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Il marchese era un orso
campagnuolo, avea trentaduemila lire di entrata, e il matrimonio fu presto
combinato.
«Lo sapevo!» esclamò l'Armandi,
con un sorriso mordente, quando le diedero la notizia.
E soggiunse, forse per addolcire
o spiegare quell'affermazione singolare:
«Quel giovane ha la bosse del
matrimonio.»
La sera stessa, mentre stava per
andarsene, disse ad Alberto:
«Ve l'avevo detto che avreste
finito per sposarla voi. Siete fatti l'uno per l'altra.»
E gli volse le spalle. Partendo
non si accorse del saluto di lui, e non gli rispose; ad un tratto, tornando
indietro, e stendendogli la mano:
«A proposito, le mie
felicitazioni» gli disse.
Velleda amava moltissimo il suo fidanzato;
ma l'amava com'ella poteva amare, con molta riservatezza, e un po' freddamente
in apparenza. Alberto invidiava a lei l'inalterabile disinvoltura e il dominio
di sé stessa. L'elettricità di cui era carica l'anima ardente di lei, celavasi
sotto un esteriore glaciale, e scoppiettava solamente in qualche lampo degli
occhi, o nella reticenza di un sorriso, o in una stretta di mano più lunga del
solito, mentre si separavano sull'uscio: che metteva nel giardino. Quel pudore
elegante aveva la sua leggiadrìa.
La signora Manfredini sembrava la
vera amante di Alberti; lo lisciava, lo carezzava, lo adulava, se lo teneva
attaccato ai panni, e gli accordava l'onore di offrirle il braccio molto
spesso, assai più spesso ch'egli non avrebbe desiderato. Qualcheduno degli
amici di casa avea domandato quale delle due Manfredini sposasse il marchese
Alberti.
Il matrimonio era stato fissato
pel settembre. Le signore Manfredini sarebbero andate in giugno a Livorno, e
Alberti dovea andare a raggiungerle, dopo aver fatto una corsa pei suoi poderi,
e date le disposizioni per certi restauri che occorrevano ad una villetta sul
lago di Como, che lo zio Bartolomeo avea salvato dal naufragio delle sostanze
paterne, e nella quale gli sposi dovevano andare a passare l'autunno.
In quel tempo a Firenze non si
parlava che di un gran signore romano, giunto di fresco, il quale s'era fatto
vedere alle Cascine in un superbo equipaggio. Il principe Don Ferdinando
Metelliani era un omiciattolo dieci o dodici volte milionario, che troneggiava
dai quattro cuscini del suo phaéton come un Apollo brutto. La folla
agitavasi al suo passaggio come uno sciame di formiche sorprese dal piede di un
villano, lo invidiava, lo ammirava, lo derideva, lo deificava; tutti gli occhi
volgevansi verso il suo cocchio lucente; il nome di lui, la sua ricchezza, la
sua età, i suoi vizi, correvano sulle bocche di tutti; le più belle e le più
schive guardavano con maggior attenzione che non sogliono accordare ad un
semplice mortale, cotesto scimmiotto che le fissava insolentemente, e buffava
loro il fumo in viso del suo avana, e lo trovavano schicche perché
spingeva i suoi quattro cavalli sulla folla come se si sentisse abbastanza
ricco per pagare le ossa che avrebbe rotto. Il principe discendeva da quel
patriziato romano che aveva cinque secoli di esistenza allorquando la più
antica nobiltà d'Europa arava la terra o serviva nelle sue legioni; era
ufficiale delle Guardie Nobili, e cotesto soldato, discendente da una famiglia
che aveva condotto alla vittoria parecchie generazioni dei padroni del mondo,
s'era rifiutato a battersi in duello; avea quarant'anni, e avea sciupati tutti
i godimenti della vita; ascoltava messa tutti i giorni, si comunicava due volte
al mese, gettava l'oro sotto le ciabatte delle cortigiane, e avea fatto
rinchiudere la sua unica sorella in un monastero per non darle una dote. -
Sopra tutto ciò due milioni di scudi.
Il principe Metelliani
frequentava la migliore società di Firenze, e avea conosciuto la signora
Manfredini all'Ambasciata di Napoli; l'altera bellezza di Velleda avea colpito
il dissoluto patrizio, e soltanto
dinanzi a lei, che non gli volgeva uno sguardo, egli aveva chinato la testa
pelata e superba; s'era incaponito con ostinazione da uomo onnipotente a far la
corte alla sola donna che non la facesse a lui. La signorina Manfredini era
troppo orgogliosa per accorgersene, e allorché vide la prima nube sulla fronte
di Alberto, ella aggrottò il sopracciglio. - Una volta che il principe s'era
mostrato più galante del consueto, ella, con un cenno impercettibile, chiamò il
suo fidanzato, che ronzava lì presso, e lo presentò a Don Ferdinando. Quei due
uomini si scambiarono un saluto d'antipatia cordiale.
Ma la contessa Manfredini
civettava col Metelliani in luogo della figliuola. Allorché entrava in una sala
al braccio di lui, o allorquando poteva presentarlo alle sue amiche, sembrava
raggiante, ed era arrivata a chiamarlo semplicemente Don Ferdinando. - Don
Ferdinando lasciava fare graziosamente. La figliuola al contrario conservava
una serenità olimpica; soltanto allorché le donne più nobili, più belle, più
eleganti, si abbassavano a mendicare l'attenzione di quell'omiciattolo, che non
sembrava curarsi d'altri all'infuori di lei, le sue rosee narici si gonfiavano
appena. Di tanto in tanto era distratta, o pensierosa; qualche volta Alberto la
sorprendeva fissando su di lui uno strano sguardo, come se lo vedesse per la
prima volta, e stesse esaminandolo tacitamente. Essa non avea mai voluto
dirgliene il perché, e finiva sempre motteggiandolo.
Gli amici di casa Manfredini
avevano combinato una gita, e naturalmente la madre e la figlia erano della
partita; siccome Alberti, vivendo ancora da scapolo, non avea che due cavalli,
dei quali uno da sella, il principe Metelliani avea messo la sua carrozza a disposizione
delle signore Manfredini. Questa circostanza avea fatto nascere un piccolo
diverbio con Alberto che era un po' geloso del principe, senza che volesse
confessarlo; ma la contessa avea spiegato nella lotta tutta la sua vanità di
mondana, tutta la sua prepotenza di suocera, e avea vinto. Velleda s'era
acconciata alla vittoria colla superba indifferenza che le era particolare. Al
ritorno la lunga fila delle carrozze, con in testa la sfolgorante daumont delle
Manfredini, avea fatto un giro per le Cascine, e allo svoltar del piazzone il
principe era venuto loro incontro a cavallo. Allorché Velleda, distesa
mollemente nella superba calèche, volse uno sguardo su quell'immensa
piazza affollata, e vide tutti gli occhi fissarsi sui magnifici cavalli, sulle
ricche livree di quell'uomo che stava dinanzi a lei col cappello in mano, il
seno le si gonfiò con violenza.
Alberti ebbe il torto di
congedarsi un po' bruscamente quella sera. Velleda gli aveva detto, più
freddamente del solito:
«Avete un carattere singolare
davvero!»
Quand'egli si allontano,
l'accompagnò con uno sguardo carico di pensieri; poi alzò leggermente le
spalle.
Il domani stavano per uscire in
carrozza - carrozza da rimessa - e vedendo il suo fidanzato ancora imbronciato,
Velleda gli disse ridendo, mentre si abbottonava il guanto:
«Orsù!... Sareste capace
d'ingelosirvi del Metelliani?»
«No!» rispose Alberto con un po'
di superbietta appunto da geloso.
«Alla buon'ora!» diss'ella; ma
non rise più.
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