-36-
Il conte Armandi era uscito verso
le tre; la musica gli piaceva al Regio, o alla Scala, con accompagnamento di
ballerine, e aveva il buon gusto di stare nel salotto della moglie soltanto
allorché ella non riceveva. Era dunque montato a cavallo, ed era andato a
desinare alla villa di un suo amico.
Andava tranquillamente di passo,
col sigaro in bocca, piegandosi sulle staffe per osservar da buon cavallerizzo
la levata del cavallo, e compiacendosi nell'atteggiarlo come fosse al maneggio.
La giornata era bella, rinfrescata da una piacevole brezzolina che faceva
sventolare la banderuola di segnale posta da un lato della via che stavasi
riparando. Il cavallo del conte ebbe un ghiribizzo alla vista di quella
banderuola rossa che svolazzavagli dinanzi agli occhi, ricalcitrò, e passò
sbuffando, guardandola torvo, con le narici fumanti, e contrastando alla mano.
Armandi volle assicurarlo: cavallo e cavaliere si incaponirono,
s'imbizzarrirono, sbrigliando, impennandosi, spronando, e rinculando verso
quella parte della strada ch'era tutta sossopra e sparsa di buche, quasi il
cavaliere avesse il proposito deliberato di rompersi il collo; tutt'a un tratto
il cavallo mise un piede in falso, cadde, tentò generosamente di rialzarsi con
isforzi disperati, e infine, vinto dal dolore, si rovesciò senza mettere un
nitrito, da bravo. Armandi era saltato abilmente in piedi fuor delle staffe, e
cercò rianimare colla briglia e colla voce il povero animale che aveva
l'angoscia negli occhi, sollevava il capo e ricadeva. «Povero Falco!» disse il
conte. Infine, vedendo che non c'era proprio nulla da fare raccomandò il
cavallo ferito agli operai che lavoravano sulla strada, promettendo di mandar
subito dei soccorsi, e invece di tornare a piedi per la via fatta, che sarebbe
stata troppo lunga, scese sulla riva in cerca di un battello, e si fece
condurre per acqua alla sua villa.
La villa dalla parte del lago
avea un cancello che aprivasi sul molo microscopico dov'erano ormeggiate le due
barchette del conte. Un centinaio di passi più in là era la casetta del giardiniere,
addossata al muro di cinta, tappezzata di gelsomini, e di cui il tetto rosso
faceva un bel vedere sul verde cupo dei grandi alberi del boschetto. Il conte
andò a picchiare sui vetri della finestra col pomo del suo frustino, e si fece
aprire il cancello, rimandò il giardiniere, e s'avviò pel viale che menava alla
terrazza. Camminava lentamente, e di tanto in tanto fermavasi come per stare in
ascolto, e alzava gli occhi verso le finestre del salotto.
Il viale, prima di mettere alla
scalinata della terrazza, serpeggiava attorno ad una gran vasca ombreggiata da
magnifiche piante acquatiche, e biforcavasi per mettere in un sentieruolo che
conduceva alle scuderie, passando dinanzi ad una capanna rustica ch'era chiusa
da lungo tempo.
Il conte s'era avviato pel
sentieruolo, teneva gli occhi fissi sulla capanna abbandonata o sulle scuderie,
cercando di veder qualcuno da mandare in soccorso pel povero Falco.
Ei passò accanto ad un padiglione
di bosso e di mortella, tenuto con somma cura, aperto da quattro arcate, ornato
di sedili e di statue, dinanzi al quale il sentieruolo svoltava bruscamente per
salire l'erta verso la capanna.
Alberti era giunto all'ora
fissata. La contessa l'aspettava: ei le s'appressò rapidamente, le baciò la
mano, e le disse con voce breve:
«Vostro marito?»
«Uscito.»
«Tornerà presto?»
«Desinerà fuori di casa.»
«Come siete bella!» esclamò.
Ella si svincolò dalle mani che
le stringevano i polsi, e andò a tirare il cordone del campanello.
«Lasciate aperto quell'uscio» ordinò
al domestico «fa troppo caldo.»
«Non m'amate più?» le disse
Alberto sottovoce, rispondendo all'occhiata timida e come di scusa ch'ella gli
rivolse tornando a sedersi presso di lui.
La contessa chinò la fronte nella
mano. Dopo un istante rispose con voce commossa:
«Se vi amo!»
«Mi amate in un modo singolare
davvero!»
«Singolare davvero! Sono una
matta! Non so dov'abbia la testa in certi momenti... Stanotte non ho chiuso
occhio pensando alla follìa che ho fatto ieri sera!...»
«Perdonatemi!... Se sapeste!....
Perdonatemi!...»
Si parlarono a voce bassa, quasi
senza guardarsi, padroneggiandosi perché i loro volti rimanessero impassibili,
acciò qualche specchio indiscreto non li tradisse alla curiosità del domestico
che stava nell'altra stanza. Quelle passioni ardenti, che sibilavano come il
soffio del vapore imprigionato sotto quella maschera d'indifferenza, aveano
qualcosa d'irresistibile.
La contessa s'alzò, andò ad
aprire le persiane e si mise a guardar fuori.
«C'è un'arietta fresca che
ristora» disse dopo alcuni istanti. «In giardino si deve star benissimo.
Andiamo?»
Alberto la segui.
Ella precedeva di qualche passo,
coll'andatura svogliata, dimenando un po' il braccio, e tenendo l'ombrellino
sulla spalla. Si vedeva il suo busto piegarsi e inarcarsi con graziosa
elasticità sotto il tessuto leggero che gonfiavasi e increspavasi
alternativamente. Si fermava agli sbocchi dei viali, mettevasi sugli occhi, per
guardar lontano, la mano che al sole sembrava di un roseo trasparente, poscia
s'avviava risolutamente, con vaga spensieratezza: il viale si arrampicava
sull'erta serpeggiando; la contessa arrestavasi di tanto in tanto per ripigliar
fiato, e voltavasi verso di Alberto per dirgli qualche parola. Ad un certo
punto gli stese, senza voltarsi, la mano: ei la baciò.
«Cosa volete che faccia per
provarvi quanto vi ami?» gli disse risolutamente.
«Datemi la chiave del cancello
che mette sul lago.»
Ella si voltò, lo fissò seria
seria, e scosse il capo due o tre volte.
«Vedete!» disse Alberto
amaramente.
La contessa gli strinse la mano,
conducendolo con dolce violenza; svoltò l'angolo del viale che saliva alla
capanna abbandonata, ed entrò nel padiglione.
Stava ritta sotto l'arco fiorito,
guardando il lago che luccicava in fondo al panorama, e colle mani appoggiate
al bastone dell'ombrellino. Il venticello faceva svolazzare il suo vestito e
glielo modellava adosso.
«Vorreste vivere con me, laggiù,
in Isvizzera, a Londra, o a Parigi?» gli disse ridendo.
Ei le afferrò la mano con impeto.
«E voi lo fareste?...»
«Se lo potessi...»
«Oh, allora... Ma non bisogna
chieder troppo neanche all'amore.»
La contessa gli piantò in faccia
uno sguardo profondo e pensieroso. Alberti l'evitò, come se tutte le
contraddizioni che c'erano nello stato di quella donna gli saltassero agli
occhi. Sentì che il suo stesso silenzio glielo rinfacciava, e dovette ricorrere
al paradosso per giustificar lei e sé stesso. Ella ascoltava avidamente, più
convinta di lui, affascinata da quella falsa eloquenza della passione; sorrise
e gli disse:
«Cotesta è la teoria del frutto
proibito...»
«Credete?» domandò dopo un
voluttuoso silenzio.
Era seduta mollemente, un po'
piegata verso di lui, tenendogli le mani, ombreggiata dai folti ramoscelli, e
tutta profumo. Ei la guardò avidamente.
«Sì!» le disse con un bacio.
«Zitto!» esclamò l'Armandi
trasalendo e facendosi pallida. «Vien gente!»
Si udì scricchiolare la sabbia
del sentieruolo che incrociavasi col viale pel quale erano venuti.
«Vostro marito!» esclamò Alberti con
voce sorda, e facendole schermo istintivamente del suo corpo.
La donna s'avviticchiò
all'amante, e gli nascose il viso in petto con un voluttuoso terrore. Stettero
alcuni istanti immobili, nascosti nell'angolo più oscuro, trattenendo il
respiro coi due cuori che battevano l'un sull'altro. Si udirono i passi
avvicinarsi lentamente, passare accanto al padiglione, e allontanarsi a poco a
poco. La contessa rialzava il capo timidamente, e per la prima volta mise un
respiro. I due amanti si guardarono, pallidi come cera, gli occhi di lei si
velarono, e si abbandonò dolcemente nelle braccia di Alberto.
«Emilia... per l'amor di Dio!
Fatevi animo, via!...»
Ella non lo lasciava, e fissavalo
con occhi nuotanti in un languore delizioso, come se il pericolo, l'ansietà, la
paura avessero dato non so qual divorante ed irritante attrattiva al desiderio,
alla colpa, all'uomo amato. Rimase in quella specie d'estasi col capo
appoggiato alla spalla di lui, colla bocca socchiusa, pallida, spaventata e
sorridente.
«Andiamo, andiamo, Emilia!»
Emilia si rizzò vacillante, si
fregò un po' gli occhi, distese mollemente le braccia con un movimento di
tigre, lo guardò con occhi addormentati, e gli disse:
«Passate sotto la mia finestra...
vi butterò la chiave... Domani a mezzanotte... se vedete lume nel salotto...
sarà segno di sì... Vattene! vattene!»
Il conte Armandi sembrava
alquanto turbato allorché entrò nella stanza della moglie. La contessa gli
rivolse un'occhiata alla sfuggita.
«Sapete l'accidente di quel
povero Falco?» diss'egli. «S'è rotta una gamba!»
All'entrare del marito la
contessa s'era allontanata bruscamente dalla finestra.
«Ma dove? come?... E voi?»
domandò.
«Sulla strada maestra, proprio
come in questa stanza. Non saprei dire io stesso come sia avvenuto. Povero
Falco! Sono stato alla scuderia per mandare tutti i possibili soccorsi, ma pur
troppo temo sieno inutili... Io sto benissimo, come vedete... Ma voi,
cos'avete? Siete un po' pallida anche voi!»
«Quest'accidente...»
«Che volete farci? Non ne
parliamo altro. Cosa avete fatto di bello?»
«Ma lo vedete!» disse la moglie
mostrandogli il ricamo che avea in mano.
«Il marchese Alberti non è
venuto?»
«Sì».
«Avete fatto della musica?»
«Pochissimo; non mi sentivo bene.
Ho un po' di mal di capo...»
«È partito adesso il marchese?»
.«Mezz'ora fa.»
«Oh! ma non è lui... laggiù?»
disse il conte dalla finestra. «Da dove diavolo viene dunque con questo sole?»
La contessa si fece alla finestra
anche lei, sorridente e curiosa, gettò un'occhiata al di fuori, si strinse
nelle spalle, poi tornò a sedersi. «Passeggiare con questo bel sole!... che
follìa...»
«Avrà fatto qualche visita nelle
vicinanze» disse invece il conte.
|