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Quella sera lo zio Bartolomeo
ritornò tardi dalla Sassosa, non si parlò di passeggiate in giardino, e
i lumi si spensero di buon'ora a villa Forlani. Alberto stette inutilmente
delle ore parecchie alla finestra, sperando rivedere quel tal lume dietro
quella tal persiana; ma la persiana rimase pudicamente chiusa, come stanno
abbassate le lunghe ciglia di una vergine cui si parli d'amore. Sembravagli che
quel filo di luce gli avrebbe irradiato il cuore di tutte le aureole che ci
sono in una dolce confessione, che quella finestra chiusa stesse pensando a
lui, e che dietro quelle imposte Adelina dovesse trasalire, come lui, allo
stormire di quelle frondi che il venticello agitava mollemente, o che stesse
arrossendo, sentendosi accarezzare il viso da quel medesimo profumo di
gelsomini che carezzava il volto anche a lui. Dolci sogni dei vent'anni che le
bufere della vita fanno svolazzare qualche volta sul cuore dell'uomo, persino
quando il sorriso dello scetticismo gli ha già increspato le labbra.
Lo zio Forlani aveva messo in
campo una gita alla Sassosa; i cavalli impazienti scuotevano le
sonagliere, e le giovanette si facevano aspettare. Finalmente comparve Adele un
po' pallida, e con un sorriso rugiadoso. Appena vide Alberto si fece rossa
rossa.
«Buon dì, cugina!» Ella gli
sorrise dolcemente, e gli porse la mano calda e febbrile.
«Sempre l'ultima!» disse ridendo Velleda,
che scendeva di corsa infilandosi i guanti. «Il mio cappellino non voleva
saperne di star fermo! Che hai? Come sei pallida!»
«Ho dormito male» rispose Adele
tornando ad arrossire.
Alberto sentì balzarsi il cuore
in petto.
Lo zio Bartolomeo sopraggiunse in
tempo, come se avesse avuto l'intuizione delle situazioni delicate.
«Andiamo, figliuoli, che il sole
è già alto.»
«Come sei bella oggi!» disse
Velleda all'Adele, allorché furono sole.
Scorse in tal modo una settimana.
Velleda sorprese più volte la sua amica cogli occhi pieni di lagrime:
«O cos'hai?» le domandava.
«Nulla, ho il cuore troppo
pieno.»
Lo zio Bartolomeo, da uomo che sa
far le cose, avea preparato al nipote una grata sorpresa. La domenica
successiva giunse da Pistoia anche Gemmati, e la sera ci fu gran veglia alla
villa Forlani. Vennero dei vicini, il notaio Zucchi colla sua signora, ed altri
tre o quattro. La serata scorse rapidamente in così bella compagnia; Alberto
vicino al suo amico fu più allegro del solito, ed anche chiassone; Gemmati era
un bel giovanotto, tagliato un po' grossolanamente, ma gioviale spiritoso e
simpatico; Velleda, che sapeva annoiarsi con garbo, come una signorina ammodo,
pestò sul piano tutto quello che vollero; Adele fece vedere l'album alla
signora Zucchi, e voltò le pagine a Velleda; Alberto l'aiutò di tanto in tanto,
per avere il pretesto di starle vicino, di toccare la sua veste o la sua mano
nel voltare i fogli; poi le tenne il broncio perché ell'era gaia e spensierata,
non cercava di guardarlo negli occhi, discorreva col primo venuto, ed evitava
che le loro mani s'incontrassero. Andò a sedere su di un canapè, rannuvolato in
viso, e lanciandole di tempo in tempo occhiate di fuoco. L'Adele che vedeva
tutto cotesto armeggìo come lo vedono le ragazze, colla coda dell'occhio, se la
godeva ch'era un gusto.
La signora Zucchi, che la
pretendeva ad elegante di provincia, si dava un gran da fare per mostrarsi
disinvolta, ed era sempre in moto, ora ad annoiare il signor Forlani che
giocava a scacchi col notaio, ora ad interrompere Velleda mentre suonava, ora a
far la bambina con Adele, o la civettuola con Gemmati. Finalmente si pose a
sedere sul canapè dove era il marchesino, facendo mille moine per attirarsi
l'attenzione del bel biondo, che se ne stava rincantucciato all'altra estremità
del canapè, con un certo viso da far credere che fosse in collera colla signora
Zucchi.
Uno dei vicini aveva recato una
gran notizia: si aspettava la contessa in villa Armandi - la bella
contessa Emilia dicevasi.
«Non dev'esser più giovanissima
la bella contessa!» disse l'elegante signora Zucchi.
«Tutta Firenze parla di lei, e
più d'uno ha fatto delle pazzie...»
«Grazie tante!...» rispose la
Zucchi assettandosi virtuosamente sul canapè. «Se non è che questo!...»
Il signor Forlani tossì; Velleda
suonò un accordo fragoroso che non era segnato sulla carta, e Adele spalancò
tanto d'occhi. Anche il notaio borbottò prudentemente: «Hum! hum! tutti i matti
non sono all'ospedale!...».
Velleda avea smesso di suonare;
Gemmati stava a discorrere con lei sottovoce, ella l'ascoltava, sorridendo a
fior di labbro qualche volta. Poi Gemmati s'era avvicinato all'Adele e s'era
dato a parlare con lei.
Alberto sentiva non so qual
dispetto, né sapeva egli stesso contro di chi; ma guardava di sottecchi la
cugina che non si occupava di lui com'egli avrebbe voluto. Infine si alzò, e
andò a mettersi accanto alla signorina Manfredini. Costei levò gli occhi dalle
fotografie, lo fissò con sicurezza da regina, sì che dovette chinare gli occhi
pel primo.
«È un simpatico giovane il suo
amico» gli diss'ella.
«Simpatico assai.»
Ella si rimise a sfogliare
l'album; il giovane cercò cogli occhi Gemmati, e lo vide presso il caminetto,
discorrendo con Adele che rideva come una pazzerella. Egli si fece rosso e si
mosse bruscamente per andarsene, ma invece d'infilare l'uscio ch'era dietro le
sue spalle trovò più corto di fare il giro del giardino per andare in camera
sua, e dovette passare così vicino alla cugina da darle quasi uno spintone col
gomito.
«Te ne vai?» gli domandò ella con
sorpresa.
Ei rispose con accento da Otello:
«Sì!».
«Perché?»
«Ho sonno» rispose bruscamente.
«Che bel giovane!» esclamò la
signora Zucchi, non così piano da non farsi sentire dall'Adele, e osservandola
con pettegola curiosità; la fanciulla, troppo ingenua per esser diffidente, si
fece rossa di giubilo, seguitando a fissare l'uscio pel quale egli era partito.
«E il figliuolo della signora
Cecilia?» domandò il notaio.
«Sì» rispose il signor
Bartolomeo; «ha trentaduemila lire d'entrata in bei poderi.»
«E sì che il fu marchese!...»
«Ed anche la fu marchesa, pur
troppo!...»
«Ma non parliamo dei morti. Quel
ragazzo è stato fortunato di avere un parente che si occupasse dei suoi
affari... Non faccio per dire, ma non avrebbe di che pagarsi nemmen la boria del
marchesato.»
«Però non sembra punto allegro!»
osservò la signora Zucchi.
«Cosa gli hai fatto?» susurrò
Velleda all'orecchio di Adele.
«Io?... nulla, ti giuro!» rispose
la fanciulla turbandosi.
Col cuore grosso ella andò a
cercare il cugino che la fuggiva, e lo trovò sulla terrazza, appoggiato alla
balaustrata.
«Cos'è stato?» gli domandò
timidamente, mettendoglisi accanto come un'ombra.
«Ma nulla è stato!»
Ella non ebbe il coraggio
d'insistere e tacque.
C'era accanto un ramoscello di
gaggia in fiore; ne spiccò due o tre fiorellini, e glieli porse con atto
gentile. Egli al sentirsi toccare dalla mano di lei trasalì.
«Conosci il significato della
gaggia?» le domandò con un certo turbamento nella voce.
Adele si fece di bracia, e
accennò negativamente col capo.
«Davvero?»
«Davvero!»
«Tanto meglio!» aggiuns'egli
sorridendo.
La fanciulla scappò in casa, e
corse all'orecchio di Velleda.
«Che significato ha la gaggia?»
le domandò sottovoce, più rossa della veste della signora Zucchi.
«Siamo di già a questi ferri?!»
esclamò Velleda ridendo. «Vuol dire rottura...»
La giovinetta non volle udir
altro, e tornò sulla terrazza trepidante. Il cugino teneva in mano un
ramoscello di vainiglia fiorita.
«Vedi» le disse «io non son
cattivo come te!» e le diede il fiore. Ella se lo mise in seno, e con grazioso
e pudico ardimento, gli strappò dall'occhiello i fiori di gaggia, li buttò
dalla terrazza, e fuggì. Alberto la vide, attraverso i vetri, passeggiare al
braccio della sua amica; le due giovinette discorrevano sottovoce, e sorridevano
di tanto in tanto. Tutt'a un tratto Adele si volse verso il balcone, e baciò il
fiore che egli le aveva dato. Al giovane sembrò che quei vetri s'irradiassero
di luce.
Sentivasi attratto verso di lei
dall'incantesimo più forte che avesse mai provato; ma ella sembrava evitarlo,
lo guardava con un certo imbarazzo, quand'egli s'avvicinava a lei faceva
istintivamente dei movimenti bruschi, come per fuggirsene, e rimaneva esitante,
a guisa di un uccello spaurito che batte le ali. Tutto ciò la rendeva così
bella che Alberto ne era affascinato; in quel momento tutte le attrattive della
vita, della gioventù e dell'amore erano per lui in quel pallido visino e sotto
quel modesto vestito grigio che tremava come le foglie agitate dalla brezza.
Velleda era lì presso, bionda, elegante, graziosa, con tutto il fruscìo della
sua seta, col profumo chinese del suo fazzoletto ricamato - egli se ne avvide.
«Adele, desidero parlarti» le
disse con voce tremante.
La fanciulla, un po' rassicurata
nel vederlo così commosso, rispose ingenuamente:
«Andiamo in giardino.»
«No... stanotte, quando tutti
saranno a dormire... Allorché sentirai picchiare tre colpi alla tua finestra...
sarò io...»
Ella sorpresa stava per domandargli la ragione di tutti quei
misteri che non capiva, quando Alberto la interruppe vivamente:
«Zitta! ci osservano!»
E tirò di lungo colla guardinga
disinvoltura di un cospiratore di melodramma.
Velleda s'era fermata ad
aggiustarsi un nastro, e lo zio Bartolomeo in quell'istante era tutto intento a
far vedere ai suoi ospiti che la sera era bellissima.
Alberto afferrò Gemmati per mano,
al momento in cui stava per ritirarsi nella sua camera, e lo condusse seco in
giardino.
«Stanotte le parlerò!» gli disse
all'orecchio con voce soffocata.
Gemmati si fermò a guardarlo
sorpreso, e gli rispose dolcemente:
«Perché cotesta pazzia? Non la
vedi sempre? Non puoi parlarle quando vuoi?»
«No!... non è la stessa cosa...
Tu non mi intendi... non puoi intendermi... non l'ami come io l'amo... L'hai
vista? Com'è bella! non è vero?»
«Sì, è un angioletto.»
«Anche la Velleda è bella...
forse più bella... in modo diverso... Tutti lo dicono... e alcune volte,
vedendole l'una accanto all'altra, anche io... Ma perché sembrami più bella
l'Adelina?»
«Perché l'ami.»
«E perché devo amar lei e non
Velleda, che è bella per lo meno quanto lei?»
«To! perché ella ti ama.»
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