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A Bellagio il marchese Alberti
aveva la riputazione d'essere alquanto originale, e infatti menava tal vita da
giustificare cotesta riputazione. Non si faceva vedere da nessuno per delle
settimane intiere, e poi tutt'a un tratto mischiavasi a tutti i crocchi,
prendeva parte a ogni divertimento, mostravasi assetato di piaceri, montava
spesso a cavallo, faceva delle corse da numida, o dormiva per ventiquattr'ore,
e lo s'incontrava a scorrazzare per i sentieruoli più deserti ad ore da poeti,
o passava le notti ad un giuoco d'inferno, perdendo delle grosse somme, colla
stessa indifferenza con cui vinceva. Le signore chiudevano un occhio sulle
stranezze di lui perché egli li aveva molto belli tutt'e due, era giovane e
ricco, e qualche volta anche grazioso ed amabile. Quel po' di corteccia ruvida
che gli rimaneva attaccata, e di cui s'ingegnavano a gara di mondarlo, davagli
anch'essa una certa agreste attrattiva - dicevano. Egli aveva i migliori
cavalli, gli amici più simpatici, ed una volta pregò due di costoro d'andare a
sfidare un tale, il quale aveagli detto che aveva anche la più bella amante. I
due amici cominciarono dal ridere, ma per rabbonirlo dovettero finire col
dirgli che non era proprio il caso di prendere in mala parte un complimento di
cui molti altri sarebbero stati lusingatissimi. Alberto erasi incaponito che
quel complimento fosse ingiurioso per la riputazione della dama. Il più intimo
dei due, quegli che desinava più spesso con lui e che gli doveva di più, lo
tirò alquanto in disparte e gli disse:
«Caro mio, sei ben sicuro
d'essere stato il primo amante di quella dama?... Be'... Non c'è di che
arrossire... Lasciamola lì piuttosto. Un duello la comprometterebbe
infinitamente dippiù. Andiamo a cena e dormiamoci sopra.»
La contessa riceveva Alberti frequentemente
di giorno, anche quando non c'era per tutti gli altri, e di sera, allorché
faceva della musica: il marchese era distinto pianista e l'Armandi amava la
musica appassionatamente - ognuno lo sapeva. Alberti la vedeva in tutte le
riunioni, in tutte le partite di campagna, e in tutte le traversate sul lago;
era con lei sovente a cavallo o in carrozza, da solo o in numerosa compagnia,
stava con disinvoltura nel salotto di lei, l'accompagnava al piano, e faceva il
galante colle amiche di lei; sapeva condursi con garbo, rispettava le esigenze
sociali, e piegava il capo con grazia alle piccole ipocrisie. Ella invece stava
in mezzo a questi scogli colla testa alta, con aristocratica disinvoltura,
dominando tutto ciò che non poteva elevare sino a lei; ingentiliva Alberto, lo
perfezionava, stava a discorrere con lui accanto al piano, o presso il tavolino
da lavoro, o si faceva accompagnare in giardino, dandogli l'ombrellino da
portarle, e si lasciava baciare il guanto - sicché tutte le volte che gli
permetteva di strapparle quel guanto, o lo precedeva sotto i folti alberi del
boschetto, sorridente, esitante, guardandosi intorno nel raccogliere le pieghe
del vestito, e camminando in punta di piedi, a lui sembrava che il cielo si
spalancasse a due battenti. - Giammai non aveva voluto più andare una sola
volta sul lago con lui.
Si approssimava il ritorno del
conte Armandi; Alberti lo sapeva vagamente, ma non aveva mai osato domandarne
alla contessa, ed ella non gliene avea mai parlato. Un venerdì ch'era andato da
lei per combinare una gita sul lago, e gli avevano detto che sarebbe ritornata
a momenti, s'era messo al piano per ingannare il tempo, e scorreva della musica
che la sera innanzi le avea mandato egli stesso. Infatti udì aprir l'uscio del
salotto, e si alzò credendo fosse lei. Invece era la bambina, che giungeva
correndo prima della madre, e vedendo Alberto s'era fermata sull'uscio.
«Le faccio paura, signorina?»
disse Alberto.
In quel momento entrò anche la
contessa; gli stese la mano, buttando l'ombrellino sul tavolo, e togliendo alla
figlia il largo cappello di paglia.
«Come sei rossa!» le disse
baciandola. «Vai dalla Tilde.»
La bimba gli rese il bacio, e
prima d'andarsene offrì anche ad Alberto la guancia vermiglia. Egli l'accarezzò
sui capelli.
La madre tirò a sé bruscamente la
figliuola, la baciò di nuovo, con singolare vivacità, e l'accompagnò sino
all'uscio.
«Perché non avete baciato la mia
bambina?» gli domandò tornando indietro.
Alberti tardò un istante a
rispondere; ma ella, senza dargliene il tempo, andò al piano, e prese il
fascicolo ch'era sul leggio.
«Vi ringrazio della musica»
aggiunse senza voltarsi e sfogliandola. «Ci ho dato un'occhiata ieri stesso. È
proprio bella.»
E tornò lentamente verso il
canapè, senza levare gli occhi dalla carta, sedette, e spiegò il quaderno sui
ginocchi.
«Avete fatto una lunga
passeggiata?» domandò Alberti.
V'ho fatto aspettare? Scusatemi.
Ero andato ad incontrare Armandi. Invece ricevo una lettera che rimanda la sua
venuta a domani.»
«Ah!»
«Volete essere dei nostri a pranzo
domani?»
«Grazie.»
«Rifiutate?» diss'ella facendosi
un po' rossa.
«Sì.»
«Non se ne parli altro.»
Suonò il campanello, e si fece
recare il cestellino da ricamo
«Si fermerà molto tempo il
conte?» domandò Alberto giuocherellando col gomitolo.
«Un mese circa, sin che andremo a
Belmonte, poscia sarà a Torino per la riapertura della Camera.»
Alberto chinò la fronte sulla
palma, e dopo una breve pausa disse plano:
«Sicché... non ci vedremo sino a
giugno?»
«Come volete che vi riveda senza
presentarvi a mio marito?»
«È vero.»
Il silenzio che seguì avea
alcunché d'imbarazzante. La contessa, tutta intenta al suo ricamo, riprese
alfine:
«Iersera so che avete fatto una
grossa perdita al giuoco. Ho il diritto di parlarvene, perché sono la vostra
migliore amica. Ciò è irragionevole, mio caro.»
«Avrei anche potuto vincere. Sono
sfortunato, ecco tutto;» rispose Alberto seccamente
«Ebbene, abbiate giudizio anche
per la fortuna che vi manca: non giuocate.»
«Lo volete?»
«Ve ne prego.»
«Non giuocherò.»
Ella chinò il capo.
«Che bel lavoro!» disse Alberto
poco dopo.
«Vi piace?»
«Moltissimo. È un lavoro per
uomo?»
«Sì.»
«E... senza essere indiscreto?»
«Nessuna indiscrezione, mio
caro;» rispose l'Armandi sorridendo; «anzi quel che c'è di più legittimo: è per
mio marito.»
«Oh!... proprio un regalo di
nozze!» diss'egli sorridendo a denti stretti.
La contessa sorrise senza alzare
gli occhi dal ricamo, e arrossì lievemente. Ei cavò l'orologio e si alzò.
«Addio» gli disse l'Armandi
stendendogli una mano, mentre coll'altra contava i punti del disegno.
Alberto le strappò il ricamo, e
lo stracciò.
«Marchese Alberti!» esclamò
l'Armandi rizzando il capo, altera, corrucciata e imponente.
Il marchese fece barcollando due
o tre passi verso l'uscio, si arrestò sulla soglia, ed esclamò torcendosi le
mani:
«Ah! come son vile!»
«No, siete pazzo!»
Gli volse le spalle, andando
verso la finestra; e poscia, volgendosi vivamente verso di lui:
«Anche geloso di mio marito?»
Alberto impallidì.
«Tanto meglio!» esclamò la contessa
con un sorriso irritato.
«Perché?... perché volete ad ogni
costo che io stringa la mano di quell'uomo?» disse Alberti con accento brusco.
Ella lo fissò un istante con
occhi di sfida e di collera.
«Perché vi ho dato il mio onore,
e voglio che voi mi diate il vostro!»
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