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Alberto s'incamminò lentamente
andando alla ventura, col sigaro in bocca, il viso pallido, l'occhio ardente e
fisso dinanzi a sé, guardando macchinalmente il lago, i monti, la gente che incontrava.
L'aria fresca del mattino facevagli dilatare i polmoni con forza, e sembrava
infondergli un'esuberanza di vita. Il canto degli uccelli, i mille profumi dei
campi, i primi raggi del sole lo penetravano vagamente, sottilmente, con
un'altra fisonomia, quasi gli appartenessero e fossero al mondo soltanto per
lui, incarnandosi confusamente in una immagine fitta nel cervello, nel cuore,
dinanzi agli occhi. Il suo pensiero era inerte e vertiginoso; tutti gli
avvenimenti di quella notte si urtavano confusamente nella sua memoria fra di
loro, e l'abbagliavano con una specie di luminosa intermittenza. Non avrebbe
saputo esprimere quel che provava, se era felice oppur no, sentiva un gran
sbalordimento, un desiderio febbrile, un'immensa gioia tumultuosa, inquieta - e
lei, sempre là, dinanzi agli occhi, dentro di sé, dappertutto.
Le vie cominciavano a popolarsi,
il lago formicolava di barchette, e Alberti gironzava sempre attorno a quella
villa che esercitava un fascino su di lui. Ella doveva esser lì dietro ogni
persiana, ansiosa, bramosa come a cercarlo anche lei cogli occhi, colle
reminiscenze, colla fantasticheria. Contemplava quella terrazza ov'erano stati
insieme quella balaustra alla quale ella s'era appoggiata, quella
scalinata per la quale era discesa, quel lago sul quale s'era cullata
mollemente la loro barchetta, circondata di tenebre discrete, dolci,
misteriose. Tutte quelle cose adesso erano inondate di sole, senza ombre, senza
veli, petulanti. - Udiva dentro di sé quella parola «m'aspetti» - e quel
piccolo grido soffocato.
Verso le undici non poté più
resistere al desiderio di rivederla, come se l'avesse lasciata da un secolo, ed
andò. La cameriera gli disse che dormiva. Ei se lo fece ripetere due volte,
quasi non fosse ben sveglio egli pure, e volse le spalle. Poi tornò indietro, e
lasciò per lei il suo biglietto di visita, sul quale scrisse in inglese col
lapis:
«Invidio voi che potete dormire.»
Andò all'albergo, si buttò sul
letto, e dormì due o tre ore un sonno da ubbriaco. Una lettera di lei venne a
svegliarlo di soprassalto.
«Amico mio, - diceva - verrete
domani alle quattro? Avrò anche la signora Rigalli, e faremo della musica.
Conto su di voi. Oggi sono a pranzo dai Corvetti.»
Il carattere era elegante,
tracciato con mano sicura, la firma era per intero: «Emilia Armandi».
Il povero giovane stette mezz'ora
voltando e rivoltando fra le mani quel fogliettino profumato, e rileggendo
quelle due righe così semplici, così chiare, che non riusciva a comprendere.
Ei passò tutto il giorno in una
specie di sonnolenza e di sbalordimento, pensando a lei, a che cosa stesse
facendo, a che cosa fosse accaduto, al perché gli ordinasse di non vederla sino
all'indomani, al come ella potesse aspettare sino a questo domani senza
soffrire al par di lui. Trasaliva al ricordarsi con miracolosa precisione le
parole di lei, il tono della sua voce, il profumo dei suoi capelli; stava
guardando il lago, quel medesimo lago che cominciava a farsi bruno, e su cui le
stelle cominciavano a scintillare. Fra il disordine delle sue idee ce n'era una
più insistente delle altre: perché ella gli avesse fatto promettere di buttarsi
nel lago, e perché poi non gliel'avesse ordinato. Sapeva che non l'avrebbe
obbedita, e che quel tale amore lo rendeva vile?
Il giorno dopo, avviandosi verso
le quattro alla villa Armandi, incontrò la signora Rigalli che andava ad
imbarcarsi insieme ad un'allegra brigata.
«Non va dalla contessa Armandi?»
le domandò con un po' di sorpresa.
«No. L'Emilia doveva anzi venire
con noi, ma stamane m'ha scritto che ha cambiato idea. Vuol essere dei nostri?»
«Grazie, non posso»; e si
allontanò almanaccando perché l'Armandi in un biglietto di tre righe ci avesse
cacciato anche la musica e la signora Rigalli.
Trovò la contessa nel suo
salotto, sul suo canapè, circondata dai suoi amici e dalle sue amiche; fu
accolto col miglior sorriso, e fu presentato agli altri senza il menomo
imbarazzo. Ella era perfettamente padrona di sé, piena di brio e disinvoltura -
scherzò anzi coll'aria un po' stralunata di lui - parlò di corse sul lago, di
partite di piacere, delle avventure dei bagni. Un tale domandò del conte
Armandi, ch'era ancora a Torino, sebbene la sessione fosse chiusa da un pezzo.
«Verrà quanto prima,» rispose la
contessa «appena terminati non so quali lavori di non so qual commissione
parlamentare; e rivolgendosi alla signora che aveva al fianco aggiunse
sorridendo: «Quella benedetta politica è una rivale pericolosa.»
Alberto ascoltava la sua voce, e
guardava le sue belle mani, ornate di larghi manichini di trina, che ella tirava
in sù allorché le cadevano lungo il braccio. Alle ultime parole di lei la fissò
in viso; poscia arrossì, senza saper perché, distolse gli occhi, e prese parte
alla conversazione con vivacità nervosa, a sbalzi, con lunghe interruzioni che
avrebbero grandemente sorpreso tutti coloro che erano presenti se non fossero
stati tutti perfettamente ben educati.
«Non va colla signora Rigalli?»
domandò ad un tratto.
La contessa gli rivolse
un'occhiata tranquilla e rispose:
«No.»
«Mi disse però che contava su di lei...»
«Souvent femme varie!» rispose l'Armandi colla massima
disinvoltura, e sorridendo un po'.
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