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Un amore così romanzesco dovea
sedurre l'immaginazione del giovane fantastico. Le sue passioni eterne erano
state così passeggiere, le sue impressioni così vivaci e mutabili, che
allorquando avea sentito il bisogno di aver fiducia nel sentimento che riempiva
tutto il suo essere, era divenuto inquieto. L'amore di quella strana fanciulla
che gli sacrificava le più legittime esigenze, e il suo avvenire e il rivale
più terribile, lusingava ad un tempo la vanità e il cuore di lui, e insieme il
sofisma. Ei vi si abbandonò con ebbrezza, senza esaminare dove potesse
condurlo, senza discutere se fosse possibile così come mostravasi.
I due giovani si vedevano spesso;
ora regolarmente, ed ora a caso - è vero che aiutavano parecchio il caso. - Il
cavallo di Alberto non sapeva passeggiare che fuori di Porta Romaria, e la
signorina Velleda faceva quello che non aveva mai fatto, l'aspettava alla
finestra, o sotto le acacie del giardino. Allorquando erano insieme si dicevano
ben poco, discorrevano degli argomenti più comuni, che per loro avevano
cent'altri significati; i loro occhi si incontravano di rado, le loro mani non
s'incontravano mai. La contessa Manfredini aveva l'aria di fiutare il vento. De
Marchi era ritornato da Napoli, e la sua prima visita era stata per il villino
Flora. Le trattative pel matrimonio non erano molto avanzate. certuni dicevano
anzi che avevano fatto un passo indietro, ma gli interessati erano tutte
persone ammodo, e sapevano continuare le loro relazioni in modo da non dar
pretesti agli indiscreti ed ai curiosi; tanto più che degli impegni seri non ne
erano mai stati presi officialmente.
In uno degli ultimi ricevimenti
di casa Manfredini, De Marchi erasi mostrato più premuroso e galante del
solito. Alberti, rincantucciato in un angolo, soffriva in silenzio. Velleda
stava servendo il tè, e passandogli accanto lo vide così pallido e contraffatto.
«Che avete?» gli domandò. Ei le lanciò un'occhiata febbrile. Velleda passò
oltre.
Alberto la seguì con avido
sguardo. La vide passare accanto a De Marchi, che stava appoggiato allo stipite
di un uscio, colla mano nascosta nel gilé, colla lente incastrata nell'occhio,
bello e sardonico. Alberto non poté udire che cosa colui le avesse detto
inchinandosi verso di lei; ma lo vide sorridere, e anch'essa sorrise ed arrossì
leggermente. Nell'angolo dov'era Alberto si udì un rumore di porcellana che rompevasi;
nessuno se ne accorse, o ci abbadò: la signora più vicina non volse nemmeno il
capo; soltanto Velleda, dall'altra estremità della sala, volse un'occhiata così
rapida e sfolgorante verso quel rumore, che De Marchi s'aggiustò la lente
sull'occhio e guardò anche lui.
La signorina Manfredini continuò
a sgusciare fra la folla, briosa e gentile. Infine passò accanto ad Alberto,
senza una nube sulla fronte, senza volgere gli occhi su di lui, e gli gettò
sommessamente questa parola:
«Seguitemi.»
Alberti andò dietro di lei
nell'altra sala, e, temendo di far scorgere la sua agitazione, si mise a
guardare con grande attenzione il giuoco che non capiva. Poco dopo si trovò
vicino Velleda, disinvolta, scherzando coi giuocatori e con coloro che stavano
a veder giuocare. Avvedendosi di Alberto gli disse: «Non fuma?» e andò a
prendergli un sigaro da un astuccio intagliato. «Passate di là senza farvi
scorgere» soggiunse così piano che appena egli poté udirla.
Quell'altra stanza era un piccolo
gabinetto da lavoro che metteva da una parte nella camera della madre, e
dall'altra in quella della signorina Manfredini. C'era un grande scrittoio fra
due finestre, un canapè di faccia, e un piccolo tavolino accanto: fra il canapé
e lo scrittoio aprivasi l'uscio della camera di Velleda. La stanza era poco
illuminata da una sola lucerna a ventola posata sul tavolino. Alberto aspettò
alcuni istanti, inquieto, coll'occhio e l'orecchio tesi; il cicaleccio della
conversazione; e le esclamazioni dei giuocatori si udivano distintamente, di
tanto in tanto il fruscìo di una veste passava attraverso l'uscio socchiuso.
Tutto ad un tratto apparve Velleda, camminando sulla punta dei piedi con passo
rapido e risoluto, e gli prese la mano. Ma nel medesimo istante lo fermò, col
braccio teso, e rimase immobile, ansiosa, atterrita, guardando l'uscio dal
quale era entrata. Spinse bruscamente Alberto nella sua camera, ed ebbe appena
il tempo di chiuderne l'uscio. Tutto questo accadde in un lampo.
«Cosa fai qui?» domandò la
contessa Manfredini entrando.
«A momenti mi si stacca un
bottone dal guanto...»
«Sei pallida.»
«Non mi sento bene.»
«So tutto... Ho visto il marchese
Alberti...»
«Mamma!...»
«L'ho visto attraverso lo
specchio, ti dico, quando ha lasciato cadere la tazza... Non mancò di fare uno
scandalo... Costui vuol comprometterti ad ogni costo!»
La giovanetta fu sublime per
presenza di spirito, ed ebbe uno di quei tratti d'audacia che hanno soltanto le
donne.
«Ci ascoltano, mamma!» esclamò
con accento supplichevole.
La contessa volse uno sguardo furtivo
verso la stanza accanto dove giocavasi, ed uscì.
Velleda, pallida, strema di
forze, e più bella che mai, entrò risolutamente dov'era Alberto.
«Ebbene?» gli disse fermandoglisi
dinanzi.
Egli aveva tutto udito.
«Perdonatemi!» mormorò. «Ero geloso.»
«Di chi?»
«Di colui!...»
«Sareste qui se aveste il diritto
di essere geloso?» rispose ella semplicemente.
Il giovane volse attorno uno
sguardo commosso, quasi reverente, come se il profumo verginale di quella cameretta
avesse qualcosa d'augusto, e le cadde ai piedi.
«È vero!... Cosa avete fatto,
Velleda!...»
«Ho fatto la sola cosa che
potesse provarvi come vi ami; ~ rispose la giovanetta, senza una sola
vibrazione nella voce.
Alberto osò allacciarla colle
braccia, e accostarle alla fronte le labbra tremanti. Ella socchiuse gli occhi,
e si abbandonò mollemente. Ad un tratto trasalì, lo respinse con vivacità. e
stette ad ascoltare. «Mio Dio!» esclamò.
In un lampo raffermò il viso e lo
sguardo, uscì con un movimento felino, e si trovò a faccia a faccia colla madre
e colla contessa Armandi.
«La contessa non si sente bene»
disse la Manfredini. «Hai qualche cordiale nella tua camera?»
«Nulla, mamma!» rispose Velleda
con insolita vivacità.
L'Armandi s'era buttata sul canapè,
e malgrado il suo gran male sembrava stesse assai meglio della ragazza ch'era
pallida come un cencio. Ella avea rivolto un'occhiata rapida e penetrante su di
Velleda, e s'era scusata alla meglio.
«Qualcosa troverò» disse la
Manfredini dopo aver saettato alla sfuggita uno sguardo acuto sulla figliuola.
«Andrò io, mamma!» esclamò
costei, di cui l'angoscia acuta tradivasi nell'accento. Ma prima che ella
potesse gettarsi dinanzi all'uscio, la madre era entrata precipitosamente.
L'Armandi prese la mano della
fanciulla, per ringraziarla, senza distogliere gli occhi da quelli di lei.
La contessa Manfredini ritornò
quasi subito, perfettamente calma, tenendo in mano una boccettina che faceva
odorare alla contessa. La madre e la figlia non si rivolsero uno sguardo.
Il rimedio parve giovare
immensamente alla contessa, e dopo cinque minuti ella ritornava in sala al
braccio della signora Manfredini. Velleda si fermò ancora un po' dinanzi allo
specchio per aggiustare qualche piccolo disordine della sua toeletta, senza
neppur volgere gli occhi sullo specchio. Ella accompagnò con un lungo sguardo
attraverso lo specchio le due signore, e allorché fu certa di essere sola, si
precipitò nella sua camera, e la scorse in una sola occhiata. Non c'era
nessuno. Corse alla finestra, alta un primo piano dal suolo, e la trovò
socchiusa, soffocò un grido, e cadde sui ginocchi.
Il giorno dopo, alle quattro, il
marchese Alberti presentavasi alla contessa Manfredini, e le chiedeva la mano
di madamigella Velleda.
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