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Gemmati era andato a Pistoia per
un par di giorni. Alberto l'aveva accompagnato per un tratto di strada; poi era
ritornato a piedi, per le scorciatoie che s'arrampicavano su per l'erta
fiancheggiate da siepi fiorite. La viottola sbucava sulla strada carrozzabile,
a pochi passi, in mezzo ai folti che continuavano a salire col monticello. Le
due ragazze stavano per mettervi il piede quand'egli arrivò dall'altra parte
della strada maestra; si voltarono al rumore dei suoi passi, e misero un oh!
prolungato.
«Vi ho fatto paura?»
«Paura di che?» disse Velleda.
«Sì, ci hai fatto paura» rispose
ridendo l'Adele.
«Volete che vi accompagni?»
«Dove andremo?»
«Ma.. dove vuoi» rispose Velleda
all'interrogazione dell'amica.
«Se tornassimo a casa?»
La signorina Manfredini non fece
alcuna osservazione; si voltò indietro, e incominciò a camminare verso il
cancello, appoggiandosi all'ombrellino, con quell'altera indifferenza che
l'avea fatta soprannominare la principessa.
«Sai, non è stato nulla!» disse
al cugino Adele, senza osar di guardarlo.
Velleda li precedeva senza affettazione
pel gran viale del giardino, voltandosi di tanto in tanto per fare una
interrogazione, o fermandosi per raccogliere col medesimo interesse un fiore o
un filo d'erba. I due cugini la seguivano l'uno accanto all'altra,
chiacchierando fra di loro, ma senza
darsi il braccio. L'Adelina era
un po' pallida, aveva certi rossori fuggitivi, certi impeti d'allegria, come
una pienezza di vita che si fosse concentrata nel cuore. Andava lentamente,
quasi fosse stanca, con certa mollezza carezzevole rispondeva a lui con voce
piena di una dolce sonorità, e gli sorrideva senza alzare gli occhi, con un
sorriso velato.
Entrando nel salotto Velleda
sprigionò i suoi magnifici capelli biondi, togliendosi il largo cappello di
paglia, e vi rovesciò tutto quel mucchio d'erbe e di fiori che si teneva in
grembo.
«Cosa vuoi farne?» le domandò
Adele.
«Il più bel mazzo, vedrai!»
Appena rimasero soli il cugino
prese la mano della giovinetta, e le disse: «Come sei bella!». Ella gli sorrise
senza alzare gli occhi.
Il sole faceva scintillare i
vetri della finestra, e inondava di atomi dorati il viso della fanciulla. Ella
lavorava in silenzio, col capo chino sul ricamo, e le sue mani, che si
affaticavano con febbrile impazienza, dicevano al giovane amato tutte quelle
cose che le labbra tacevano. - Essi si parlavano da mezz'ora senza aprir bocca
- lui cogli sguardi che la giovinetta si sentiva posare sui capelli come un
bacio - ella con quel silenzio, cogli improvvisi rossori che passavano sulla
nuca delicata, e col lieve tremito delle mani.
«Adele!» mormorò alfine Alberto
con voce appena intelligibile. Ella trasalì. «Sei in collera con me?» Essa
cercò due o tre volte il buco del canovaccio dove infilar l'ago, e balbettò:
«Perché?»
«Perché non mi dici nulla...»
«Sto ad ascoltarti» rispose
ingenuamente la fanciulla.
«Mi ami?»
Adele abbassò il capo sin quasi a
toccare il lavoro che avea fra le mani, e il sangue le corse come una vampa in
tutte le vene.
«Dammi qualcosa di tuo!...»
«Non ho nulla...»
Il cugino prese la forbicetta:
ella se ne avvide, impallidì leggermente, smesse di lavorare, ed attese, a capo
chino, trepidante. Ei prese un ricciolino di quei che le svolazzavano sul
collo, e lo recise.
«Ahi!» esclamò la poveretta, di
cui le mani tremavano forte.
«Ti ho fatto male?»
«...No... mi son punto un
dito...»
Trascorsero parecchi giorni di
gioie tumultuose, nascoste in due mani che s'incontravano per caso, e di
sospiri riboccanti di felicità, di rossori provocanti e di pudiche audacie, di
mostruose dissimulazioni, che avrebbero aperto gli occhi anche ad un cieco, e
di sotterfugi abilissimi, che nessuno faceva le viste d'indovinare, -
cercandosi cogli occhi, parlandosi colle mani, accarezzandosi col suono della
voce, respirando l'amore e l'amante coll'aria, col profumo dei fiori, col raggio
del sole, e col canto degli uccelli. Velleda, quasi fosse sola a vederci
chiaro, si faceva vedere il meno possibile. Gemmati era a Pistoia, lo zio
Bartolomeo si fregava le mani guardando il bel tempo che favoriva l'ubertosa
vendemmia. Era un paradiso. - Al giovane innamorato sembrava di vivere in
un'estasi deliziosa, che non era priva di voluttà, voluttà sottile, quasi
eterea, che gli ricercava squisitamente le fibre più riposte, e gli
centuplicava il piacere di certe sensazioni. Il suo cuore vi si abbandonava
mollemente; ei non desiderava dippiù, non avrebbe osato cercare più in là:
tutte le larve gioconde che avevano popolato i suoi sogni giovanili, la donna,
l'amore, la felicità, erano riunite in lei, nel suo sorriso, nella sua voce,
nelle carezze di quella vesticciuola che s'increspava un po' troppo sul petto e
sugli omeri delicati. Allorquando lo strascico superbo di Velleda frusciava sul
tappeto vicino a lui, o le sue chiome folte gli accarezzavano gli sguardi col
loro bel biondo, egli guardava con piacere, come se quell'altra bellezza invece
di essere una sottrazione alle attrattive di Adele, ne facesse parte,
appartenesse anch'essa alla donna amata... o al suo amore.
Del resto egli vedeva di rado
Velleda, all'infuori dell'ora di pranzo, e della sera - non sempre però. Alcuni
giorni dopo l'incontrò in giardino per la prima volta sola colla larga manica
svolazzante sul braccio, il viso colorito dei rosei riflessi dell'ombrellino,
lo sguardo vagabondo, l'andatura graziosamente indolente. Ella si fermò su due
piedi, gli stese la destra, e gli disse con una sicurezza di frase e
d'intonazione che parve pesare come una mano vigorosa sulla spalla di lui:
«E Adele?»
«Non l'ho ancor vista.»
Ella sorrise come sapeva
sorridere alcune volte, e disse: «Ooooh!...» Alberto arrossì per timore di
farsi rosso.
«La troveremo forse sulla
terrazza, dove il signor Forlani sta facendo collocar dei vasi di fiori»
soggiunse. «Vuole accompagnarmi?»
E andarono pel viale, l'uno
accanto all'altra. Le leggere balzane del vestito di lei sussurravano sugli
stivalini di pelle lucida.
«Le piace la campagna?»
incominciò Alberto dopo alcuni passi.
«Tanto!»
«Ci fa delle lunghe passeggiate?»
«Sl.»
«Non si vede quasi mai la
mattina!»
Ella si voltò a guardarlo, con una
sfumatura di sorpresa, e inchinò leggermente il capo, un po' ironica.
«Prima eravamo in due a correr
pel giardino» soggiunse tosto come a scancellare l'effetto del suo saluto. «Ma
adesso l'Adele è sempre stanca.»
«E non si annoia ad andar da
sola?» si affrettò a rispondere Alberto.
«Perché dovrei annoiarmi?»
«È pur vero che alle volte si
preferisce stare in compagnia dei propri pensieri...»
«Che pensieri?» interruppe
Velleda bruscamente, fissandogli gli occhi in viso.
Essi rimasero un istante a
guardarsi in tal modo.
Lo zio Bartolomeo, che stava lì
presso, gridò, come se avesse indovinato la situazione scabrosa:
«Ehi, ragazzo, chi vuol vedere la
bella carrozza? Correte sulla terrazza.»
Passò infatti un cocchio superbo,
luccicante di vernice, di stemmi dorati, di livree gallonate, di campanelli,
adorno di nastri e di fiori, alle testiere dei cavalli e agli occhielli dei
postiglioni; i razzi delle ruote brillavano al sole come rapide ali di uccello;
un sottil velo di polvere avvolgeva il legno elegante, imbottito di seta come
un elegante scatolino, e la bella signora che vi stava mezzo sdraiata,
appoggiando i piedi al sedile di faccia, con posa indolente, in mezzo ad una
nuvola di mussolina fresca e leggiera come il tulle; il velo azzurro del suo
cappellino svolazzava su tutto quell'assieme leggiadro.
«La bella signora!» esclamò
ingenuamente Adelina che era venuta correndo.
«È la contessa Armandi» disse
Velleda.
Alberto l'aveva seguita con un
lungo sguardo.
Tornarono indietro pel desinare,
e lo zio andava innanzi più lesto degli altri, dicendo che avea fame. Di tanto
in tanto Alberto rimaneva pensieroso, e non rispondeva subito, o rispondeva a
sproposito alle interrogazioni e ai discorsi delle due ragazze, che sembravano
festanti tutt'e due. A tavola parlò due o tre volte della contessa Armandi e
dopo desinare andò a fumare in giardino.
Si sentiva gonfiare in petto i
germi di tutte le forme dell'amore, come un rigoglio di vita, come acri fiori
di giovinezza: era uno strano miscuglio degli occhi turchini di Adele, del suo
sorriso pudico, e delle lusinghe, dei biondi capelli di Velleda, della sua
elegante civetteria più in là, fra le nuvole azzurre e purpuree dell'avvenire,
ondeggiava vagamente la larva di un altro amore nebuloso come la mussolina che
modellava il bel corpo della contessa Armandi, sdraiata mollemente nella
carrozza come in un letto. - Tutti cotesti fantasmi gli turbinavano
confusamente nella mente, gli scorrevano per le vene col sangue acceso di
febbre. - Quel fanciullo che cominciava a sentir la donna aveva bisogno di
piangere.
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