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Alberti passò una notte orribile.
Avea visto, attraverso i vetri di quel balcone, la donna che amava alla follìa,
accasciata sul canapè, colla testa fra le mani - ella non avea fatto un passo
verso di lui, non avea messo un grido - egli non avea potuto stendere le
braccia per soccorrerla, o per rapirla alla gelosia del suo rivale - questo
soltanto bastava a delineare la situazione reciproca con una terribile
eloquenza. L'amore di lui esaltavasi al pericolo di lei, al pensiero delle
lagrime che non poteva vedere. Fece i più insensati progetti; andò cento volte
a spiare le finestre di quella casa. Il domani seppe che marito e moglie erano
partiti all'alba, non si sapeva per dove.
Il giovane ardeva di seguirla, ma
dove? Fece tutto quello ch'era possibile di fare per aver notizie di lei; poi
sperò ch'ella gli avrebbe scritto; poi s'accasciò. A poco a poco incominciò a
pensare a lei con una dolcezza melanconica, fantasticando sul castello
solitario dove il geloso marito l'avea probabilmente rinchiusa, sulle lagrime
ch'ella avea dovuto versare, sui ricordi mesti e cari che doveano tornarle alla
mente mentre fissava i begli occhi alle stelle... E tutto ciò sarebbe stato
possibile forse; ma Armandi conosceva troppo il mondo e le donne per
contribuire a fare esaltare colla solitudine la passioncella della moglie. Dopo
una breve spiegazione, fatta con garbo e da gente ammodo, entrambi avevano
finito per andar d'accordo che quanto ci fosse di meglio a fare era d'andare a
Baden. La contessa, dopo quella scossa inaspettata, erasi mostrata quasi
riconoscente verso il marito del suo spirito conciliativo e da canto suo s'era prestata
lealmente a riparare il male fatto. Passato il primo sbigottimento, il suo
amore, chiamiamolo pur così, avea guardato la cosa dal lato mondano, e avea
fatto giudizio.
Intanto il tempo scorreva sul
rancore del marito, sulla melanconia della moglie, e sull'immaginazione di
Alberto, come se si fosse incaricato di poter far riunire nuovamente e senza
inconvenienti queste tre persone nel medesimo salotto, a centellinare il caffè,
ciarlando tranquillamente di mode o di politica.
Alberti dopo alcuni mesi avea
ripreso le abitudini di una volta. Al principio dell'inverno seppe da un amico
che tornava da Baden come l'Armandi fosse stata la più bella, la più elegante,
la più allegra signora che si fosse trovata ai bagni. Il baccanale della babele
europea estiva faceva crollare in uno scoppio di risa il melanconico castello
di carte, dove la sua fantasia abbrunata avea rinchiuso i sospiri della bella,
mentre egli dondolavasi sulla poltrona fumando il sigaro. Il suo funesto
spirito d'analisi ebbe campo di fargli fare delle lunghe meditazioni, amare,
irritanti, che ferivano non solo le sue illusioni giovanili, ma anche il suo
amor proprio.
Coll'inverno erano ritornate le
rondinelle dell'alta società, ed Alberti seppe che la contessa era andata a Torino
col marito. A quella notizia, al sapersela cotanto vicina, sentì divampare in
fondo al cuore, non diremo l'amore, ma il desiderio, la curiosità, una certa
ostinazione dispettosa e andò e la rivide. Com'era cambiata! non al fisico - la
contessa era sempre giovane e bella; ma il contegno di lei, così strano, così
indifferente, ricominciava a montargli la testa o a fargliela perdere del
tutto. Però l'Armandi non era tal donna da perdere la sua, quando non voleva, o
da farsi trascinare pei capelli in una situazione imbarazzante. Finalmente gli
rispose dandogli appuntamento in uno dei più remoti viali del Valentino.
Allorché il giovane la vide
discendere dal fiacre da nolo, sentì battersi il cuore come una volta, più
forte di una volta forse. Ella gli venne incontro un po' esitante, e gli stese
la mano.
«Volete che montiamo in
carrozza?» le domandò.
«No.»
«Perché non rimandate il vostro
legno in tal caso?»
«Lasciatelo lì.»
Alberto tacque, e presentì tutto
quello che ella dovea dirgli con la sua voce pacata.
Fecero alcuni passi in silenzio.
L'Armandi non s'era accorta del braccio che offrivale il giovane.
«Sentite, Alberto» gli disse
alfine «dobbiamo dimenticare.»
Ei sentì scoppiargli in cuore,
montargli alla testa, affogargli la voce nella gola, tutto ciò che avea
sofferto, temuto e sperato per lei. Non disse motto, non le rivolse uno
sguardo. - Ella gli strinse la mano.
«È necessario!» soggiunse.
«Lo volete?»
«È necessario. Mio marito mi ha
perdonato, ma sa tutto... Cosa volete che faccia?...» Successe una breve pausa.
«A che pensate?» diss'ella.
«Penso che veramente non dovete
amarmi più, se l'ultima volta che mi vedete potete aver il coraggio di dirmi
addio in presenza del vostro fiaccheraio, per impedirmi che almeno vi lasci
scorgere le mie lagrime.»
«Come siete ingiusto!»
«È vero, perdonatemi... Soffro
tanto!» esclamò tristamente e scuotendole le mani.
Ella non rispose, e voltò
indietro per ritornare lentamente verso il fiacre che l'aspettava.
«Vi domando un ultimo sacrificio:
lasciate Torino.»
«Non vi basta che rinunzi a
vedervi?»
«E mio marito?»
«Ebbene, partirò.»
La contessa continuava ad andare
innanzi.
«Volete proprio che vi dica addio
dinanzi al cocchiere?» mormorò il giovane con tutta l'amarezza che gli rodeva
il cuore.
Ella si fermò, voltandosi appena
verso di lui, gli strinse la mano, e senza rialzare il velo gli disse:
«Addio!»
Le labbra del giovane tremavano
senza che potessero profferire una sola parola. La vide allontanarsi
lentamente, e montare in carrozza.
Poi si asciugò di nascosto una
lagrima - l'ultima.
Il giorno dopo partì davvero, per
un altero rispetto della sua parola, o per un dispettoso amor proprio. Il
vedere rompere con tanta indifferenza tali legami l'avea ferito profondamente;
ma avea tanto amato quella donna, e tanto diversamente dalle altre, che fra
loro parevagli dovesse sussistere sempre un vincolo indissolubile; il suo
dolore avea certa voluttà che gli piaceva assaporare andando a seppellirsi in
campagna - ma la sua campagna era troppo vicina a Milano, e gli amici non
tardarono ad andare a farvi una partita di caccia - per distrarlo. Così seppe
dopo qualche tempo quello che non avrebbe dovuto sapere: il colonnello Marteni,
nell'assenza del conte Armandi, che era in Germania con una missione
diplomatica, comprometteva un pochino la contessa, e la contessa si lasciava
compromettere. Alberto corse a Torino, e colla ingiusta e malsana curiosità del
geloso riescì a convincersi davvero che il colonnello era precisamente quello
che dicesi un successore in tutte le regole.
Allora andò a cercare del
colonnello Marteni.
Lo trovò che faceva colazione. Il
colonnello, al ricevere il suo biglietto di visita, si era rammentato di lui,
forse un po' troppo, e l'invitò a prender posto alla tavola, da vecchio amico. Alberto
rifiutò freddamente, dicendo che lo scopo della sua visita non permettevagli di
fermarsi a lungo. L'altro si fece serio, vuotò il bicchiere che aveva offerto,
e levò il capo come per ascoltare con maggior attenzione.
«Non avremo bisogno di molte parole
per intenderci», disse Alberti. «Ella è soldato e gentiluomo, e troverà la cosa
perfettamente naturale. Noi siamo rivali; non occorre fare il nome della donna
che amiamo o che abbiamo amato. Son venuto per cercare di comune accordo un
pretesto per liquidare la faccenda fra di noi, senza che sia compromesso il
nome di quella persona.»
Il colonnello parve riflettere
alquanto.
«Anzitutto» rispose «mi permetta
una domanda: Lei è dalla parte di chi ama, oppure dalla parte di chi ha amato?»
«Cotesto non preme sapere.»
«Domando scusa, preme
moltissimo.»
«Signore, sembrami che
divaghiamo!» disse Alberti con una sfumatura d'ironia provocante.
Marteni conservò la più perfetta
calma.
«Scusi, avrei dovuto incominciare
da un'altra domanda: Ella crede che io le debba qualche cosa... perché sono il
suo... successore?»
«Signore!...»
«Caro marchese, sono ufficiale
nei carabinieri, e come tale un po' soldato, e un po' legale; ragioniamo
adunque, poiché a bucarsi la pelle c'è sempre tempo. Se lei è convinto che io
le debba una riparazione soltanto perché son venuto dopo di lei, vorrei sapere
chi di noi due avrebbe più diritto di sfidar l'altro? Ella, perché io sono
arrivato ultimo, oppure io perché lei mi ha preceduto?»
«Cotesto è invertire
singolarmente la quistione.»
«Semplifichi, rettifichi pure;
son qui ad ascoltare.»
«Non son venuto a dirle, né ho
bisogno di dirle, quali siano le mie opinioni su quella signora; e sembrami che
non occorrano tante parole fra due gentiluomini per bucarsi la pelle, come lei
dice.»
«Caro marchese, non ha
rettificato nulla, e si aggrappa alla provocazione come uno che non abbia
migliori ragioni da metter fuori. Ma io ho più anni di lei, sono soldato, ho
due medaglie, di quelle che danno il diritto di esser sempre calmo, e posso
permettermi di credere che occorrano proprio tutte le possibili spiegazioni fra
due uomini di cuore, prima di mettere mano ai ferri, soprattutto allorché sono
seduti, come noi, dinanzi ad una buona tavola. Ella viene a sfidarmi per amor
proprio, per dispetto, piuttosto che per gelosia; senza pensare che colloca il
suo amor proprio prima del mio, che avrei lo stesso diritto. Le parlo da uomo
di cuore e da uomo d'onore - come le propongo di stringere la mano che stendo.
Ora, se coteste ragioni non le bastano, e cerca proprio un pretesto, mi dica
che questo bicchier di vino che le offro è cattivo, e io le getto la bottiglia
alla testa e mi metto a sua disposizione.»
Alberti alzò lentamente il
bicchiere, e bevve.
«Bravo così!» esclamò Marteni
stringendogli calorosamente la mano.
«Un'ultima parola, colonnello...
Da quanto tempo... Ella è il mio successore?...»
«Ah! Questo poi....»
«Era per farci su le mie
riflessioni» rispose Alberti con un amaro sorriso. «Senza implicarci
menomanente quella signora, in parola d'onore!»
«Le ho detto già troppo, perché
ella è molto giovane... Ma mi lasci il mio segreto... professionale» finì
Marteni ridendo.
«Grazie!» rispose Alberto dopo un
po' di esitazione.
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