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Qual notte terribile per la
povera Adele! Non solo avea ricevuto una acerba ferita al cuore ed all'amor
proprio, ma tutto l'edificio della sua felicità crollava; quell'uomo ch'era
tutto per lei le sfuggiva, travolto nel turbine di quelle passioni ch'erano
state così formidabili per lui, e che lo rendevano formidabile agli altri.
Ella non avea pianto, non s'era
lamentata; il domani s'era levata com'era andata a letto la sera senza chiuder
occhio, pallida, febbricitante, e avea fatto con calma i preparativi per la
partenza.
Lungo il viaggio scambiarono una
dozzina di parole, parole indifferenti, dette con accento pacato, evitando di
guardarsi, parole di ghiaccio che mettevano del ghiaccio tra di loro. Ella
sentivasi stringere il cuore, e procurava di metterci almeno una certa
dolcezza; quella dignitosa rassegnazione sembrava che andasse a colpire in
faccia Alberto, il quale sentiva l'abisso sprofondarsi gradatamente fra di
loro: lo sentiva alla sua propria freddezza, a quel non so che d'impacciato, di
timido ed altero che c'era, a sua insaputa, nelle sue stesse parole.
Cento volte, in quella notte
dolorosa anche per lui, era stato sul punto di correre a buttarsi ai piedi di
Adele, e chiederle perdono; ma gliene era mancato il coraggio per una fatale
delicatezza, per un falso pudore, per una singolare rettitudine della colpa.
Domandarle perdono di che? Di averla tradita vilmente per una donna che non
stimava punto? Di aver dimenticato in un istante l'amore di lei, la fiducia
ch'ella aveva in lui, il loro passato, i giorni, i mesi interi d'intimità, di
casto abbandono, d'espansione, d'identificazione completa d'idee, di
sentimenti? Di essersi posto sotto i piedi tutto ciò per dei capelli biondi e
delle spalle che gli si erano gettate alla faccia? Di averla insultata
volgarmente all'uscio istesso delle sue stanze? Ma il domandarle cotesto
perdono non sarebbe stato un altro insulto? Non sarebbe stato come domandarle
una sanzione disonorevole per entrambi, un confessarsi più basso della colpa?
D'ora innanzi avrebbe potuto più dirle che l'amava tuttora, che non avea mai
cessato d'amarla - ed era vero - senza sentirsi montare i rossori al viso? E
avrebbe potuto credere ch'ella avesse obbliato, e l'amasse ancora, senza
dubitare che mentisse anche lei? Quando si cade bisogna almeno aver la forza di
non dare del viso nel fango.
Giunti a Firenze, mise in campo
degli affari, e partì per la campagna. Così toglievasi pel momento al supplizio
di comparirle dinanzi in quelle ore che solevano passare insieme. Ella sentiva
un gran dolore, una gran timidezza di fronte a quell'uomo, un gran timore di
contrariarlo, e non fece la menoma osservazione.
Alberti avea detto che sarebbe
mancato una settimana o due, e mancò tre mesi. In questo tempo Adele s'era
ammalata, assai più gravemente di quel che sospettasse ella medesima, e gliene
aveva scritto come di una passeggiera indisposizione. Egli informavasi di lei
tutti i giorni per telegrafo, ma non ritornava. Del resto le notizie che
riceveva erano sempre più rassicuranti: la marchesa sembrava intieramente
guarita.
D'allora in poi il marchese
scriveva spesso alla moglie, e spesso riceveva sue lettere. Per lo più erano
lettere insignificanti - o significanti troppo - non contenenti altro che le
fredde formule della cortesia coniugale, rispettose e asciutte da parte di lui,
timide e riservate da parte di lei. Di tanto in tanto un pensiero serpeggiava
(è questa la parola adatta, poiché era un serpe) per la mente di Alberto. Che
cosa sarebbe divenuto di quel tesoro di affetto che c'era nella sua Adele,
adesso che per sua colpa era stato distolto violentemente da lui? Dove
sarebbesi rivolto, su chi e in qual modo? Allora arrischiavasi ad insinuare
nelle lettere qualche frase che prestavasi ad un'interpretazione affettuosa, e
cercava nelle risposte di Adele il riflesso del sentimento che provava.
Gemmati, avendo saputo che la
marchesa Alberti era ritornata da Livorno, sebben non si fosse fatta viva, era
andato a farle visita, ed era rimasto colpito dall'alterazione profonda che
scorgevasi nell'aspetto di lei. Dopo alcuni giorni Adele s'era ammalata
davvero, Gemmati l'avea assistita come sorella o come una figlia, e, pur
dissimulando la gravità del male, aveva insistito perché ne fosse informato
Alberto. I pretesti dapprima, e poi le ripulse ostinate della marchesa,
l'avevano sorpreso, e non avea tardato ad accorgersi che qualcosa di grosso
doveva esserci stato. Conoscendo Alberto intimamente, egli fu sgomentato più di
quanto lo fosse Adele istessa.
Prima di cedere al gran bisogno
che sentiva di sfogarsi, di esser confortata, di appoggiarsi ad una mano amica,
Adele avea molto combattuto, per delicatezza, per un sentimento di dignità, di
rispetto e di amore verso il marito; ma a poco a poco qualcosa erale sfuggita
lentamente. Gemmati avea capito il resto, e d'allora in poi erasi mostrato più
riservato, e più discretamente affettuoso. Andava a trovarla di sovente, poiché
sentiva che il darle occasione di parlar di lui le faceva bene, e che quel
povero cuore tremante e malato aveva bisogno di esser rinfrancato da una voce
amica. Le diceva poche parole, di quelle che sapeva giovarle, o stava zitto,
ascoltando pazientemente i suoi discorsi scuciti e febbrili, o il suo silenzio
eloquente. Ella avea finito per fargli leggere le lettere di Alberto, così
fredde, così compassate, e gli dimandava dei consigli o delle lusinghe.
Mostravasi così contenta allorché Gemmati dicevale che Alberto sarebbe
ritornato ad amarla, ch'egli ripetevale spesso. L'amico le faceva più bene del
medico. Ella guarì infatti, o sembrò esser guarita.
Finalmente una sera piovosa,
verso gli ultimi di ottobre, Alberto ritornò a Firenze, e arrivò a casa sua
quasi all'improvviso.
Al suo annunzio Adele s'era
rizzata di botto in piedi; tutto il sangue le era corso al viso, e vedendolo
entrare era ricaduta tremante sulla poltrona, mentre il rossore e il pallore si
alternavano rapidamente sulle sue guancie. Gemmati osservava con occhio
inquieto cotesti sintomi, e rimaneva preoccupato. Alberti fu sorpreso
dall'accoglienza che gli faceva, e parve arrestarsi un istante sull'uscio, e
saettare uno sguardo rapido e profondo sulla moglie e su Gemmati. Poi era
andato a stringerle la mano, l'aveva stretta anche al suo amico e s'era messo a
sedere e a discorrere di quel che avea fatto e di cose indifferenti con aria
distratta. Anche Gemmati erasi mostrato un po' freddo verso l'amico, di cui il
suo leale carattere non poteva scusare la condotta. L'arrivo di Alberto
evidentemente avea gettato del ghiaccio nel discorso, che andava scucito e alla
meglio. Dopo circa un quarto d'ora Alberto protestò una grande stanchezza e si
ritirò.
L'indomani andò a trovare la
moglie, e s'informò più minutamente della salute di lei.
«E Gemmati .. lo vedi spesso?»
«Sì.»
«Ah!» e parlò d'altro.
Le disse della ubertosa
vendemmia, e della Sassosa, la famosa Sassosa, e dei
miglioramenti fatti, delle disposizioni date, delle occupazioni piacevoli che
avea trovato in campagna.
«E tu?» le domandò. «Come hai
passato il tuo tempo?»
«Ma... bene.»
«Sei molto pallida, sai! Devi
esser stata più male di quel che m'hai scritto.»
«Adesso sto meglio.»
«E Gemmati è il tuo medico?»
«Sì.»
«Dicono che sia un bravo medico.
È stato sempre un uomo d'ingegno.»
«È verissimo, in pochi mesi qui a
Firenze s'è fatta una bellissima riputazione.»
«E dei clienti?»
«Molti.»
«Devi essergli doppiamente grata
in tal caso della sua assiduità...» Ella levò timidamente gli occhi sul viso
marmoreo di lui. «Però trovo strano... davvero!... ch'egli non m'abbia avvisato
della gravità della tua malattia... molto strano!» disse Alberto andandosene.
Adele era rimasta confusa,
sgomenta, trepidante. In mezzo a tutto questo vago turbamento insinuavasi, come
un raggio di sole fra le tristi nebbie della sua anima, la speranza che in quel
cuore di sasso fosse ancora qualcosa di vivo che agitavasi per lei. D'allora in
poi ella s'arrischiò timidamente a far scorgere anche a lui qualcosa di quel
suo nuovo sentimento, di quella deliziosa speranza. Alberto volgeva uno sguardo
sorpreso, penetrante, pensieroso su di lei a quelle commoventi esitazioni, a
quegli slanci repressi, che tremolavano nello sguardo o vibravano nella voce o
avvampavano nei rossori subitanei del suo viso. Aveva anch'egli di quelle
esitazioni, di quelle distrazioni - il ghiaccio si liquefaceva, il dubbio si
dileguava. Anch'egli sorprendevasi a stare più lungamente del solito accanto a
lei dopo il desinare, e a non cercare più con tanta fatica i soggetti più
comuni per la sterile e penosa conversazione di quelle ore, o a non essere più
impacciato se il silenzio li sorprendeva tutt'e due, cogli occhi fissi sulla
fiamma del camino. In certi momenti il cuore davagli come uno sbalzo in petto,
la parola gli moriva sulle labbra, e volgea su di lei gli occhi distratti e profondi.
Una sera, dopo aver preso il caffè, erano rimasti più a lungo del consueto
accanto al fuoco, ella come assorta in quel silenzio e deliziosamente turbata,
egli astratto, stuzzicando i tizzoni colle molle.
Da qualche tempo le rare parole
erano finite anch'esse; marito e moglie non avevano più bisogno di parlarsi,
non rimaneva loro che stringersi quelle mani le quali più di una volta si erano
stese l'una verso l'altra, allorché fu suonata una visita, ed il domestico
annunziò Gemmati.
Alberto si scosse, si alzò
bruscamente, e fece due o tre passi scostandosi dalla moglie con vivacità. Poi
tornò indietro. Il suo volto avea ripreso la solita maschera di marmo. Ella a
quel movimento del marito s'era fatta di brace.
«Fate entrare» disse il marchese,
poiché sua moglie non dava alcun ordine.
«Ti faccio fuggire?» gli domandò
Gemmati stendendogli la mano.
«Al contrario» rispose Alberti,
senza avvedersi del gesto e tornando a sedere sulla poltroncina. «Ecco!»
Il discorso si avviò su cose
indifferenti. Malgrado la gran forza di dissimulazione che possedeva Alberto,
balenava di tratto in tratto nelle sue parole un'ironia dispettosa di sé stesso
e d'altrui. Adele sbalordita dalla luce che si era fatta improvvisamente nella
sua mente, taceva spesso, era spesso pensierosa, e sembrava imbarazzata.
Gemmati sentiva l'effetto che aveva prodotto la sua visita, ed era impacciato
anche lui, senza saperne troppo egli stesso il perché. Fra tutti loro Alberto
solo mostravasi il più amaramente disinvolto. Come accade qualche volta, a
furia di cercar di stordire la preoccupazione comune col divagare sugli
argomenti più disparati, il discorso era sdrucciolato sul terreno scottante
della cronaca galante, e parlavasi di un duello famoso nel quale un marito
aveva avuto la peggio: duello che
allora faceva le spese della conversazione in tutti i ritrovi della città.
«Ah» disse Alberto alzando le
spalle. «Il giudizio di Dio!»
Adele lo guardò in viso. Gemmati
aggiunse ridendo:
«Sei tu che parli così?»
«Perché no?» rispose Alberto
serio serio, dopo un istante di riflessione. «Alla fin fine, se l'onore non ha
un fondamento naturale, è una convenzione sociale anch'esso... una cosa
falsa...»
«Ne sei convinto?» gli domandò
Gemmati, ironico a sua volta.
«Perfettamente» rispose Alberti
con calma.
Dopo che Gemmati se ne fu andato,
Alberti rimase ancora soprappensieri poi si accomiatò dalla moglie. Vedendolo
uscire, Adele fu due o tre volte per buttargli piangendo le braccia al collo e
dirgli: «Oh, Alberto!...». Ma le parole, lo sguardo, il sorriso, la fisonomia
del marito le agghiacciarono il sangue nelle vene.
Al domani la colazione fra marito
e moglie fu silenziosa. Si scambiarono appena le parole indispensabili di
cortesia, e tosto alzato da tavola Alberti disse alla moglie:
«Non vai stasera al ballo di casa
Rossi?»
«No» rispose Adele pensierosa.
«Non vai in nessun luogo!... È
singolare!»
«Se lo desideri...»
«Non desidero nulla. Sembrami
sconveniente cotesto stare rintanata in casa.. appena appena compatibile ad una
innamorata Tu cominci a render ridicola la nostra luna di miele, mia cara... E
sai bene che non ci ho colpa.»
Ed uscì.
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