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Il padre di Cesare di Altavilla era
morto di una perniciosa acchiappata nel sorvegliare la magra raccolta
dell'annata. Nel delirio dell'ultimo momento, guardando ad uno ad uno i visi
che gli stavano attorno al letto stralunati, borbottava:
- Quei poveri orfani!.. Quei
poveri orfani!... come faranno?
Cesare era ancora fanciullo. Per
fortuna un fratello del padre, canonico, aveva assunto coraggiosamente la
tutela della vedova e degli orfani, aveva rimboccata la sottana sugli stivali,
e s'era messo in campagna a comporre litigi, a rinnovare ipoteche, a
sorvegliare i raccolti. Il primogenito d'accordo era stato destinato alla
carriera forense, perché la famigliuola, in lotta perennemente col bisogno,
aveva sempre avuto paura dell'usciere, e in provincia sembra un mestiere d'oro
quello di vender chiacchiere. In casa Dorello c'era l'esempio dello zio don
Anselmo, il quale al seminario aveva appeso a un chiodo di faccia allo
scrittoio un berretto da prete, per averlo sempre sotto gli occhi a guisa di un
faro, ed era arrivato ad essere canonico. Cesare doveva continuare la
tradizione dello zio. Vedendolo delicato e malaticcio da fanciullo, i parenti
avevano conchiuso che era un ragazzo di talento, e l'avevano tirato su a rossi
d'uova e pannicelli caldi. Egli era stato il chierico della famiglia, il fondamento
di tutti i castelli in aria che avevano fabbricato i genitori, quando si
mettevano sul terrazzino, al fresco, dopo il sole dei campi, colle mani
pendenti fra le ginocchia, tagliando col desiderio delle grosse porzioni pei
bisogni della famiglia numerosa in tutto quel ben di Dio che si stendeva
dinanzi ai loro occhi, al di là delle ultime case del paesello. Lo zio
canonico, ogni volta che sua cognata si metteva a letto coi dolori del parto
borbottava, soffiando e passeggiando nella stanza accanto, che in quella casa
non c'era prudenza. Egli aveva preso quindi a ben volere Cesare per quel fisico
intristito che gli sembrava una garanzia contro i rischi del matrimonio, e gli
prometteva che il nipote dovesse riuscire un uomo prudente, come l'intendeva lui.
Il giovanetto aveva ricevuto
un'educazione quasi claustrale. Ogni giorno estate o inverno andava a prendere
lo zio canonico in chiesa, dopo i vespri, e se pioveva entravano dallo speziale
a veder sgocciolare l'acqua lungo i vetri, lo zio colla sottana raccolta fra le
gambe, scambiando qualche parola col farmacista o con altri della conversazione
che stavano a ragionare colle mani sul pomo del bastone. Quand'era bel tempo
facevano insieme quattro passi fuori del paese, lemme lemme, scambiando dei
saluti coi conoscenti che s'incontravano, e si conoscevano tutti, oziando cogli
occhi sulle gran macchie grigiastre degli oliveti, le quali si velavano già
della tristezza del tramonto, ascoltando distrattamente il cicaleccio che
facevano le donne alla fontana, e le voci che salivano dalle stradicciuole;
discorrevano di quei campi che conoscevano palmo a palmo, s'interessavano alla
loro cultura; misuravano a occhio il maggese della giornata che spiccava in
bruno sulle stoppie giallastre; osservavano la chiusa preparata per le fave,
punteggiata in nero dai mucchietti d'ingrasso; commentavano la vigna spampanata
di fresco, irta e spugnosa in mezzo agli altri filari verdeggianti. Poi, giunti
al limite solito della loro passeggiata, che era un muricciuolo soprastante un
orto, lo zio spolverava col fazzoletto due sassi, e si mettevano a sedere, coi
gomiti sui ginocchi, riposando gli sguardi sulla bella vallata che si stendeva
ai loro piedi, scolorita, sparsa di ciuffetti di verde cupo, accanto ai rari
casamenti, chiazzata di toni bruni, e biondicci, e verde pallido, solcata dalla
striscia sottile dello stradone che si dileguava in lontananza. Accompagnavano
macchinalmente col pensiero i carri che sfilavano come punti neri, e mettevano
delle ore a scomparire laggiù per la grande distanza; e alle volte, nel vasto
silenzio della pianura sottoposta, credevano di udire il fischio della
ferrovia, di là delle colline, come l'eco di un altro mondo. Allora il prete
rientrava in sé, e sorrideva discretamente della loro fantasticheria come di
una scappatella. Il sole intanto tramontava dietro le montagne nebbiose, e in
alto, sulle loro teste, le finestre della chiesa scintillavano in cima al paese
come una fantastica illuminazione, e chiamavano a raccolta i loro pensieri.
Poi ritornavano indietro passo
passo, colle mani dietro la schiena, accompagnandosi ai contadini che tornavano
in paese spingendo innanzi l'asino o la mula carichi, mentre tutte le campane
suonavano l'avemaria, nel paesetto aggruppato come un branco di pecore, sotto il
cielo smorto. Lo zio canonico tornava dallo speziale dove convenivano
immancabilmente il notaio, il vicepretore e qualchedun altro, sempre le
medesime persone, a far crocchio, e raccontare i loro affari, o discorrere di
quel che nella giornata avevano osservato degli affari altrui sulla faccia dei
poderi, nella passeggiata vespertina. Cesare aveva il permesso di stare ad
ascoltare anche lui sino ad un'ora di notte. Al primo tocco di campana augurava
la buona sera alla compagnia, e andava a casa, dove le sorelle stavano sul
terrazzino, al buio, chiacchierando colle vicine dalla strada. Pigliava il lume
e saliva nella sua cameretta per mettersi a studiare. Più tardi si sentiva
l'acciottolio delle stoviglie, gli altri rumori delle faccenduole domestiche alle
quali attendevano le donne. E ogni sera, alla stess'ora, si vedeva il solito
lume alla finestra dei vicini dirimpetto che si mettevano a cenare.
L'influenza di siffatta
adolescenza in quel temperamento delicato aveva sviluppata una sensibilità
inquieta, una delicatezza di sentimenti affinati dalle abitudini contemplative,
della stessa severa disciplina ecclesiastica che li rendeva timidi, raccolti, e
meditabondi.
Don Anselmo non aveva guardato a
sacrificii perché il nipote fosse avvocato. La rivoluzione del '60 aveva
gettato il discredito sulla professione del prete, e lo zio canonico anzitutto
era un contadino pieno di buon senso, che prendeva le cose com'erano nel loro
tempo e dal lato migliore. Ora il migliore dei mestieri gli sembrava fosse
quello dell'uomo di legge, una specie di prete senza sottana che confessa in
casa, e si fa pagar caro i casi di coscienza delicati, che va a passeggio
spalla a spalla col sindaco e col pretore, al dopo pranzo, scappellato da
tutti, salutato col grosso titolo ch'empie la bocca: - avvocato!
Per siffatto castello in aria la
mamma s'era visto partire il figliuolo per l'università di Napoli, a piedi,
dietro il carro che gli portava il letto e il tavolino colle gambe in aria, e
le sorelle si erano cavati gli occhi a cucirgli il corredo quasi ei fosse
andato a nozze.
A Napoli Cesare era andato ad
abitare un quartierino da 35 lire e 75 al mese, insieme a quattro compagni, ciò
che ripartiva le rate di fitto in ragione di sette lire e tanti centesimi a
testa, e le frazioni davano origine a dispute senza fine, ogni qualvolta si
facevano i conti, all'ora del desinare, col pane sotto il braccio, per timore
che un compagno ci addentasse distrattamente.
Nella corte della stessa casa, di
faccia al quartierino degli studenti, erano le finestre della signorina Elena,
e quei diverbi clamorosi facevano correre al terrazzino tutta la famiglia del
vicecancelliere, le signorine col sorriso impertinente, il babbo col berretto
di velluto in testa, la serva collo strofinaccio in mano; e alle volte perfino
la mamma affacciava fra le tende giallastre il viso scialbo e discreto.
La famiglia dirimpetto aveva una
grande importanza agli occhi di studenti alloggiati in ragione di sette lire e
pochi centesimi a testa, e che si rubavano il pane. Le signorine avevano
ricevuta un'educazione quasi fossero destinate a sposare dei principi. Si
udivano parlare inglese e francese sul terrazzino, suonavano il piano come non
dovessero far altro tutta la vita, e di tanto in tanto mettevano alla finestra
per asciugare dei dipinti che sembravano meravigliosi da lontano. Contuttociò
la sorella maggiore aveva già 32 anni, e la signorina Elena, la quale leggeva
dei romanzi, quando non suonava il pianoforte, guardava con certi occhi,
allorché era per la strada o sul terrazzino, come se aspettasse il personaggio
romanzesco che doveva offrirle la mano, il cuore, e una carrozza a quattro
cavalli. Ogni volta che le signore uscivano di casa tutte in fronzoli, i
giovani studenti, nascosti dietro le invetriate, si mangiavano cogli occhi lo
stivalino sdegnoso della signorina Elena che attraversava la corte fangosa in
punta di piedi e colle gonnelle in mano.
Cesare, mentre i camerati
esprimevano la loro ammirazione un po' volgarmente, da contadini che aspiravano
a prendersi la loro parte nella ricca messe della vita, era il solo che si
tenesse contegnoso e riserbato, come uno avvezzo dalla educazione ecclesiastica
a rispettare le gerarchie. Da ragazzo era sempre vissuto in mezzo a quella
miseria decente che stende una tinta grigia su tutti gli atti della vita, e li
regola con un calcolo implacabile, che dà un'enorme importanza alla ricchezza
pel penoso e continuo contrasto fra l'essere e il parere. Egli sapeva quel che
ci vuole a portare il don nel paesetto, il cappello a cilindro alla domenica, i
guanti per andare a messa le sorelle; quel che costi di scarpe una bella
passeggiata, e quel che valga una giornata di studente. Egli lavorava quindi
come un mezzadro coscienzioso che non voglia rubare la sua giornata. Le
signorine dirimpetto, quando rientravano a casa tardi, vedevano sempre il lume
alla finestra di lui, davanti ai libri schierati sul tavolino. Egli non
ignorava che bisognava picchiare e picchiare nella testa come colla zappa per
farci entrare la laurea. Per tutta distrazione, alla sera, quando i camerati
sgattaiolavano fuori alla conquista delle serve del vicinato, egli si metteva
alla finestra, pensando alle sorelle che chiacchieravano a quell'ora colle
vicine dal terrazzino, e alla mamma che gli aveva messo di nascosto cinque lire
in tasca prima di partire.
La corte deserta era silenziosa e
malinconica, chiusa da tre lati fra alti muri nerastri, colle finestre quasi
tutte murate dall'epoca della tassa sulle aperture, e rimaste cieche dal 1848
per economia di vetri, sulle pareti scalcinate, senz'altro rilievo che quei
davanzali scantonati che lasciavano colare tuttora la striscia sudicia degli
antichi condotti. Dall'altro lato si rizzava un alto muro di chiesa, tutto
bucherellato al pari di una colombaia, con una grande finestra ad arco in cima,
che lasciava passare dai vetri cascanti e polverosi, il pallido riflesso delle
lampade e un vago odor di cantina. All'imbrunire una campanella fessa suonava
l'angelus, in cima al muraglione della chiesa, fra i quattro pilastri neri del
campanile ritti sul fondo pallido del crepuscolo, e sembrava gettare a fiotti
nella corte delle ombre grigie, una solitudine più desolata, un desiderio
malinconico del paesetto natale, dell'ora in cui i lumi si accendono ad uno ad
uno nella stradicciuola tortuosa. Ogni sera alla stessa ora la serva di don
Liborio accendeva anch'essa il lume, e lo lasciava solo, nell'anticamera vuota
dalla quale arrivavano il suono gaio del pianoforte di Elena, o la voce delle
ragazze.
Il giorno della laurea, quando si
dovette spalancare il portone a due battenti per lasciar penetrare nella corte
la carrozza che veniva a pigliare Cesare in giubba e cravatta bianca, fu un
grande avvenimento per tutto il vicinato. La notizia correva da un terrazzino
all'altro. Le signorine seppero in tal modo che il giovanotto andava a pigliare
la laurea d'avvocato, la parola magica che faceva dire al genitore, col
berretto di velluto in capo:
- Oggi quella è la carriera che
mena a tutto. Chissà? forse in cotesto giovane c'è la stoffa di un ministro.
E la mamma donn'Anna che
suggeriva all'Elena:
- Adesso, colla cravatta bianca,
non c'è male. È vero?
La signorina Elena, com'era
tornata l'estate, si affacciava spesso, coi romanzi, coi versi, coi quadri
dipinti. La sorella si metteva anche lei a lavorare sul terrazzino, al fresco,
silenziosamente e cogli occhi fitti sul ricamo. La mamma non compariva mai, e
don Liborio, vedendo sempre quel giovanotto tranquillo e studioso alla finestra
di faccia lo salutava toccandosi il berretto.
E naturalmente finirono anche per
incontrarsi, di sera o di giorno, nell'androne, nell'uscire o nel tornare a
casa, e attaccar discorso con un pretesto qualsiasi. Così a poco a poco, un
passo dietro l'altro, mentre le ragazze procedevano per la scala a capo chino,
i due coniugi dissero al giovanotto che se desiderava fare qualche visita,
giacché erano vicini, quando le sue occupazioni d'avvocato gliene avessero
lasciato il tempo, sarebbero stati lietissimi di riceverlo, così alla buona, in
famiglia. Le ragazze possedevano qualche piccolo talento di società, a don
Liborio gli piaceva ragionare con gente istruita, per scambiare delle idee
sulla legislazione, la politica, ed altri argomenti serii.
Il giovane andava in casa della
signorina Elena a parlare di cose serie, molto serie, guardando di sottecchi la
signorina, ed imbrogliandosi allorché costei gli piantava in faccia i suoi
occhioni castagni. La sorella Camilla, tacita come un'ombra, non levava il naso
dal lavoro. Il babbo, commentando le questioni del giorno, faceva la partita
colla moglie, un'abitudine che aveva presa da tanti anni, nel lungo tirocinio
che aveva fatto in provincia, dove le sere durano eterne, una specie di omaggio
reso alla sua buona e fedele compagna per ricompensarla dalle lunghe
peregrinazioni, dell'esilio in cui l'aveva costretta a passare quasi tutta la
vita. Donn'Anna, quando non stava a bisticciarsi col marito, era sempre in
moto, da buona massaia. Assicurava che le sue ragazze, con quelle manine
bianche, e le virtù che possedevano, sapevano anche far di tutto in famiglia,
ed erano più brave di lei.
Fra gli ospiti abituali della
casa c'era un giovanotto maturo, vestito sempre all'ultima moda, il quale non
mancava mai, non parlava mai, non fumava, sedeva sempre accanto a Camilla,
sotto il paralume verde, e passava la sera a sceglierle i gomitoli, e a
contarle i punti sul canovaccio. Donn'Anna nel presentare Roberto, aveva
aggiunto che era impiegato all'ospizio dei trovatelli, ed era un po' loro
parente. Più tardi, allorché il giovane avvocato fu maggiormente nell'intimità
della famiglia, venne a sapere che doveva entrare nel parentado sposando la
signorina Camilla, appena avesse ottenuto l'avanzamento che aspettava da
sett'anni.
A poco a poco era arrivato ad
essere come un parente della famiglia anche lui. La mamma gli sorrideva, don
Liborio l'accoglieva con un Oh! cordiale, la signorina Camilla, senza aprir
bocca, metteva una seggiola accanto a quella della sorella, presso il tavolino,
e Roberto gli stendeva in silenzio la mano, perennemente inguantata. Ma prima
di arrivare a questa intimità egli era passato per una specie di tirocinio,
aveva dovuto subire qualcosa come un interrogatorio, o piuttosto un esame. Il
padre della signorina Elena era stato vicecancelliere al tempo dei Borboni, e
aveva sulla punta delle dita tutte le questioni legali. Peggio pel governo
attuale che aveva messo al riposo un uomo di quella capacità, tanto, s'andava a
finire colla repubblica! il vecchio cancelliere borbonico, messo a riposo, era
diventato rosso sino al bavaro spelato del soprabito, e prestava anche un po'
di orecchio alle novità del socialismo. La mamma, col lungo stare in provincia,
quando suo marito era in carica, aveva appreso perfettamente che in certi
paesucoli ci sono delle fortune modeste e solide da invidiare sinceramente,
quei giorni in cui il calzolaio o il fornaio assediano la casa, e tutta la
famiglia esciva a passeggio in gran gala per non udire ad ogni momento il
campanello dell'uscio. Ella assumeva il contegno bonario di una donna di casa
ormai lontana dalle frivolezze, e si intratteneva col giovane in discorsi serii
anch'essa, a modo suo, di quel che rendevano i suoi poderi di Altavilla, del
vino che davano le vigne, di quanti erano a berlo, e il giovanotto, commosso
della premura affettuosa, raccontava per filo e per segno i fatti di casa sua,
faceva il conto delle poche entrate della famiglia, e di quanti erano a tavola;
anzi un poco vergognoso del numero, arrivava a sopprimerne qualcuno, diceva che
una delle sue sorelle era troppo devota per entrare nel mondo, e voleva darsi a
Dio. -La sproporzione delle ricchezze è un'ingiustizia! sentenziava don Liborio
calcandosi il berretto sugli occhi. - Voi non avete che una modesta
indipendenza, ma siete giovane e avete una professione che vi può far giungere
a tutto. Mi piacete meglio così! - Donn'Anna allora gli sorrideva amorosamente,
Camilla cercava cogli occhi la sorella, e poi interrogava collo sguardo
Roberto, il quale approvava silenziosamente, con un cenno del capo.
Elena sola si manteneva riservata
in tutta quella espansione d'amicizia. Se il giovane sorprendeva i suoi sguardi
fissi su di lui, ella abbassava tosto gli occhi. Leggeva delle sere intere a
capo chino, colla nuca bianca vellutata da una lanuggine finissima. Suonava
delle ore, cogli occhi lucenti piantati sulla carta, appoggiava sulla tastiera
le belle braccia nude sino al gomito, guardando qua e là distrattamente, e
posava delle lunghe occhiate sul parente Roberto il quale sedeva accanto alla
Camilla, col naso sul ricamo, guardandole le mani. Ella non aveva detto al
giovane avvocato venti parole, quantunque fossero stati soli e senza alcun
sospetto un centinaio di volte, cercando insieme una carta di musica dove non
era, trovandosi per caso in anticamera quando egli arrivava, andando insieme a
lui all'avanguardia se le dava il braccio. Però il giorno in cui da Altavilla
gli scrissero, al tempo della vendemmia, che l'uva infradiciava tutta e non
vedevano l'ora di abbracciarlo, appena il giovanotto andò a prender congedo
dalla famiglia di Elena, la ragazza gli piantò in viso quegli stessi occhi
castagni, che alle volte parevan neri, e chiese:
- Tornerete presto?
- A metà di novembre, - balbettò
lui.
- Tanto tempo!
Non si dissero altro.
Donna Anna si congratulò perché se
avevano bisogno dell'assistenza di lui nella vendemmia, era segno che la
raccolta sarebbe stata abbondante.
- Bisogna rendersi utili alla
società! osservò il genitore. In fin dei conti la prosperità delle famiglie
torna a vantaggio della ricchezza generale.
La signorina Elena non diceva più
nulla. Era andata a sedersi nel vano della finestra e guardava fuori nella
strada buia, sollevando le tendine, colla fronte appoggiata ai vetri. Allorché
il giovane si alzò per andarsene, si levò anch'essa lentamente, e andò a
stringergli la mano, come tutti gli altri, e in mezzo al cicaleccio generale
chiese:
- Ci scriverete almeno?
E non gli lasciava le mani.
Il giovanotto, tornato ad
Altavilla, nelle tranquille passeggiate, mentre il tramonto si stendeva come
una nebbia nella valle sottoposta, quando i lumi s'accendevano smorti ad uno ad
uno sulle facciate vaghe delle case, lungo la stradicciuola tortuosa, pensava
all'avemmaria che cadeva mesta dall'alto del campanile nel cortile di Elena, al
gran muro tetro, seminato di buchi neri, alla lampada solitaria che si
dondolava in mezzo all'anticamera silenziosa.
Per mantenere la promessa egli
scrisse al padre di lei una lunga lettera, di cui fece e disfece una dozzina di
minute, quasi avesse dovuto sostenere con quella l'esame di laurea, e che il
babbo mise sotto la tabacchiera, sebbene ci fosse un periodo affettuosissimo
per donn'Anna, e dei saluti assai rispettosi per le ragazze. La signorina
Elena, colla sua bella calligrafia inglese, rispose pel babbo, ch'era occupatissimo,
e gli cinguettò un po' di tutto, con certo abbandono confidenziale, dandogli
conto di quel che era avvenuto dopo la partenza di lui, del come passavano le
serate, e che sentivano tutti la sua mancanza e si rammentavano spesso di lui.
Qui la lettera si dilungava alquanto. Finiva «se le nostre notizie vi hanno
fatto veramente piacere, pensate che quelle che ci darete voi ne faranno
altrettanto al babbo, alla mamma, a Camilla, ed anche a chi fa da segretario».
Egli rispose subito, ma si ostinò
a scrivere a don Liborio, stavolta senza minuta, descrivendogli le occupazioni
della sua giornata ora per ora, diffondendosi con tenerezza sui ricordi delle
belle serate che aveva avuto l'onore e la fortuna di passare in casa di lui.
«Ah! che piacere sarebbe stato trovarci insieme alla campagna in questi ultimi
giorni d'autunno! Quanti bei quadretti avrebbe fatto la signorina Elena! e come
sarebbero stati contenti la signora Camilla e Roberto di chiacchierare sul
ballatoio, al chiaro di luna, ascoltando le storielle ingenue e le canzoni
delle vendemmiatrici, sdraiate alla rinfusa nella corte!...»
Tornò a rispondere la figliuola
pel babbo sempre occupato, e si lasciò andare anch'essa sulla china delle
memorie. «Vi rammentate di quella bella sera che passammo insieme alla Villa?
quasi nascosti dietro un gruppo d'alberi, attraverso i quali si vedeva sfilare
la folla elegante, alla luce del gas? e i lieti suoni della musica che venivano
a mischiarsi allo stormir delle frondi? Così mi par di vedervi nel quadretto
che mi fate della vostra casina». Ella firmava: «La vostra amica
affezionatissima Elena». Poi «la vostra affezionatissima Elena». Infine, «La
vostra Elena» senz'altro.
Sicché a vendemmia finita,
allorché il giovanotto tornò in città a far la pratica d'avvocato, Elena appena
lo rivide si fece di bracia in viso, e gli diede il bentornato con tal voce
tremante che il giovane si chiuse quella voce in cuore per non dimenticarla mai
più.
Entrambi si trovarono
imbarazzati. Una volta che si sorpresero guardandosi a lungo negli occhi,
arrossirono. Il rossore passava come una fiamma luminosa attraverso il pallore
trasparente di Elena. Ella quasi inconsciamente gli accennò la mamma con uno
sguardo rapidissimo che pel giovane fu tutta una rivelazione. Sino a quel
momento egli non le aveva detto una parola che quell'angelo custode della
Camilla non avesse potuto ascoltare senza levare gli occhi dal ricamo, seduta
fra la sorella e il cugino. Le prime che le rivolse timidamente, una sera che
don Liborio tardava a venire oltre l'avemmaria, e donn'Anna era andata ad
aspettarlo sul balcone, furono queste:
- Vostra madre è in collera con
me?
Elena scosse il capo
negativamente, ma rimase a testa bassa, colla fronte sulla mano.
- Perdonatemi Elena, - aggiunse
egli dopo un lungo silenzio.
Allora per la prima volta la
giovinetta gli prese la mano di nascosto, timidamente, e gliela strinse forte,
senza guardarlo.
Da quel momento per lui cominciò
un'altra vita, tutta di sogni, in cui le esigenze della realtà sembravano
svegliarlo di soprassalto con altrettante strappate al cuore. Egli s'indebitò
coi colleghi, cogli amici, col sarto, colla camiciaia, per essere ben vestito e
portar sempre dei guanti come Roberto. Ogni volta che scriveva alla sua
famiglia gli toccava mentire, inventare de' pretesti per farsi mandare del
denaro che era divorato prima ancora che arrivasse. Nella tranquilla mediocrità
in cui era vissuto sino allora non aveva mai provato quelle angoscie acute in
mezzo all'indifferenza esigente d'una grande città. Molte volte, nelle tetre
ore di scoraggiamento, solo nella sua cameretta, coi gomiti sul tavolino e la
testa fra le mani, pensava come un rifugio alla vasta campagna serena che si
svolgeva di là della sua finestra di Altavilla, a quella pace inalterabile del
paesello in cui i ferri di una cavalcatura e gli stivali dei contadini che
risuonavano a rari intervalli sul selciato delle stradaccie, avevano qualcosa
di noto e di amico. E gli venivano le lagrime agli occhi nel contemplare le
fotografie de' suoi parenti, messe in fila lungo il muro, neri e stecchiti nei
loro abiti da festa, accanto al ritratto di Elena. Ormai quando arrivava in
casa di don Liborio tutto gli pareva mutato come si sentiva mutato
internamente. Donn'Anna sembrava covasse l'Elena cogli occhi, posava sulla
figliuola certi sguardi lunghi e desolati quasi tutte le sue viscere materne vi
si stemperassero. Camilla, impassibile, quando tutti tacevano da un pezzo senza
saper perché, diceva qualche parola sottovoce al cugino, come in chiesa, colla
sua voce calma che sembrava misteriosa in quel silenzio imbarazzante. Don
Liborio stesso non era più quello, trinciava delle sentenze radicali sulle
questioni politiche, aveva degli occhiacci torvi sulla faccia incorniciata
dalla onesta barba bianca, si calcava sugli occhi il berretto ricamato, e fra
una partita e l'altra tirava su delle prese di tabacco rumorose come razzi.
Elena, colla testolina china sul libro o sul lavoro, in atteggiamento da
vittima, figgeva in viso a Cesare delle occhiate lente e malinconiche, ogni
volta che alzava il capo, e il seno le si gonfiava e faceva alitare la blonda
come cosa viva. Il pianoforte, lungo disteso, taceva anch'esso da settimane e
settimane, talché la cosa più allegra di quel salotto, in mezzo al fruscio
delle carte da giuoco, e lo scricchiolio secco dei ferri di Camilla, era
Roberto, seduto accanto a lei, a guardarle le mani che facevano andare la
spoletta, inamidato e taciturno.
Quell'aria di musoneria si
estendeva come un contagio. Persino la briscola languiva, e don Liborio
mischiava le carte svogliatamente. Donn'Anna una volta arrivò a troncare la
partita prima del solito per chiedere al giovane quando pensava ad aprir studio
d'avvocato, se nella sua famiglia c'era qualche progetto riguardo al suo
avvenire, se le sue sorelle pensavano di accasarsi prima di lui, ecc. ecc. Don
Liborio, coi gomiti sul tavolino, e il berretto fra le mani, ascoltava
taciturno. Infine, sentenziò che il primo dovere di ogni galantuomo era di
crearsi una famiglia, e un avvocato per posarsi agli occhi del pubblico, ha
bisogno indispensabile di prendere moglie. Roberto, il quale aspettava da
sett'anni l'avanzamento nell'ospizio dei trovatelli per ammogliarsi anche lui,
approvava col capo, seduto accanto alla sorella maggiore.
- Per una madre di famiglia,
conchiudeva donn'Anna, è un gran pensiero quello di dar stato ai figliuoli. Lo
so io cos'è aver in casa delle figliuole da marito. E bisogna star sempre cogli
occhi aperti. Non parlo per voi, Cesare, che siete un galantuomo. Ma è un
pericolo serio, Dio liberi!
E don Liborio andando su e giù
per la stanza colla tabacchiera in pugno, aggiungeva:
- La nostra legislazione è
incompleta, perché non punisce sufficientemente i tradimenti domestici. Chi
abusa della fiducia e dell'ospitalità di una famiglia onesta dovrebbe essere
condannato ai ferri!
Oppure:
- Vorrei vedere, adesso che hanno
messa questa moda dei giurati, cosa mi direbbero se mi facessi giustizia colle
mie mani, in un caso simile?
Fu allora che Elena, nel momento
che il babbo aveva ripreso a giuocare e a bisticciarsi colla mamma, aveva
piantato in faccia a Cesare gli occhi penetranti, e gli aveva detto con quella
voce tutta sua:
- Ho paura!
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