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Adele rimase sbalordita, il
sangue le avvampò al viso, e corse in furia nelle sue stanze.
Alberto era uscito, róso anche
lui dalla febbre, dal dispetto, dalle furie. Andò a caso, quasi senza vederci,
e tornò sui suoi passi, spinto da una smania invincibile. Allora fece una cosa
che egli stesso avrebbe creduto impossibile: si mise a spiar la moglie.
La marchesa aveva scritto un
bigliettino corto corto a Gemmati, dicendogli che aveva bisogno di parlargli.
Gemmati venne durante la sera, inquieto per quella letterina secca e asciutta
che non diceva nulla e lasciava indovinare molto. Trovò Adele cogli occhi
luccicanti insolitamente, ma pallida e disfatta, e toccandole la mano: «Voi
avete la febbre!» esclamò.
Ella non l'udì. Dopo un istante
di esitazione, gli disse risolutamente:
«Amico mio... bisogna che non ci
vediamo più.»
«Perché?»
Adele si fece rossa, con un'aria
di pudico trionfo. «Mio marito è geloso!»
«Di me?»
«Di chi potrebbe esserlo?»
diss'ella abbassando gli occhi e la voce, come se una favilla di quei misteri
che a nostra insaputa si nascondono fra le tenebre dell'anima scintillasse
improvvisamente alla superficie.
«E voi... siete contenta ch'egli
sia geloso?» domandò Gemmati sottovoce.
«Sì!» rispose dolcemente la donna
con l'egoismo degli innamorati; e un sorriso la irradiò.
«Che volete che faccia?»
«Evitiamo di vederci.»
«Cosa penserà Alberti?... che
m'abbiate prevenuto!...»
«È vero!...»
«Quell'anima fiacca e malata
dubiterà sempre... Forse sarebbe peggio... Bisogna fare qualcosa dippiù.»
«Cosa?»
Dopo un breve silenzio ei le
disse timidamente:
«Mi sarete grata di quel che farò
per voi?»
Ella gli strinse la mano, e chinò
gli occhi. Rimasero un istante assorti. In quel momento entrò Alberto.
Adele ritirò vivamente la mano.
Il marchese li guardò appena. Vide Gemmati commosso, e delle tracce di lagrime
negli occhi di sua moglie; sedette.
«Sono venuto a dirti addio» disse
Gemmati rompendo pel primo quel silenzio glaciale.
«Parti?»
«Sì.»
«Per dove?»
«Vado a Napoli.»
Adele impallidì. «A Napoli c'è il
colèra!» disse con vivacità.
«Son medico, ed ho degli
importanti studi da fare sul colèra.»
«E ti fermerai... molto tempo?»
«Mi stabilirò colà.»
«E la tua clientela di Firenze?»
«Me ne farò un'altra laggiù...»
La marchesa non aveva più aperto
bocca. Gemmati, senza nessuna esagerazione, le disse addio con semplicità.
Alberti l'accompagnò sull'uscio,
e gli strinse la mano proprio all'inglese.
«Tardi o no, è una bella azione
che fa Gemmati!» disse tornando a sedere presso la moglie immobile e bianca
come una statua. Ella levò gli occhi su di lui quasi non avesse ben capito.
«E a proposito di partenza...
sono venuto a dire... che parto anch'io.»
Adele, seguitando a fissarlo con
occhi spalancati, attoniti, impietrati dal dolore, balbettò:
«Per sempre?»
«Chi ha detto che sia per sempre?
Non vado a consacrarmi ai colerosi io... Ho risoluto di viaggiare un po'.»
«Oh! Alberto!» esclamò la derelitta
con voce sorda, lasciandosi cadere sulle ginocchia.
Ei la sollevò con mano ferma.
«Non abbassatevi!» le disse freddamente «e non abbassate me!»
La poveretta rimase pietrificata
da quello sguardo incisivo, duro, inesorabile, e sentì l'abisso ch'erasi sprofondato
fra di loro.
Non s'erano più detta una parola,
e le prime notizie del marchese erano venute da Monaco. Frattanto Adele era
ricaduta più gravemente inferma. Al principio della primavera, lusingata da
un'apparenza di convalescenza, era partita per Belmonte. Il marito, che non
aveva mancato di chieder notizie di lei, aveva approvato la risoluzione, ed
avea promesso che appena di ritorno in Italia, sarebbe andato a trovarla.
Intanto non ritornava, e il male
di Adele, dopo parecchi miglioramenti fittizi, s'era dichiarato in tutta la sua
gravità. Ella moriva del male che le avea rapito la madre. Il vecchio medico,
che la conosceva da bambina, cominciò a farle capire che non intendeva
addossarsi da solo la responsabilità di una cura tanto difficile, e chiese un
consulto.
La marchesa non disse né sì né
no; rimase meditabonda, e nessuno seppe mai quel ch'ella facesse nelle lunghe
ore che chiudevasi nella sua camera. Finalmente rispose al dottore che
insisteva pel consulto:
«Parmi che si dovrebbe domandare il
parere di mio marito...»
Il buon dottore non seppe capire
il timido desiderio che avea l'inferma di richiamare Alberto con quel pretesto,
e di averselo vicino in quegli ultimi dolorosi giorni di prova. Egli se ne andò
tentennando il capo, e borbottando: «Purché non si faccia aspettare anche la
risposta...»
Ella aspettava! Il male intanto
la divorava rapidamente, e ben tosto le forze le mancarono. Più volte, non
vedendo giungere alcuna lettera del marito, si mise a scrivergli, e non ne ebbe
il coraggio. Più tardi non n'ebbe nemmen la forza. Allora fu assalita da una
paura indicibile, e per la prima volta lasciò scappar le lagrime al cospetto
del medico.
«Non sarebbe tempo di avvisare
mio marito?...»
«Credevo che avesse già
scritto... e mi stupisco davvero!... Ma telegraferò oggi stesso...»
«Telegrafare!...» mormorò lei.
Non disse più nulla, e rimase a guardare il pallido sole di novembre che
tramontava sui vetri della finestra.
Disgraziatamente il telegramma
del dottore non trovò il marchese a Berlino, dove credevasi che egli fosse;
sicché perdette tempo prezioso a corrergli dietro per tutte le piccole città
della Germania. Quando finalmente gli fu ricapitato, Alberto non mise tempo in
mezzo e ritornò subito in Italia.
A Firenze trovò un secondo
dispaccio firmato dalla moglie. Era affranto dalla fatica e diluviava; si fece
condurre da un treno speciale sino a Pistoia, e da Pistoia, in carrozza, si
mise in viaggio per Belmonte.
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