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I contadini dei dintorni udirono
abbaiare i cani tutta notte come se una bestia randagia avesse scorazzato per quei
monti. Alberto rientrò verso il mezzogiorno, sotto pretesto d'aver fatto una
lunga passeggiata mattinale, stanco, trafelato, febbricitante. Alla villa trovò
tutto sossopra: i domestici andavano e venivano in furia, la carrozza era
dinanzi alla porta, coi cavalli ancora fumanti di sudore; lo zio Bartolomeo era
ritornato allora allora in compagnia del medico. Durante la notte Adele era
stata assalita da un accesso di febbre violentissimo. A quella notizia Alberto
si sentì mancare il cuore.
Trovò lo zio sull'uscio della
camera di lei.
«Dove sei stato?» gli domandò.
Ei balbettò delle bugie, al par
di un colpevole. Lo zio era così turbato da non accorgersi del turbamento del
nipote.
«La povera Adelina sta male,
sai!» gli disse. «Non si sa che diavolo abbia; anche il dottore ci ha perso il
latino. Entra pure. Adele, c'è qui Alberto!»
Il giovane incontrò gli occhi di
Adele, ardenti come carboni, che lo fissavano senza dir motto; tutti i muscoli
del viso di lei sembrarono decomporsi. Il dottore stava a capo del letto, e
teneva fra le dita il polso dell'inferma; ei volse al sopravvenuto uno sguardo
che sembrava scrutatore.
«Chi è quel signore?» domandò il
medico al signor Forlani sottovoce.
«Mio nipote Alberto, il fidanzato
della mia figliuola.»
«È strano!» borbottò l'altro.
«M'era parso di sentir trasalire il polso.»
E si mise nuovamente a guardare
in viso l'inferma che stava immobile, cogli occhi fissi, le guance accese, le
manine che stringevano di quando in quando convulsivamente la rimboccatura
della coperta, e le labbra agitate da un tremito nervoso.
La camera era quasi al buio; si
udiva solo il tic-tac dell'orologio ed il cinguettìo degli uccelli sul
davanzale della finestra.
«Avevamo passato tranquillamente
la sera in casa» diceva il signor Forlani a mo' d'informazione; «la mia bambina
era sana e allegra come sempre; ella non ha chiamato una sola volta in tutta la
notte; la Gegia che dorme vicino alla sua camera, non l'udì muoversi, né
fiatare; stamane poi me la trova in quello stato e colla finestra spalancata,
per il gran vento di stanotte, o perché l'abbia aperta ella stessa, senza
ricordarsene poi, sentendosi soffocare dal sangue che le montava al capo. Dalle
otto a questa parte è stata sempre in quello stato; non parla, non risponde,
sembra non abbia conoscenza. La contessina Manfredini, la sua più cara amica, è
venuta a dirle addio prima di partire, ed ella non se n'è accorta; anzi,
vedendola entrare, è divenuta pallida, ha chiuso gli occhi, e allorché la sua
amica volle baciarla fu colta da un accesso di febbre o di convulsione, si
diede a tremare e a rabbrividire che faceva pietà; non ha risposto una sola
parola a tutto quello che le diceva la contessina, sembrava non sentisse
proprio nulla, e seguitava a stringere convulsamente la rimboccatura della coperta,
come la vede fare adesso; d'allora non ha aperto mai bocca.»
Il medico non diceva nulla.
«Guarda, Adele, c'è qui il tuo
Alberto!» riprese il signor Forlani ad alta voce.
Alberto, spinto da lui, si
accostò al letto. L'inferma lo fissò con quegli occhi spalancati, lucidi e
senza sguardo, talmente che egli non poté fare a meno di chinare i suoi.
«Stai male, povera Adele?»
mormorò con voce commossa.
La poverina incominciò a tremare,
quasi fosse colta dal ribrezzo della febbre, ma non rispose.
«È il tuo Alberto!» insisté il
babbo.
Ella tremò più forte.
«Non mi conosci?» balbettò il
giovane, non sapendo che dire, piegandosi verso di lei.
«È partita!...» disse l'Adele con
un soffio di voce appena sensibile, e con tale accento che lacerò il cuore di
lui.
«Cos'ha detto?» domandò il babbo.
«Non ho inteso...» rispose
Alberto chinando gli occhi dinanzi agli occhi di lei, che lo fissavano sempre.
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