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Elena intanto, a braccetto di
Cesare, andava bussando di porta in porta, dagli amici e dai parenti, in cerca
di asilo. Dopo che sua zia donn'Orsola aveva rifiutato di riceverla, sotto
pretesto di non guastarsi con donn'Anna, i due amanti si erano persi d'animo.
Si trovarono di nuovo nella
strada, a capo chino, incerti sul da fare, sgomenti. Elena aveva suggerito di
andare a chiedere ospitalità alla madre di Roberto, un'altra parente lontana di
don Liborio. Ma Roberto era corso a casa mezz'ora prima a dar l'allarme, e sua
madre perciò aveva avuto il tempo di non esser colta alla sprovvista, e
ricevette i profughi nell'anticamera, col candeliere in mano, e le ciglia in
arco, fingendo di farsi la croce dalla sorpresa, protestando che non poteva
alloggiare una ragazza, in coscienza, col figlio giovane che aveva in casa. Il
vicinato avrebbe mormorato. Ella era molto scrupolosa su certe cose delicate.
Il suo confessore era il padre Mansueto dei Cappuccini, il quale non era di
manica larga. Roberto ascoltava dietro l'uscio. Elena un po' pallida, col mento
leggermente convulso dall'emozione, chinava il capo, e tirava pel braccio
Cesare, il quale cercava di insistere balbettando, col cappello in mano, quasi
chiedesse l'elemosina, evitando gli occhietti acuti della sua interlocutrice.
Costei, quando li udì sgattaiolare tastoni per le scale al buio, mise un
sospirone, e disse al figliuolo, che allungava il capo dall'uscio:
- Finalmente! se ne sono andati!
- Ci mancava quest'altra! osservò
Roberto. Ho avuto buon naso, ho fatto bene a prevenirvene. Chi sa quando si sarebbe
aggiustato il matrimonio. E intanto ci toccava mantenere la ragazza!
Mentre scendevano le scale,
annientati, Elena si rammentò che al secondo piano ci stava una vedova, la
quale passava per ricca, e andava a far la calza ogni sera dalla mamma di Roberto,
dove si erano prese di una grande amicizia con donn'Anna. Cesare non seppe che
dire, e tornarono a far le scale. La vedova era presente allorché Roberto
trafelato era giunto a portar la notizia, ed era fuggita, dimenticando persino
la borsa coi gomitoli, a chiudersi in casa, raccomandando alla sua donna di non
aprire a nessuno, se venivano, e rispondere che la padrona non era in casa.
Pareva che il cuore le parlasse, e come udì il campanello esclamò senz'altro:
- Eccoli!
La donna dal buco della serratura
rispondeva che la padrona era uscita, e come Cesare, sorpreso dall'incredibile
avvenimento, tornava a insistere, supponeva un equivoco, domandava se sarebbe
stata molto a tornare, ella suggerì:
- Di' che sono in letto ammalata.
Di' che ho la terzana!
I due amanti volsero le spalle
senza aggiungere altro, e sotto la porta si consultarono sul partito da
prendere. Mezzanotte suonava lì vicino. Uno spiraglio di luce penetrava
dall'uscio di un panattiere che dava nel cortile, e si udiva l'abburattare del
frullone. Un cane chiuso nel magazzino della legna si mise ad abbaiare. Cesare,
senza dir nulla, abbracciò stretta la ragazza. Ella si svincolò dolcemente. Non
si vedeva che la sua forma indistinta nell'oscurità, tutta vestita di nero, col
velo sul viso. Poi disse: - Usciamo di qua.
- Dove andremo?
- Non lo so.
La strada era deserta e sonora
pel primo freddo d'autunno, fiancheggiata a lunghi intervalli da fanali a gas
che mettevano una striscia luminosa nelle vie laterali. Nelle facciate oscure
delle case si apriva di tratto in tratto qualche finestra illuminata,
silenziosa. Da lontano si udiva ancora il rumore delle carrozze nelle vie più
frequentate.
Elena taceva; quando passavano
sotto un fanale, si vedeva la punta dei suoi stivalini sotto il lembo della veste
che teneva raccolta e un po' sollevata da un lato colla mano destra. Cesare con
voce esitante, le chiese:
- Mi ami sempre?
Ella gli strinse il braccio
silenziosamente. Due questurini passarono rasente il muro, colle mani nelle
tasche del cappotto.
Il giovane scoraggiato, a secco
di risorse, balbettò:
- Andiamo a casa mia?
- No! diss'ella risolutamente.
Egli la guardava in silenzio,
timidamente, quasi per chiederle se fosse già pentita. Elena, come gli leggesse
negli occhi, riprese:
- T'amo sempre! Tornerei a fare
quello che ho fatto per essere tua!
Egli voleva prenderle la testa
fra le mani, con un bacio casto da fratello. Ma Elena lo respinse, mettendogli
le mani sul petto, senz'aprir bocca. Solo di tratto in tratto gli si stringeva
al braccio, camminandogli allato. Cesare non sapeva dove la conducesse, con una
gran confusione nella mente, e il cuore che gli martellava. Elena teneva il
mento sul petto. Tutto a un tratto si trovarono in via del Duomo. Cesare chiese
infine:
- Dove andiamo?
- Da tuo zio don Luigi.
Il giovane si fermò su due piedi.
Elena soggiunse:
- Lo so, tuo zio mi è ostile, ma
non mi lascerà in mezzo alla strada. Vedrai.
Cesare voleva obbiettare che suo
zio era severo ed inflessibile, e che egli non andava più a fargli visita
dacché aveva ricevuto una certa ramanzina a proposito della sua assiduità in
casa dell'Elena.
- Tanto meglio! ribatté costei.
Vuol dire che sa tutto! Una volta o l'altra bisognava pure far la pace con tuo
zio, che è ricco. Vedrai che ti perdonerà.
Sulla via larga e buia
luccicavano una miriade di stelle, nel cielo profondo e freddo. Elena le fece
osservare all'amante, posandogli la testa sull'omero, col bel viso bianco
rivolto verso il cielo.
Cesare picchiò risolutamente.
Lo zio Luigi non teneva domestici,
dicendo che eran nemici salariati, e venne ad aprire in persona, tutto
rabbuffato, pallido di freddo e di ansietà per quella visita notturna, cercando
dieci minuti colla chiave prima di trovare il buco della toppa. Egli rimase
attonito davanti al gruppo che gli si
presentò appena aperto l'uscio.
Elena gli si buttò ai piedi,
piangendo, chiamandolo caro zio.
Lo zio non ebbe bisogno di
chiedere altro. Egli andava cercando dove posare il lume, tanto era turbato.
Infine si sfogò contro di Cesare, dandogli dello scapestrato, dicendogli che
era la rovina della famiglia, che sarebbe stato causa della morte di sua madre,
che pensava a maritarsi senza sapere ancora né leggere né scrivere, e senza
avere pane da mangiare. - Per conto suo, padrone! Il poco che aveva bastava
appena a lui e a sua moglie! - Elena col bel viso in lagrime, gli teneva le
mani, scongiurandolo di non lasciarla in mezzo alla strada. Infine lo zio sentì
piegarsi le gambe strette fra le braccia di quella bella ragazza, riabbottonò
sulla camicia scomposta il vecchio paletò che gli serviva da veste da camera, e
finì col borbottare:
- Quanto a voi, restate pur qui,
se volete, giacché avete fatto la frittata. Non posso lasciarvi in mezzo alla
strada! Mia moglie vi preparerà un letto alla meglio. Ma avete fatto una
rovina! Cosa credete di aver preso? un terno al lotto, o il figlio di Vittorio
Emanuele?
Cesare non osava levare il capo.
- Tu vai a dormire in piazza! gli gridò lo zio. Va a riposarti oramai della
gloriosa impresa! Hai fatto una bella cosa!
E come lo spingeva fuori peggio
di un cane, Elena sull'uscio prese la mano di Cesare, e gli disse:
- Ora son tua, sta tranquillo!
E per la prima volta lo baciò in
fronte.
Cesare si allontanò passo passo,
stretto nelle spalle, colle mani in tasca; e per la prima volta ebbe un'idea
chiara di quel che aveva fatto, come un fitta al cuore, un misto d'angoscia, di
tenerezza e di sgomento.
La sera innanzi, Elena, cogliendo
l'istante in cui il babbo si bisticciava colla mamma, e Roberto guardava in
silenzio le mani di Camilla, gli aveva piantato in faccia uno sguardo
singolare, balbettando:
- Ho paura!
Era bianca come cera in quel
momento; teneva chino il capo, su cui posavansi mollemente le folte trecce, e
in quell'atteggiamento metteva a nudo un collo da statua, una nuca superba,
piantata di capelli fini e folti, che si stendevano molto basso, e si
arricciavano leggermente. Successe un lungo silenzio. Infine, mentre Roberto e
Camilla scambiavano per caso qualche parola con voce discreta, Elena prese la
mano di Cesare sotto il tappeto del tavolino, e gli disse:
- La mamma sa tutto!
Il giovane allibì. Pure egli
l'aveva quasi indovinato alle labbra strette di donn'Anna, ad un che
d'imbarazzato che pesava sui frequenti silenzii quella sera, ai monosillabi
straordinari di Roberto, il quale tentava di rianimare la conversazione, alle
occhiate lunghe che Camilla posava sulla sorella, senza aprir bocca, lasciando
cadere mollemente le mani sui ginocchi. La partita finiva in quel momento,
clamorosamente, al solito.
Donn'Anna, suo marito e Camilla
parlavano tutti insieme. Lo stesso Roberto s'era lasciato andare a prender
parte alla discussione animata con dei cenni del capo.
Cesare domandò sottovoce.
- Come faremo?
- Io non lo so, rispose Elena.
Aiutami tu!
Era la prima volta che gli dava
del tu, siffattamente era turbata. La conversazione cadde ad un tratto.
Don Liborio aveva segnato la
partita sul registro apposito, scrupolosamente. Quindi posò il berretto
ricamato sulla tavola, accanto alla tabacchiera, tirò una presa, e si appoggiò
alla spalliera della seggiola, con un grosso sospiro, per riposarsi. Donn'Anna
riponeva le carte e i lupini che servivano a segnare i punti nella solita
scatola di cartone.
L'innamorato taceva, guardando
Elena, la quale teneva il mento sul seno, su cui luccicava ad intervalli una
crocetta di vetro nero fra la trina della scollatura. Ella aveva un vestitino
bianco che le andava come un guanto, un po' aperto a cuore sul petto, e colle
maniche sino al gomito. Gli occhi di lui passavano allora dalla figliuola alla
mamma, la quale se ne stava quella sera colle labbra strette e le ciglia
aggrottate, e non gli aveva detto una parola. Ella sgridava perfino l'Elena che
non s'era affrettata a levarle di mano la scatola di cartone per andarla a
riporre nello stipo, e le domandava dove avesse la testa quella sera!
Don Liborio caricava l'orologio
diligentemente, fermandosi ad ogni giro per non guastar la macchina. Allora
Cesare disse sottovoce all'Elena, accanto al pianoforte:
- Volete che mi allontani?
Ella gli rivolse uno sguardo
lungo lungo, e rispose:
- Potresti farlo?
- Se tu vuoi... Se tua madre...
- No! rispose Elena.
- No! ripeté poco dopo, fingendo
di cercare fra le carte di musica. - Non potrei più stare senza vederti.
- Cosa faremo?
- Quello che tu vuoi; - rispose
la ragazza semplicemente.
Egli si sentì penetrare e
sconvolgere da quelle parole dettegli con un soffio di voce, mentre Elena
evitava gli occhi di lui, gli voltava quasi le spalle. Ma la tentazione che
quelle parole gli mettevano nel cervello lo spaventava. Elena vedendo che non
rispondeva altro, ripeté:
- Quello che vuoi. Tutto quello
che vuoi!
Cesare si fece rosso. Cercava far
intendere che i suoi parenti non avrebbero acconsentito a dargli moglie, finché
non ci avesse uno stato, ed anche i parenti di lei avrebbero risposto di no.
- Allora?
Ei taceva. Elena ripeté: -
Allora?
Egli non sapeva che dire. Sentiva
fisso su di lui quegli occhi penetranti.
- Fuggire?... balbettò.
Elena si recò le mani al petto,
bianca come statua, e non rispose. Egli non fiatava, atterrito dalla parola che
gli era sfuggita. Elena lo guardò in faccia un lungo momento, e chinò il capo
lentamente.
Il cugino si alzò per aiutare
Camilla a riporre in ordine gli aghi ed i gomitoli nel cassettino del telaio. Donn'Anna
era scomparsa. In quel mentre Elena china sul pianoforte scriveva due parole
sulla fascia di un giornale, e com'ebbe finito disse forte:
- Sentite, se domani non potete
venire, mandatemi questa romanza.
Nella strada, al lume di un
lampione, Cesare seppe che romanza gli chiedeva l'Elena.
«Domani sera, alle undici, dopo
che sarà partito Roberto. Aspettami nella scala».
Come gli aveva promesso, dopo una
mezz'ora che stava aspettando, al buio, comprimendo colle mani il batticuore,
la vide arrivare in punta di piedi, col viso così pallido e affilato che
sembrava tagliare il velo. Aveva le mani fredde, ma non tremava. Gli disse con
voce breve e sorda:
- Andiamo!
Egli voleva abbracciarla, ma la
giovinetta stornò il viso dai baci che ei non osava darle, e soggiunse collo
stesso tono:
- No, non ancora.
Il primo bacio doveva darglielo
lei per la prima, sulla porta dello zio Luigi, dicendogli che ormai era sua.
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