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Allora fu recato in villa un
invito pel ballo della contessa Armandi.
Andarono in una magnifica sera
d'autunno. Le siepi fiorite esalavano vigorosi profumi; le sonagliere dei
cavalli avevano un non so che di festoso; le fruste dei postiglioni
scoppiettavano allegramente; l'ultima squilla dell'avemaria moriva in
lontananza, coll'ultimo raggio di sole che colorava di tinte opaline uno
strappo di cielo. Poi venne la notte, tacita, stellata.
Il giardino della villa Armandi
era illuminato, la scala adorna di fiori, tutte le finestre brillavano come le
lenti di una lanterna magica. - Alberto guardava avidamente attraverso un'iride
di tappezzerie, di colori, di dorature e di specchi, vedevasi un via vai di
gente in festa; nelle sale olezzavano profumi soavi, brillavano gemme superbe
ed occhi vellutati, c'era una carezza di musica, di frasi leggiadre e di raso
che frusciava - e in mezzo a tutto questo una donna più bella, più elegante di
tutte le altre, che si chiamava la contessa Armandi.
Era una delicata bellezza:
l'occhio nero, superbo, profondamente e voluttuosamente solcato, l'andatura, la
voce ed il gesto molli, gli omeri candidi e profumati come le foglie di
magnolia, ondulati in linee pure, carezzate dalle trecce nere ed elastiche, il
seno squisitamente modellato nell'avorio, marmorizzato da sfumature azzurrine,
vaporoso pei veli ricamati, lo strascico della veste susurrante in modo
carezzevole dietro di lei, la punta dello scarpino di raso che luccicava di
tanto in tanto come una lingua serpentina, la fronte altera e il sorriso
affascinante. - Ella aveva quarant'anni.
Allorché si trovarono faccia a
faccia con Velleda, coteste due donne leggiadre in modo diverso, scambiarono
un'occhiata che avrebbe potuto dirsi il luccicare di due spade da duellanti,
mentre s'inchinavano graziosamente. - La contessa sorrise all'Adele, al signor
Forlani, e si voltò a guardarlo mentr'egli si allontanava.
Tutti gli sguardi seguivano la
signorina Manfredini; sembrava infatti che le grazie della sua persona
sorridessero trovandosi nel proprio elemento; nella sua elegante disinvoltura
c'era un che d'impaziente, di avido, di febbrile, che luccicava nei suoi occhi,
e dilatavasi colle rosse narici, mentre ella agitava il ventaglio chinese.
Anche Alberto sorprese sé stesso a seguire la direzione di tutti gli sguardi, e
fissava lungamente la contessina - poscia, inquieto, cercò cogli occhi l'Adele
Velleda stava presso il pianoforte
circondata dai più eleganti giovanotti, come una cerbiatta attorniata da una
muta di cani; ma la cerbiatta teneva testa da tutte le parti, col brio, col
sorriso, con una parola, con un gesto, spiritosa, caustica, leggiadra e
impertinente. Due o tre volte volse a caso gli occhi su di Alberto, e ad un
tratto gli fece segno col ventaglio di avvicinarsi; prese il braccio di lui e
si allontanò.
«Non ne potevo più!» disse
ridendo.
Il povero giovane si sentì tutto
sossopra.
«È naturale che tutti le facciano
la corte...» balbettò.
«Vorrebbe farmela anche lei?»
diss'ella con un accento e un sorriso singolari.
Alberto ammutolì, e a lei il
sorriso morì sulle labbra.
Passeggiarono lentamente per le
sale, ella battendo col ventaglio il tempo di un valzer che suonavano.
«Com'è bello!» esclamò Alberto.
«È Strauss,» rispose ella
distratta.
«O perché non si balla un giro?»
«A proposito della corte?»
diss'ella sorridendo.
Alberto volle sorridere colla
medesima disinvoltura, ma ci riescì assai male.
«Ebbene...» disse «sì!»
«No!» rispose ella col medesimo
tono, ma un po' più recisamente.
Il giovane insistette con
insolito calore; ella diveniva più capricciosa e più ostinata, scuoteva il capo
con certa grazia risoluta, e mordevasi le labbra con certo sorrisetto malizioso,
appoggiando le spalle allo stipite di una finestra e stringendo il ventaglio
nelle mani. Di tanto in tanto, quasi non se ne avvedesse, raggi seduttori le
scappavano dagli occhi. Ad un tratto, senza dir nulla, mentre sembrava più
ferma nel rifiuto, appoggiò mollemente il braccio alla spalla di lui, e si
lasciò andare.
Essa ballava in modo singolare,
un po' diritta, col capo alto, e il braccio disteso. Di tanto in tanto gli
diceva qualche parola senza importanza, o scuoteva con grazia inimitabile la
sua bionda testolina. Si fermò all'improvviso, un po' rossa, un po' smarrita,
svincolò con impazienza impercettibile la mano che ancora egli le teneva, gli
lanciò a bruciapelo uno sguardo singolare, viso contro viso, e impallidì
leggermente.
«Non ballo più» gli disse «sono
stanca.»
La contessa Armandi era lì presso
ed esclamò:
«Che bella coppia!»
Velleda rispose con un grazioso
inchino. Alberto, passando accanto a uno specchio, vi gettò uno sguardo e
poscia arrossì di averlo fatto; ma nello specchio sorprese due grandi occhi che
lo seguivano amorosamente dal fondo di un canapè. Andò verso la povera Adelina,
la quale se ne stava modestamente rannicchiata fra due mamme, e sembrò
rianimarsi come lo vide venire e gli sorrise cogli occhi.
«Non balli?» domandò il cugino,
allorché furono soli.
«Non mi hai invitato a ballare!»
rispose Adele timidamente carezzevole.
«Ci son tanti giovanotti...!»
«Non voglio ballare cogli
altri...»
«Perché?»
«Perché... perché... perché non
voglio.»
Ei chinò il capo, tuttora
bollente del soffio che Velleda vi aveva gettato, e si allontanò sopra
pensiero. Stava da qualche tempo nel vano di una finestra, colla fronte sui
vetri, guardando nel buio, allorquando udì un fruscìo di vesti vicino a lui, e
si trovò accanto la contessa Armandi.
«Non balla il cotillon?...»
gli domandò.
«No, contessa.»
Ella sembrò volere aggiungere
qualche altra parola, ma gli fece un segno col ventaglio, sorrise e si
allontanò. Ei seguiva macchinalmente cogli occhi il turbinìo di quella danza in
mezzo alla quale la contessa stava come una regina, di cui tutti si
contendevano un sorriso o un giro di valzer. Improvvisamente quella regina andò
diritto verso di lui, gli gittò come una sultana il suo fazzoletto ricamato,
gli mise sulla spalla la mano splendida di gemme, e fra le braccia la vita
sinuosa ed elastica - poi, quando ebbe finito di ballare, lo ringraziò con un
sorriso.
«Voglio conoscerla meglio:» gli
disse «facciamo un giro.»
Tutti gli sguardi si volsero su
quell'uomo fortunato e quell'altera beltà che passavano. Egli pensava al giorno
in cui l'aveva vista mollemente distesa nella sua carrozza, fra una nuvola di
polvere e di veli.
Entrarono nella stufa, profumata,
silenziosa, oscura. La contessa sedette. Il discorso andava a sbalzi, scucito
con certa bizzaria capricciosa che ella sapeva dargli, strisciando in tutti i
zig-zag serpentini pei quali ella voleva farlo passare, brioso, civettuolo,
elegante come lei. Poi ella non disse più una sola parola, appoggiò il mento
sulla mano, e guardò qua e là con occhi distratti; il fisciù alitava
lieve lieve, e gettava una certa dolce ombra livida sul seno d'alabastro: ella
apriva e chiudeva macchinalmente il suo ventaglio, e faceva scrosciare le
stecche fra di loro. Tutt'a un tratto piantò in volto ad Alberto uno sguardo e
un sorriso singolari, e gli disse:
«Ma noi ci compromettiamo
orribilmente, mio caro!»
Si alzò ridendo e si allontanò.
Allorché gli ospiti di villa
Forlani lasciarono la festa erano le due del mattino. La notte era buia, il
cielo senza stelle, la campagna paurosa. Di quando in quando il vento mugolava
fra le gole lontane. Adele un po' melanconica stava nel fondo della carrozza,
avviluppata nel suo mantello. Velleda teneva il viso allo sportello. Alberto
respirava a pieni polmoni.
«Che bella sera!» esclamò.
Velleda gli rivolse una rapida occhiata.
I sogni di quella notte! popolati
di tutte le larve dell'amore, di tutte le febbri della giovinezza, di tutte le
lusinghe delle vanità, di tutte le ebbrezze dei piaceri! Povera Adele, se
avesse potuto indovinarli!
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