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Al cominciar della primavera la
contessa Armandi era partita per la campagna, e non s'era più fatta vedere in
casa Manfredini; soltanto era ritornata in giugno per due o tre giorni a
Firenze, prima di andare ai bagni; ma il caso avea fatto sì che non si fosse
più incontrata con Alberto.
La signora Manfredini, senza
saper perché, avea rimandato alla seconda quindicina del mese la partenza per
Livorno, e perciò anche Alberti avea rimandato la sua. Velleda non faceva la
menoma osservazione, però era divenuta bisbetica, capricciosa, lunatica, e
qualche volta anche dura ed ingiusta verso il suo fidanzato. La madre prendeva
le parti della figliuola, e faceva prevedere una suocera coi fiocchi, o
piuttosto con gli artigli. Allora Velleda avea dei momenti di affezione più
espansiva del solito, quasi dei pentimenti, che col suo carattere sembravano
più straordinari.
Alberto avea tal'altra idea di
Velleda, che avrebbe creduto oltraggiarla mortalmente se avesse confessato gli
ingiustificabili ma invincibili assalti di gelosia che l'assalivano di tanto in
tanto. Il Metelliani era così attempato, e così poco seducente, che egli non
avrebbe giammai creduto possibile un pensiero di Velleda per quell'uomo. Don
Ferdinando era divenuto intanto uno dei più assidui frequentatori del villino
Flora. La signora Manfredini trovava sempre modo di far cadere nel discorso
questo fatto, e Velleda non poteva fare a meno di esserne lusingata
internamente, poiché Don Ferdinando era l'idolo della società, e le più nobili
dame erano gelose di cotesta preferenza. Metelliani possedeva quella
disinvoltura da gran signore, che adattasi egualmente alla impertinenza e alle
belle maniere; l'omaggio rispettoso di quell'uomo superbo e sprezzante verso
tutti gli altri, dovea lusingare enormemente l'amor proprio della fanciulla
vanitosa; ella avea finito per ringraziarnelo con una parola graziosa, con un
sorriso, con un'occhiata, sempre però accompagnati da quell'ombrosa
riservatezza che era la sua più bella attrattiva. Alberti soffriva come un
dannato, arrossiva e indispettivasi contro sé stesso, ma senza potersi vincere.
Volere o non volere, era lui solo che in mezzo a tanti sorrisi rappresentasse
la parte di uggioso, e la mamma Manfredini glielo faceva intendere in tutti i
modi; la figliuola, ch'era superbetta, si mordeva le labbra senza dir nulla.
«Vi sareste pentito d'avermi data
la vostra parola?» gli domandò un giorno, smettendo di giocare colla cagnetta.
«Io!... come?.. Ma perché mi dite
ciò?...» Velleda si mise ad inseguire così pazzamente Gemma pei viali del
giardino che Alberto non poté aggiungere altro, e non osò buttarsi ai piedi di
lei.
Siccome il Metelliani non
trascurava occasione per dimostrare la sua premurosa amicizia verso le signore
Manfredini, avea insistito per avere l'onore di accompagnarle all'ultima festa
a Pitti. Le signore avevano accettato. Passando in mezzo a quella folla di
uniformi, di decorazioni, di grandezze mondane, appoggiata al braccio di
quell'uomo di cui il nome correva sulle bocche di tutti, che portava la testa
alta nella casa del Granduca, Velleda sentì qualche cosa di mai provato, che le
fece rialzare il capo con un impercettibile movimento, come se avesse voluto
gettarsi sulle spalle a guisa di manto reale il ricco volume dei suoi capelli.
Ella volse sul principe un'occhiata rapida e sfolgorante, nella quale
sembrarono riflettersi lo scintillìo delle decorazioni e dei ricami
dell'uniforme di lui.
Che brutta sera pel povero
Alberti, il quale dovette subirsi la mamma, e vide la sua fidanzata sempre a distanza
che si abbandonava con radiosa spensieratezza al piacere di esser corteggiata!
Ei procurò di avvicinarsi alla contessa Armandi, per non rimaner né solo né
colla suocera; ma anche la contessa gli volse le spalle - però senza che se ne
fosse accorta, di certo - poiché incontrandolo poco dopo si mostrò
amabilissima, prese il braccio di lui, e si mise a girare per le sale.
Dopo aver chiacchierato un bel
pezzo d'argomenti diversi gli domandò con accento singolare:
«Si diverte?»
La domanda era semplicissima, ma
Alberto si trovò imbarazzato a rispondere: «M'accorgo» disse alfine «che non
son fatto per cotesti divertimenti.»
«Cosa vuole! Qualche volta
bisogna sacrificarsi per gli altri. Velleda ci si diverte tanto! cotesto non è
un piacere per lei?»
«Sì» rispose egli secco secco.
La contessa ebbe uno di quegli
scoppi di ilarità che la rendevano formidabile; sicché Alberto si fece di
porpora. Ma tosto ella, per dimostrargli in certo modo la vera causa di quel
riso a doppio indirizzo, soggiunse:
«Quel povero Metelliani m'ha
l'aria di un rajà indiano, così camuffato e carico di brillanti.»
Alberto saettò sul rajà romano
uno sguardo che l'Armandi sorprese.
«Senza adulazione, sa ch'è un bel
trionfo il suo?» gli disse. «Non dipenderebbe che da Velleda di vedersi deporre
ai piedi tutti quei ninnoli, e di aversi la corona di principessa allo
sportello della carrozza!...»
«Se le fossi grato di una simile
preferenza mi parrebbe di insultare la mia fidanzata» rispose Alberto, cercando
di adattarsi all'aria scherzosa dell'Armandi, ma con troppa vivacità.
La contessa gli piantò in viso
uno sguardo acuto e un sorriso incredulo, e gli disse tranquillamente:
«Ella è geloso!»
«Io?... di colui!...»
«Superbo!...»
E si mise a solfeggiare col
ventaglio la musica che suonavasi. «Ta... ta... ta... Vogliamo sederci qui?»
Cambiò discorso e si misero a
guardare il via vai della folla.
Poco dopo passavano la contessina
Manfredini e il principe Metelliani. L'Armandi non aveva detto una sola parola,
ma troncò a mezzo la frase incominciata, e li seguì semplicemente collo
sguardo. Velleda rivolse loro da lungi un grazioso cenno del capo.
«Verrà anche lei a Livorno?»
domandò l'Armandi al principe.
«Sì.»
«Ma la Toscana se lo ruba
addirittura!»
«Non domando di meglio che
d'essere rubato, bella con tessa.»
Ella scoppiò a ridere
ironicamente, ma si fece rossa. «S'accomodi!» gli disse, volgendo a mezzo le
spalle.
Anche Alberto s'era fatto di
fiamma in viso; lanciò a Don Ferdinando uno sguardo provocatore, e gli disse
colla voce leggermente tremante:
«È singolare però che ella cerchi
da un pezzo!»
Velleda si morse le labbra, e
colse il primo pretesto per allontanarsi.
«Cosa avete fatto, malaccorto!»
esclamò l'Armandi allorché furono soli. «Vi siete perduto!»
«Come?... Perché?...»
«Avete fornito a Velleda le armi
che ella cercava!... Lasciamoci, lasciamoci!»
Le signore Manfredini partirono
com'erano venute, insieme ad Alberti. Velleda parlò poco, e smontando di
carrozza gli porse la mano come al solito. Ei la lasciò un po' bruscamente.
Il giorno dopo, andando al
villino Flora, gli fu detto che le signore erano in giardino; ma ci trovò
soltanto Velleda, che stava passando in rivista i suoi fiori. La ragazza lo
salutò freddamente, continuò a discorrere per un cinque minuti col giardiniere di
cardenie e di magnolie, rispondendo con monosillabi alle domande di Alberto, e
poscia s'incamminò lentamente verso casa, precedendolo, di qualche passo. Prima
di giungere all'uscio, si fermò su due piedi, e gli disse, voltandosi verso di
lui:
«Alberti, vi prego di ripigliarvi
la vostra parola.»
Egli rimase un istante
sbalordito. «Perché?» balbettò.
«Non ci abbassiamo entrambi con
spiegazioni superflue, voi sapete il perché assai meglio di me. Siete
liberissimo di seguire le vostre inclinazioni, ma vi prego di rispettarmi tanto
da non farmene spettatrice. Lasciamoci tranquillamente, da gente ammodo, da
buoni amici, sinché vi è tempo.
Alberto non diceva una parola, e
rimaneva come di sasso; fissando lei che giocherellava in aria distratta coi
fiori che aveva colto. «Sentite, Velleda!» esclamò quindi con uno slancio
d'affetto; «vorrei poter baciare la sabbia che calpestate!... Grazie!...»
La contessina lo guardò attonita.
«Di che?...»
«Siete gelosa!... Dunque mi amate
ancora!»
Velleda aggrottò il sopracciglio
e parve un istante turbata ed esitante. «Chi v'ha detto ch'io sia gelosa?»
rispose poscia alteramente.
«Ma dunque?... Ma perché?... Ma
allora perché volete lasciarmi?»
Dopo alcuni istanti la giovanetta
rialzò il capo che teneva chino, e rispose lentamente:
«Perché non ci conveniamo... Ci
siamo sbagliati. Rimediamoci, finché siamo in tempo.»
«E il rimediarci non vi costerà
nulla?» domandò Alberto pallido come cera.
«Nulla!» diss'ella dopo alcuni
istanti.
«Rimediamoci allora!»
Fecero alcuni passi in silenzio.
«Noi partiremo doman l'altro per
Livorno» riprese Velleda con voce calma. «Questa sera andremo in casa Armandi e
domani faremo le ultime visite di congedo; quindi saremo occupatissime sino al
momento della partenza; così potremo far tacere le ciarle degli indiscreti, per
adesso. Durante la stagione dei bagni avremo poi tutto il tempo per disporre le
cose nel modo più conveniente...»
Alberto s'inchinò in silenzio.
«È inutile che riveda vostra
madre?» le domandò.
«È inutile; sa tutto.»
Ella gli stese mollemente la
mano, sfiorò appena quella di lui, ed entrò in casa.
«Povera Adele!» mormorò Alberto,
come se allora soltanto indovinasse quel che avea dovuto soffrire la povera
cugina, quando il più acuto dolore della vita l'aveva addentata.
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