
«Sì.»
Ella alzò gli occhi verso
l'orologio appeso alla parete.
«Son le quattro e mezzo,» rispose
il marito a quella muta e significativa interrogazione, masticando il sigaro
fra i denti.
«Datemi quella boccettina che è
lì sul tavolino, vi prego.» Egli buttò il sigaro nel camino, e non si mosse.
Allora la marchesa si voltò verso
di lui, con un brusco movimento che modellò le coperte sulla sua elegante figura
di donna; si passò una mano più bianca della batista che le cadeva lungo il
braccio, sui folti capelli castani, e fissò in volto al marito i suoi
grand'occhi scuri bene aperti
Egli era ritto, immobile, serio -
troppo serio per gli abiti che indossava - e avea tuttora un leggiero strato di
polvere sui capelli e sul viso: dovea essere giovane, invecchiato anzitempo,
pallido, biondo, elegante, alquanto calvo.
«Dovete parlarmi?» domandò la
marchesa dopo un breve silenzio.
«Sì.»
«Sedete adunque.»
Egli volse un'occhiata sulle
seggiole ed il canapè, ingombri di vesti e di arnesi muliebri, e rispose secco:
«Grazie».
«Vi chiedo scusa per la mia
cameriera» disse la moglie arrossendo impercettibilmente.
Alberti inchinò appena il capo.
«Scusatemi piuttosto la mia visita
importuna. Mi premeva di parlarvi... stasera.»
Cecilia gli lanciò uno sguardo
rapido e penetrante, e domandò:
«Avete perduto?»
«Non ho giocato.»
«Vi battete...?»
«Sì.»
Ella impallidì.
«Tranquillizzatevi» soggiunse il marchese.
«Non mi batto col conte Armandi.»
Ella si rizzò a sedere sul letto,
rossa in viso, coi capelli sciolti, e il corsetto discinto: «Perché mi dite
cotesto, ora?».
«Perché il mio amico Armandi è
spadaccino famoso, e avreste potuto essere inquieta per me.»
La donna rimase a fissarlo con
straordinaria fermezza.
«Perché vi battete?»
Il marito sorrise - sorriso
grottesco su quel viso impassibile - e rispose tranquillamente:
«Per voi.»
La marchesa si passò il
fazzoletto sulle labbra.
«Galli aveva lo scilinguagnolo un
po' sciolto, e pretendeva avervi vista al veglione, in dominò, nel palco del
mio amico Armandi.»
«Eravate a cena?»
«Sì.»
«Ah, vi battete per un cattivo
scherzo da dessert!» disse ella sorridendo amaramente.
Il marchese la guardò fiso.
Poscia, coll'aria più indifferente del mondo, prese un dominò ch'era sulla
seggiola più vicina lo buttò sul canapè, e sedette di faccia a lei.
«Perdonatemi» soggiunse; «non potevo lasciar calunniare mia moglie.»
Ella s'inchinò, troppo
profondamente ed ironicamente forse, e perciò tutto il sangue le corse al viso:
«Tutti sanno che Galli è geloso
di voi perché gli avete rubato l'Adalgisa!»
«Lo sapete anche voi?» rispose il
marchese accavallando l'una gamba sull'altra.
«Scusatemi, debolezze di donne!»
diss'ella un po' pallida, e cercando di sorridere.
«E di uomini, se volete» aggiunse
il marito con galanteria.
Ci fu un istante di silenzio:
ella giocherellava collo sparato del suo corsetto; egli dondolava la gamba
posta a cavalcioni: evitavano di guardarsi.
«Ora, siccome vi confesso che mi
preme di non rimetterci la pelle, e farò il possibile per evitarlo, domani sarò
ben lontano di qua.»
Ella rialzò gli occhi su di lui,
e ascoltava in silenzio.
«Desidero risparmiarvi tutti i
piccoli disturbi della mia lontananza, e vorrei perciò regolare di comune
accordo l'amministrazione della vostra dote...»
Cecilia non rispose.
«Vi lascerò procura affinché
possiate riscuotere da per voi quella somma che crederete...»
«Starete via molto tempo?»
interruppe bruscamente la marchesa.
«Non lo so io stesso... e se
volete suggerirmi la cifra...»
«Fate voi.»
«Ma io... francamente...
dividerei in parti eguali, come fra buoni amici.»
Ella, più pallida del lenzuolo
che la copriva, inchinò il capo.
Il marchese si alzò, accese un
sigaro alla candela,- e al momento di andarsene aggiunse, colla medesima aria
di noncuranza:
«Rimarrebbe ad intenderci
sull'educazione di Alberto, nel caso che la mia assenza si prolungasse
indefinitamente; ma il meglio, mi pare, è di uniformarci alla prescrizione
della legge. Voi vi occuperete di lui sino a' sette anni; dopo me ne incarico
io.»
E volgeva diggià le spalle. «Come
desiderate che sia educato vostro figlio sino ai sette anni?» domandò la
marchesa con voce malferma
Il marito si fermò su due piedi,
e parve riflettere un istante «Mah!.. come vorrete...» aggiunse poscia. «Se vi
dessi alcun suggerimento vi farei torto. Ed ora perdonatemi il disturbo, e
buona notte.»
Cecilia rimase immobile, muta,
pallida, cogli occhi fissi; ma nel momento in cui egli stava per passare
l'uscio, esclamò, con accento improvviso e soffocato, come se tutto il sangue
le fosse corso impetuosamente al cuore: «Sentite!...». Egli si voltò.
«Sentite!...» e le mancavano le parole. «Parlatemi francamente, in nome di
Dio!...»
Egli vide le lagrime che
luccicavano negli occhi della moglie senza batter ciglio. Istintivamente ella
si arretrò, spaventata dallo sguardo freddo ed incisivo di quell'uomo che
sembrava ricercare le angosce orribili di lei sin nelle pieghe più riposte del
suo cuore, per scrutarla con quel viso pallido e glaciale.
«Sembrami d'avervi detto
abbastanza. Mi batto con Galli perché ha insultato la marchesa Alberti, e
Armandi sarà il mio secondo. Parto per l'estero, vi lascio la metà della vostra
rendita, il mio nome, ed il nostro Alberto sino ai sette anni. Ma il mio sigaro
vi appesta la camera. Buona notte.»
Egli non si volse, ed ella non
disse motto.
Passando dall'anticamera udì
scampanellare nelle stanze della marchesa.
|