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Il marchesino Alberti fu educato
lontano da' suoi, alla spartana, nel collegio Cicognini. Il padre era morto
fuori d'Italia, quasi senza averlo conosciuto. La marchesa, sempre giovane ed
elegante, la più bella toscana che fosse in Milano, andava a fargli visita una
volta all'anno, quando c'erano le corse a Firenze, l'abbracciava,
l'accarezzava, gli recava dei confetti, e rimontava in carrozza sorridente.
Ella era stata colta da una pleurite, all'uscire dalla Scala, ed era morta
prima che i suoi amici avessero tempo di far venire il figliuolo da Prato. Il
povero orfanello aveva allora dodici anni e conservava religiosamente le poche
lettere che il babbo gli aveva scritto, e le scatole dei confetti che la mamma
gli aveva regalato. Una volta aveva chinato il capo, tutto vergognoso, allorché
il suo amico Gemmati gli aveva detto: «O perché il tuo babbo non vien mai a
vederti?». Un'altra volta avea arrossito perché certi forestieri che visitavano
il collegio avevano mostrato di conoscerlo come il figliuolo della marchesa
Alberti, e poi aveva arrossito di avere arrossito. Sua madre non gli
parlava mai del babbo. Di tutte coteste cose si rammentò più tardi.
Le prime inquietudini del cuore
gettarono nella sua mente il germe funesto dello esame.
A sedici anni Alberto era un
giovinetto alto e delicato, coi capelli biondi, il profilo aristocratico, un
po' freddo e duro il pallore marmoreo del padre, e i grandi occhi azzurri, il
sorriso affascinante e mobilissimo della madre - cuore aperto a due battenti,
immaginazione vivace, affettuosa, ma inquieta, vagabonda, diremmo nervosa,
ingegno più acuto che penetrante, analitico per inquietudine e per debolezza di
carattere - un ingegno che vi sgusciava dalle mani ad ogni istante -
diceva il suo professore di filosofia - atto a fargli cercare la decomposizione
dell'unità, o a dargli i peggiori guai della vita quando il cuore si fosse
mescolato della bisogna. Egli aveva preso di buon'ora l'abitudine di pensare,
come tutti i solitari. Più tardi trovò un amico, Gemmati, pel quale ebbe
tenerezze e gelosie d'amante, sino a tenergli il broncio quando seppe che
sorrideva alla figliuola del barbiere che stava di faccia. Molto tempo dopo, e
in circostanze assai diverse, mentre stava seduto accanto al fuoco, cogli occhi
fissi sulla fiamma, e le labbra contratte sul sigaro spento, il ricordo di
quella ridicola gelosia della sua infanzia gli balenò in mente colla strana
bizzarria delle reminiscenze. Egli buttò il sigaro, e si alzò più pallido ed
accigliato di prima.
Aveva fatto tranquillamente i
suoi studi in collegio sino a quell'età; era passato per le lingue, per i
numeri, per l'analisi della parola e del pensiero; a sedici anni era diventato
sognatore, fantastico, ipocondriaco, e sentì d'amare la prima volta, perché
tutti i poeti parlavano d'amore. Allora, trionfante di mistero, mostrò di
nascosto all'amico Gemmati i primi fiori vizzi che la cuginetta gli avea dato,
o che egli le avea rubati: «Ami l'Adele?» gli domandò Gemmati ch'era anch'esso
un po' parente della ragazza. «Sì!» rispose Alberto facendosi rosso. «O come?
se non la vedi quasi mai?» «Quando penso a lei mi par d'impazzire,» ed era
vero, ché le prestava tutte le amplificazioni della sua fantasia; ma allorché
le stava accanto, una volta all'anno, rimaneva ingrullito vicino a quell'amante
che gli proponeva di giocare a volano.
A venti anni egli uscì dal
collegio più bambino di quando c'era entrato; vuol dire con nessuna nozione
esatta della vita, con molte fisime pel capo, e certi giudizi strampalati e
preconcetti, nei quali si ostinava con cocciutaggine di uomo che pretenda
conoscere il mondo dai libri. Il direttore del collegio fece trapelare tutte
coteste brutte verità da una bella lettera che scrisse al signor Bartolomeo
Forlani, il babbo dell'Adele, zio materno di Alberto, aggiungendo che il nipote
non era riescito a superare gli esami dell'ultimo anno, malgrado il suo
bell'ingegno. Lo zio, che era tutore per soprammercato, e tornava giusto dal
fare i conti col fattore del nipote, rispose ringraziando, come meglio sapeva e
poteva, il signor direttore per l'ottima riuscita del giovanetto - una lettera
che fece montare la mosca al naso al buon direttore - come se lo si volesse
minchionare, e non era vero! — Scrisse anche al nipote, invitandolo a venire a
Belmonte, nome della sua villa sulla montagna pistoiese, e andò tutto festante
a prevenire la figliuola del prossimo arrivo del cuginetto, che il signor
direttore scriveva essersi fatto un bel giovane, e pieno zeppo d'ingegno. La
fanciulla, che non giocava più a volano, arrossì; il babbo se ne avvide,
aggiunse che, secondo gli ultimi affitti, i poderi del cugino rendevano
trentaduemila lire di netto, e se ne andò fregandosi le mani.
A Belmonte si aspettava cotesto
bel giovanetto, di cui il signor direttore diceva tanto bene, e che aveva
trentaduemila lire di rendita.
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