-39-
Erano trascorsi parecchi anni, ed
Alberti aveva ricominciato a far la vita di prima, peggio di prima, abusando di
tutto, esagerando il male, che cercava egli medesimo, calunniando il bene che
non poteva raggiungere per fiacchezza di carattere, incallendosi in uno
scetticismo di parata perché non conosceva altre donne all'infuori di quelle
che alimentavano la sua vanità o i suoi piaceri - vanitose e capricciose come
lui - e perché non aveva altri amici, all'infuori di quelli coi quali s'era
battuto per un'amante o per una partita di giuoco. Possedeva tutte le disgrazie:
l'immaginazione calda, l'indole fiacca, il cuore sensibilissimo, ma non
temprato da affetti domestici, ed una certa agiatezza che gli permetteva di
vedere la vita da un lato solo. Cotesta vita era stata occupata soltanto
d'ozio, e faticosa di piaceri. A ventott'anni sentivasi isolato, stanco, senza
scopo, senza emozioni che non fossero malsane, senza entusiasmo, senza domani.
Provava momenti di debolezza e di scoraggiamento indicibili; ma si vergognava
di confessarli. Nel baccano di una festa o di un bagordo pensava con
abbattimento che il giorno dopo si sarebbe divertito al modo istesso. Spesso,
la notte, ritornando stanco a casa, invidiava il suo cocchiere o il suo
cameriere che stavano ad aspettarlo, pur non sapendo farsi idea del come si
potesse vivere nella loro condizione.
Del resto faceva la vita che
facevano gli altri, beveva, giuocava, schermiva e fumava più degli altri. Era
un po' pallido la mattina, e avea il polso un po' agitato la sera; nulla di
più. Di tanto in tanto i ricordi della sua prima giovinezza, che sembravagli
tanto lontana, gli alitavano sul cuore, come i soffi della brezza marina in una
calda notte d'estate; ei li assaporava tacitamente, coll'occhio socchiuso e il
sigaro in bocca, vi lasciava vagare il pensiero e riposare il cuore, e allorché
scuotevasi di soprassalto, anche un po' vergognoso, il mondo che più lo
sorprendeva, che sembravagli più falso, era quello in cui viveva.
In una di coteste situazioni di spirito,
Selene gli s'era trovata fra i piedi, o fra le braccia. Ei le avea proposto di
andare a vivere assieme in campagna, come se ella avesse potuto ridargli il
vergine trasporto con cui s'era innamorato persin di una ballerina; le propose
sul serio una capanna e il suo cuore. La ragazza, che si rammentava di
qual fibra fosse quel cuore, rispose cu-cu! Egli soggiunse che la
capanna sarebbe stata tappezzata di seta, e la rapì all'impresario e ad una
mezza dozzina d'amanti, ancora vestita da baiadera. I loro amici dissero
ch'erano ubbriachi tutt'e due. Giunti, mandò un biglietto di condoglianza.
«Mio caro,» gli disse Alberti la
prima volta che lo rivide, «se quella ragazza mi piace, perché non dovrei
amarla? Credi che valga di più la tua marchesa sol perché è ricca? Selene non
possiede che le sue scarpette di raso, ed ha bisogno di quattrini come una
bella damigella ha bisogno di uno sposo, o una bella dama ha bisogno di un
amante nulla più, nulla meno - ella non è né signorina, né marchesa, non è
altro che bella, ed è quindi naturalissimo che io gliene dia dei quattrini.»
«Tutto ciò va benissimo; non è di
cotesto che intendo parlare. Fai quel che vuoi, rovinati pure, nessuno troverà
a ridire; ma lasciala al suo posto, o piuttosto mettila al posto in cui deve
stare. Compra per lei dei cavalli, dei gioielli, ma non andare a farti ridicolo
coll'amore campestre! Che diavolo! sei uomo di spirito. Cosa vuoi fare colla
Selene per tutto il santo giorno, dopo che le avrai detto in tutti i toni che
le vuoi bene?»
«La vita che faccio mi stanca...
mi annoia mortalmente... Voglio cambiare...»
«Povera Selene!» borbottò Giunti.
La povera Selene amava il bel
biondino come poteva, quanto poteva; ma era abituata a ridere e a folleggiare,
e quell'amante che la teneva a distanza, e che cercava l'x dell'amore, le
rendeva l'orizzonte più uggioso delle grigie nubi d'inverno. Il marchese
Alberti avea perduto il suo vecchio Toni, ed avea per cameriere un giovanotto.
Qualche tempo dopo s'accorse che era anche un bel giovanotto, scoprendo che gli
faceva l'onore di essergli rivale fortunato. Allorché ne ebbe le prove
incontestabili, chiamò la Selene e le disse:
«Di' un po', ti piace Cesare? Non
starmi ad arrossire, bambina! qui non siamo sul teatro. È un bell'uomo, me ne
sono accorto e non ti do torto, no, in parola d'onore... fosse biondo come
me... tanto tanto!... potrei forse avere il diritto d'essere geloso... Ma che
diavolo! avresti dovuto prevenirmi! Potevo correre il rischio di prendere a
calci il mio rivale. Vuoi sposarlo, di'? Non mi far la grulla. Non sono in
collera, ti dico, ma capisci che non posso fare le spese del mio rivale, né
lasciarti sulla strada. Ti do in dote quel che avevo promesso di darti in
cambio del tuo amor fido, ma ti condanno a sposarlo e perdonami se mi
troverai severo.»
Dopo questa tirata partì per un
lungo viaggio, recando seco le sue malsane abitudini, ed i germi funesti di uno
scetticismo che, in mezzo a gente la quale si occupava di lui soltanto per
vendergli dei piaceri, lontano dai luoghi cari per memorie, non poteva far
altro che peggiorare. Invecchiò precocemente, correndo pel mondo come l'Ebreo
Errante, spinto da non so quale inquietudine fatale che l'incalzava sempre
dappertutto, non vedendo e non cercando altro dei diversi costumi che il lato
peggiore. Visse tanti lunghissimi anni senza alcun sentimento schietto, senza
alcuno degli affetti più intimi, che si abituò a credere fosse un disgraziato
privilegio quel cuore che sentivasi battere in petto alle lontane reminiscenze.
In questo tempo lo zio Forlani
era morto, lasciando Adele orfana e sola. Costei, per accondiscendere
all'insistente desiderio del padre, il quale le proponeva di sposar Gemmati,
avea detto di sì; ma all'ultimo momento, con la lealtà che formava il fondo del
suo carattere, era scesa un bel mattino a trovar Gemmati che passeggiava in
giardino, e gli avea detto:
«Amico mio, io ho amato mio
cugino Alberto, lo sapete; che cosa pensereste di me se vi sposassi?»
Gemmati tacque un momento.
«L'amate ancora?» le dimandò poi.
«...Sì.»
«Anch'io v'amavo, perché voi
siete un angelo!» esclamò tristamente Gemmati; «e rinunziare a voi è dura
cosa!... Ma è necessario, non è vero?»
Ella chinò il capo.
«Come meritate di esser felice!
Se quello sciagurato avesse un carattere meno fiacco!...»
Così s'erano lasciati,
stringendosi la mano, come due cuori onesti e leali che s'intendono in una sola
parola. Egli non le aveva detto quanto gli costasse il sacrificio che dovea
fare ed avea accettato un posto di medico a bordo di un bastimento che faceva
lunghi viaggi di circumnavigazione.
Il signor Forlani avea lasciato
la figliuola ricchissima, e le amiche di lei non si davano pace vedendo che
essa, così ricca e bella, rifiutava tutti i partiti che facevano la caccia a
lei e alla sua dote. Adele portava il lutto del suo cuore nobilmente e
fieramente, senza una debolezza e senza un lamento. Del cugino, che non si
curava menomamente di lei, avea saputo vita e miracoli, ma non avea detto una
parola, ed era rimasta pallida e muta. S'era informata spesso di lui dalle amiche
più discrete, con pudica e delicata riserbatezza, e quando non ne avea avuto
più notizie, s'era chiusa dignitosamente nella sua tristezza, senza farne
trapelar nulla al di fuori.
La sua bellezza intanto s'era
sviluppata: era un genere di bellezza fantastica, delicata, flessuosa,
elegante, alquanto pallida e diafana, con magnifici capelli neri, mani candide
su cui il guanto adattavasi con certe pieghe e certo garbo aristocratico, e
grand'occhi turchini, un poco incavati, accerchiati da un solco color perla,
scintillanti di tal luce che avrebbe potuto dirsi fatale, se giammai fosse
stata destinata ad incontrarsi con Alberto. Ella portava alta la testa
leggiadra nei saloni fiorentini, e con un sorriso distratto e uno sguardo
profondo che l'avevano fatta soprannominare Elisabetta d'Inghilterra.
|