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Armandi dovea partire insieme al
suo amico Marteni per un convegno di caccia.
L'ora della partenza era stata
fissata per le dieci di sera. Il conte avea siffattamente assicurato che
sarebbe stato puntuale, che aveva detto al suo amico di andarsene pur da solo
se egli avesse tardato più di cinque minuti, giacché cotesto sarebbe stato
segno di essergli sopraggiunto qualche affare o impedimento imprevisto. Egli
aveva preso il caffè nel salotto della moglie, ed era stato a chiacchierare
tranquillamente con lei sino all'ora della partenza, fumando il sigaro, e
leggendo qualche brano dei giornali di mode ch'erano sulla tavola. La moglie
lavorava accanto a lui, e chinava la testa vicino alla sua per guardare insieme
le incisioni del giornale. Di quando in quando volgeva gli occhi sull'orologio,
e diceva sorridendo al marito che non avrebbe fatto a tempo. Finalmente il
conte si alzò, ordinò la carrozza e strinse la mano alla moglie.
«Quando ritornerete?» domandò
costei.
«Doman l'altro o giovedì al più
tardi.»
«Buon viaggio.»
Armandi s'affacciò alla finestra
per vedere se la carrozza fosse pronta; guardò il cielo stellato, e disse alla
moglie:
«La sera è magnifica, volete
farmi il piacere di accompagnarmi sin da Marteni?»
«Volentieri, ma temo di farvi
ritardar troppo.»
«Abbiamo tempo d'avanzo»
diss'egli «il vostro orologio va di galoppo. Metterete qualche cosa sulle
spalle, ecco tutto.»
La Armandi mostrò una certa
premura nell'accondiscendere al cortese desiderio del marito; questi la
ringraziò, le offerse il braccio; e montò con lei in carrozza.
«Perdio!» esclamò al momento di
partire. «Ho dimenticato il mio portafoglio nientemeno! Quel che vuol dire far
le cose troppo in furia!» E saltò a terra d'un balzo, ma mise un buon quarto
d'ora a tornare. La contessa era più impaziente di lui.
«Vai al galoppo!» ordinò ella al
cocchiere.
Il conte si buttò in fondo al
legno e si mise a fumare. La moglie sosteneva da sola il dialogo, con certa
vivacità inquieta e nervosa, sporgendosi di tanto in tanto fuori dello
sportello. Suo marito limitavasi ad evitare che il fumo del sigaro le desse
noia, e a volgere qualche volta il capo verso di lei, per farle dei cenni
affermativi.
«Il signor capitano è partito da
venti minuti;» venne a dire il domestico.
«Alla buon'ora!» disse Armandi
con gaiezza. «Ci perdo una caccia, ma ci guadagno il piacere di passare la sera
con voi.»
Ella lo ringraziò con un pallido
sorriso, e tornarono indietro. Questa volta anche la contessa s'era buttata in
fondo al legno, avvolgendosi nel suo scialle, taceva e sembrava alquanto
preoccupata. Giunti alla villa, saltò a terra per la prima con vivacità, e
montò bruscamente i pochi scalini; il marito però la prevenne nello schiudere
l'usciale, e la precedette nelle sue stanze.
«Perché avete lasciato acceso
quel lume?» disse bruscamente l'Armandi alla cameriera.
«Non m'avete ordinato di
spegnerlo.»
«Siete una stupida! Andate!»
«Via, via, non andate in collera»
soggiunse il marito. «Infine che male c'e?»
Ella si strappò i guanti, li
buttò sul canapè, e rimosse due o tre oggetti con impazienza.
«Vi disturbo forse...»
«Vi pare?... tutt'altro!» gli
rispose saettando uno sguardo sull'orologio.
«Davvero! sembra che il vostro
orologio abbia più giudizio del mio!» disse Armandi regolando il suo su quel
del salotto; «sono in ritardo di una buona mezz'ora.»
E sedendo accanto alla moglie:
«Volete regalarmi un po' di
musica?»
«Non sono proprio in vena, mio
caro... Ma se lo desiderate assolutamente...» soggiunse con un sorriso
abbattuto.
«Assolutamente?... Ma no!
Desidero quel che vi fa piacere.»
Ella inchinò leggermente il capo,
e si mise a guardare qua e là in atto sbadato. Il silenzio cominciava a
divenire penoso.
«Volete che vi legga qualche
cosa?» domandò Armandi.
«Fate.»
E si mise ad ascoltare, colla
fronte sulla palma, all'ombra della ventola, saettando alla sfuggita sguardi
rapidi e sfolgoranti su di lui. Egli non se ne avvedeva, leggeva colla sua
bella voce chiara e limpida, e voltava tranquillamente le pagine. Tutt'a un
tratto la contessa si alzò quasi soffocasse.
«Cos'avete?» domandò il marito
levando gli occhi dal libro.
«Nulla... continuate» rispose lei
tornando a sedere.
«È inutile, giacché non
v'interessa.»
E chiuse il volume.
La contessa rimase alcuni istanti
col capo fra le mani. Armandi continuava a sfogliare i disegni di mode.
Finalmente ella si alzò di botto, bianca come cera, e gli disse stendendogli la
mano malferma:
«Non mi sento bene. Buona
notte...»
Il conte si alzò anche lui, le
prese la mano senza dir motto, e la tenne fra le sue; ella incominciò a
fissarlo negli occhi con una certa inquietudine. L'orologio suonava i dodici
colpi della mezzanotte; i muscoli del viso della donna ebbero un lieve tremito,
poi si allentarono rilasciati, e affascinata dal pericolo, perdendo la testa,
si volse verso il balcone che dava sulla terrazza con un movimento invincibile,
e tentò di svincolarsi dal marito che le stringeva sempre le mani con amorevole
violenza.
«Fermatevi!» diss'egli con voce
breve.
Rimasero a guardarsi due o tre
secondi. La donna si lasciò cadere lentamente sul canapè.
Armandi andò ad aprire il
valigino che aveva fatto posare sulla tavola, e ne trasse un paio di pistole da
viaggio. La moglie, fuori di sé, si alzò per gridare, per far non so che cosa,
e rimase atterrita, pietrificata sotto lo sguardo fermo e minaccioso di lui.
«Silenzio!» le disse con voce sorda.
«Se fate un passo, se mettete un grido, ve l'uccido come un cane!»
Andò risolutamente verso il
balcone, l'aprì, e si trovò faccia a faccia con Alberti.
I due uomini non dissero una
parola, non fecero un gesto. Il conte, più pallido di Alberto, avea la pistola
in pugno e il dito sul grilletto. Finalmente disse interrottamente:
«Marchese Alberti... potrei
uccidervi come un ladro stanotte, o passarvi la spada pel cuore domani... Ma
non voglio farlo... non lo posso... Un giorno forse ne saprete il perché... e
saprete anche che siamo pari!»
Prima che Alberto avesse potuto
rimettersi dalla sorpresa, egli aveva chiuso il balcone.
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