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La casa era continuamente
assediata da creditori, da gente che veniva per aver saldato un conto di venti
lire, e perdeva mezza giornata ad aspettare sulla scala. La serva, creditrice
di parecchie mesate, faceva causa comune con loro, restava un quarto d'ora a
confabulare sottovoce, sporgendo il mento aguzzo, impietosita dalle loro
lagnanze, portava delle seggiole in anticamera perché aspettassero comodamente,
andava a chiamare la padrona ad alta voce, grattandosi i gomiti nudi in aria
ingenua, per impedirle che facesse dire di non essere in casa. Elena allora,
pallida di collera, doveva rispondere sorridendo, doveva trovare delle buone
parole per quella gente che le parlava a voce alta, e col cappello in capo.
Suo marito avrebbe sofferto la
tortura per risparmiare a sua moglie coteste scene. Non usciva quasi più, non
aveva più testa di lavorare, gli toccava stare ad attendere dietro i vetri se
arrivava un creditore. Alle volte, nelle ore in cui la via Piliero era più
frequentata, vedeva passare Cataldi, e sentiva a quella vista più doloroso e
profondo il suo avvilimento; arrossiva se lo sorprendeva la moglie quasi stesse
a spiarla, gli pareva di vederla aggrottar le ciglia o impallidire. Accorreva
il primo ad ogni scampanellata minacciosa, per mettersi a parlamentare, a
promettere, a scongiurare. Erano lotte di tutti i giorni, angoscie dissimulate
a voce bassa, con aria calma, a capo chino, rosso di vergogna, col creditore
insolente, nel vano dell'uscio, tendendo l'orecchio ansioso ad ascoltare se alcuno
udisse nelle altre stanze, impallidendo se l'altro alzava la voce, e cercando
di calmarlo col gesto supplichevole più che colla voce e colle parole. Erano
ripieghi meschini, sotterfugi volgari coi quali bisognava ingannare la spietata
curiosità della serva, o la vaga inquietudine di Elena. Ma almeno si lusingava
che ella non sapesse nulla, non fosse consapevole delle umiliazioni che gli
toccava subire. Esciva per procurarsi cinquanta lire con un lavoro che gli
davano a fare di seconda mano. E tornava di corsa, col denaro in tasca,
acchiappato dopo due ore di corsa, di sollecitazioni, di raggiri, inquieto,
spiando le finestre da lontano, tremando di incontrare qualcuno per le scale.
Gli toccava scongiurare umilmente le minacce del beccaio e del fornaio, che
l'aspettavano sulla scala di marmo, entravano dietro a lui nell'anticamera, lo
seguivano scamiciati colla pipa in mano sino allo studio. Egli doveva tirarli
ad uno ad uno nel vano di una finestra, abbassando il viso e la voce perché
nessun altri udisse, e soprattutto l'Elena, posando la mano sulla manica delle
loro camicie sudicie per ammansarli, accompagnandoli egli stesso all'uscio
perché non osava chiamare la serva, la quale, nella cucina fredda, alzava le
spallacce, sotto il fazzoletto unto. Poi doveva fingere di essere tranquillo,
rientrando nelle belle stanzine arredate di mobili nuovi, colle stoffe
freschissime, si sdraiava sul divano soffice, posava i piedi indolenziti sul
tappeto morbido. Sua moglie fingeva anch'essa di non accorgersi del pallore di
lui, della sua agitazione; non gli diceva nulla di quel che accadeva nella sua
assenza. Si dava sempre da fare nelle altre stanze per non esser costretta a
rimanere faccia a faccia con lui.
Una volta sola, uscì in questa
osservazione:
- Quando non ci sei, è una cosa
da impazzire con quello scampanellio continuo all'uscio!
Un mattino vennero dei facchini a
prendere il pianoforte. Il marito che non sapeva nulla, escì al rumore dallo
studio per informarsi cosa fosse.
- Ho venduto il pianoforte,
rispose Elena secco secco.
Egli arrossì, e non aprì più
bocca sinché i facchini portarono via lo strumento prediletto di Elena.
Poi, come l'uscio fu rinchiuso,
prendendo il suo coraggio a due mani, balbettò:
- Perché hai venduto il
pianoforte?
- Era necessario.
- Lo so, dico perché non hai
venduto qualche altra cosa?
- Il pianoforte era mio...
Intendo che non serviva più a nulla. Non suono più.
Lagrime amare comparvero negli
occhi di lui, che non osava alzare il capo.
Elena seguitò a spingere alcune
poltrone nel posto lasciato vuoto dal pianoforte. Poi lo schianto di quel
dolore timido e peritoso le toccò il cuore. Si accostò a lui intenerita, e
l'abbracciò senza dir motto.
Egli guardandola negli occhi
parve volesse dirle qualcosa di decisivo. Ma era così commosso che non trovava
parola. Solo di tanto in tanto le stringeva le mani senza aprir bocca.
- Come ti ho reso infelice!
mormorò alfine.
- Tu? rispose Elena, stringendosi
nelle spalle. Che idea? Tu hai fatto quel che potevi.
Ma egli aspettava qualche altra parola,
avrebbe voluto che Elena indovinasse qual dolore, quale umiliazione fosse stata
per lui vederla nascondere e dissimulare le sue sofferenze. Gli sembrava che
ella lo respingesse, e in certi momenti si spalancasse fra di loro un gran
vuoto.
- Senti, Elena! le disse
timidamente, se potessi morire, per levarti da questo stato, lo farei.
Elena non ebbe un sol lampo di
carità negli occhi, quel lampo che forse suo marito aspettava trepidante.
Soffriva troppo da qualche tempo anche lei.
- No! tu non ci hai colpa, no!
gli diceva. - Son io che non ho fortuna; non ne ho mai avuta, mai! da bambina,
da giovanetta tante belle promesse, tante parole... ecco il risultato! Se
l'avessi saputo...
- Elena! balbettò il marito.
Ella lo guardò un istante: - Che
idea! Sei matto? No, non dico questo...
- Se morissi, mormorò Cesare
tristamente, tu saresti libera.
- Belle cose che mi dici! Bel
conforto che mi dai! Adesso specialmente... Se l'avessi saputo non avrei voluto
mettere delle altre creature infelici al mondo, ecco!... Tu non sapevi
quest'altra cosa...
Il marito impallidì al sentirsi
annunziare in tal modo quell'avvenimento che è una festa per ogni madre, e per
un po' rimase soprapensieri.
- Che brutta accoglienza trova
questa povera creaturina! mormorò infine.
Elena non rispose.
Però anch'essa si lasciava
vincere a poco a poco, senza coraggio per rinunziare ai sogni della sua
giovinezza, senza forza per cercare un conforto e una distrazione nella
maternità, avvilita dal rovescio, con degli impeti di rivolta comechesia contro
il destino, dei rancori sordi contro tutto ciò che contribuisse alla sua sorte,
come della frenesia, un bisogno di rappresaglia, cedendo grado a grado a delle
aspirazioni insensate di cercarsi da sé quello che la sorte le negava, di
fuggire dalla realtà in qualsiasi modo.
Allora la tentazione che stava in
agguato, che le ronzava d'attorno, nel cervello, nel sangue, dinanzi agli
occhi, la colse, se non pel cuore, per la mente guasta e fuorviata, nello
spirito inquieto e bramoso. Là, sul canto del Piliero, mentre andava dalla
mamma per fuggire le angustie della casa - e si fermò su due piedi al veder
Cataldi, impallidendo a un tratto quasi fosse già colpevole. E le lusinghe di
lui, e le parole scellerate, l'accento caldo, gli sguardi che accendevano il sangue:
- No! no! no! - ripeteva ad
intervalli, sempre con voce più fioca, sempre colla fronte più bassa. Infine...
Adesso esciva tutti i giorni. Si
vestiva in fretta, modestamente, di nero, sgattaiolava lesta per le scale, e
correva dalla mamma, al passeggio, pur di non stare in casa. La serva si
presentava al padrone tranquillamente, colla sporta al braccio, perché gli
desse il denaro per le provviste. C'erano dei momenti in cui al poveretto
sembrava di perdere completamente la testa nel cercare di combinare la spesa
colle poche lire che gli restavano. Doveva ricorrere a degli espedienti, far
dei calcoli mentali, inventar dei pretesti, perché la serva che gli piantava
gli occhi in faccia, con un sorrisetto ironico sulle labbra sottili, colle
braccia pendenti come a significargli che si seccava ad attendere, non
indovinasse il suo imbarazzo, il suo rossore. Alle volte la serva posava la
sporta per terra, si metteva le manacce sotto il grembiale sudicio, per fargli
capire che era stanca di quella storia ogni santo giorno, e borbottava che
cotesto avrebbe dovuto essere affare della signora, che gli uomini non se ne
intendono, che in tutte le case dov'era stata, non aveva mai visto una cosa
simile. Egli doveva mandarla via colle buone, senza rimproverarla, e dopo che
se n'era andata brontolando e strascinando le ciabatte per gli scalini di
marmo, venti volte si era piegato sulla ringhiera, come attratto dal vuoto che
si sprofondava sotto di lui per tre piani.
Ormai nessun'altra risorsa. Quei
due o tre procuratori che gli avevano procurato del lavoro di seconda mano gli
facevano rispondere che non erano in casa. O se non potevano evitarlo per le
scale gli spiattellavano sul viso: - Mio caro, voi siete una macchina.
Comprendiamo i vostri bisogni, ma non possiamo rinunziare al lavoro utile per
darlo a voi.
Ei sarebbe morto dieci volte di
fame, piuttosto che andare a domandare del denaro in prestito, se non fosse
stato per l'Elena. L'unico a cui credeva di potersi rivolgere era il cugino
Roberto.
Ma gli ripugnava l'idea che Elena
avesse potuto saperlo. Piuttosto, spinto dalla necessità si risolvette a
tornare dallo zio Luigi, il quale gli aveva chiuso l'uscio sul naso dopo il suo
matrimonio, prevedendo quello che doveva succedere coll'istinto dell'avaro. Ma
il bisogno stringeva talmente alla gola il povero giovane, gli metteva tal
disperazione nell'anima e negli occhi, che lo zio Luigi stesso non poté parare
interamente la stoccata. Egli sfogò la bile che gli recava la domanda
facendogli un lungo sermone, rimproverandogli la sua follia, rinfacciandogli
che glielo aveva predetto. Il poveretto, seduto di faccia allo scrittoio,
inerte, col dorso abbandonato sulla spalliera della seggiola, si lasciava dir
tutto, confessava tutto, conveniva che si meritava tutto. Egli aveva bisogno di
duecento lire, tutto era lì. Ne aveva bisogno come il pane da mangiare. Egli
era venuto per chiederne in prestito cinquecento. Ma il cuore gli era venuto
meno dinanzi alla faccia dello zio.
- Duecento lire! esclamò lo zio
Luigi rizzandosi sul seggiolone, come se gli avessero dato una coltellata. -
No! non posso. Facciamo a metà. Cento li perdi tu, e cento io.
Il disgraziato tornò a casa con
cento lire in tasca come se ci avesse un tesoro. E sinché durarono si chiuse
nello studiolo, senza dar retta al suocero il quale gli suggeriva temi
importantissimi di legislazione. All'Elena, che tornava inquieta all'ora del
desinare, si mostrava più calmo, e alle volte sembrava che fosse spinto a farle
una confidenza, la guardava con effusione di tenerezza, le diceva:
- Se mi riesce quel che ho in
mente di fare, le nostre angustie avranno fine.
Ma quando terminarono anche
quelle poche lire, il poveretto non ebbe più testa di lavorare, né d'altro.
Ricominciarono le angoscie di ogni giorno. Infine, colla disperazione nel cuore
tornò dallo zio, balbettando che gli prestasse ancora cento lire, cinquanta
anche... quel che voleva. Non avevano più un soldo in casa, non avevano da
comprare il pane, fra una settimana... a qualunque costo... gli avrebbe
restituite le cento lire... Oppure... oppure...
- Ma sì - gli rispose questa
volta lo zio pacificamente. Figurati! Le ho messe qua apposta. Ti darò quelle
stesse cento lire che dovevi restituirmi il mese scorso. Se le hai restituite
devono esser lì. - E gli apriva il cassetto della scrivania.
- Non c'è nulla. Che vuoi farci?
Vuol dire che non me le hai restituite. Quando me le porterai, le metterò là.
Talché se ne avrai bisogno un'altra volta, saprai dove trovarle.
Il povero Cesare grado grado
s'era adattato anche alla vergogna di chieder del denaro in prestito al cugino
dell'Elena. Andò a trovarlo nell'ora in cui sapeva che doveva essere in casa,
finito il servizio dell'ufficio. Infatti lo trovò in pantofole, scamiciato, che
spazzolava dei panni, distesi su di una cordicella, e li ripiegava
accuratamente, imbottendo di giornali vecchi le maniche dei vestiti perché non
prendessero delle pieghe. - Se non si ha questa cura, uno ha sempre l'aspetto
di essere vestito come un ciabattino, gli diceva per scusarsi di essersi fatto
trovare in quell'arnese, pregandolo di mettersi a sedere sul canapè duro come
una panchetta, domandandogli a qual motivo doveva ascrivere la fortuna...
Come Cesare gli spiegò il motivo
arrossendo, Roberto non batté ciglio. Per sì poca cosa che non valeva la pena,
immaginarsi! fra amici come loro, poteva quasi dire parenti! Era che il suo
sarto la mattina stessa gli aveva portato via una grossa somma. Tutto ciò che
aveva sottomano in quel momento. Mio caro Dorello, non potete immaginare quel
che si spende, per poco che uno non voglia andar vestito come un ciabattino.
Già voi lo sapete. Come si chiama il vostro sarto? vedo che vi serve bene. Un
po' passata quella moda del bavero di velluto, ma è ben fatto. Tutto l'abito
sta nel bavero. È una disperazione come cangian le mode. Certi colori vistosi
poi se li portate una stagione vi strillano addosso l'anno dopo. E sempre
spendere! Al giorno d'oggi prender moglie diventava una cosa impossibile. Ora
usavano i calzoni larghissimi. Tutti quelli dell'anno passato erano inservibili.
Cesare, colla febbre nel
cervello, dovette subirsi la discussione ragionata dell'ultimo figurino, e
dichiarare se preferiva le camicie col colletto ritto oppure rovesciato.
Roberto spinse l'amabilità sino a fargli passare in rassegna i suoi vestiti, le
camicie ricamate, le scarpe messe in fila sotto il cassettone.
Il poveretto disperato ricorse
alla sua mamma, e scrisse una lettera in cui si sentivano delle lagrime vere.
Due giorni dopo gli giunse un vaglia
telegrafico di duecento venti lire. Pallido di gioia e di commozione corse a
dire all'Elena:
Mia madre mi ha mandato del
denaro!
Egli non sospettò nemmeno quel che fosse
costato, e quel che dovesse ancora costare alle povere donne quel vaglia mandato
a fare di nascosto, coi denari ricavati da una vendita di sommacco insaccato di
notte nel magazzino. Nel mercato del paesetto quella vendita clandestina gettò
lo scompiglio, alterò i prezzi della derrata. Si venne a conoscere che erano
state fatte delle vendite fuori della piazza, e l'ufficiale telegrafico andò a
raccontare al caffè e alla spezieria il grosso vaglia che gli avevano fatto
fare.
Lo zio canonico senza dire una
parola tornò subito a casa, giallo come una candela, e si fece consegnare le chiavi
da Susanna alla quale erano affidate da tempo immemorabile. La ragazza
allibita, corse a dire alla mamma:
Lo zio ha scoperto ogni cosa!
La madre si mise a letto la sera
stessa colla febbre, e nel delirio farneticava che il cognato li scacciava
tutti di casa, e le sue orfanelle andavano a vendere del sommacco per le
strade.
Cesare, ignaro di tutto ciò,
ripeteva all'Elena, per farsi coraggio:
- Se mi riesce quello che ho in
mente, finiranno le nostre angustie.
Elena ormai sembrava che si fosse
rassegnata a quello stato, o che le fosse divenuto indifferente. Dapprima mal
dissimulava il cattivo umore che le arrecava il vedersi continuamente il marito
in casa. Ripeteva le osservazioni di sua madre che a quel modo avrebbe fatto la
muffa. Tradiva dei momenti di esasperazione in cui la sua testa era altrove,
cogli occhi fissi ed astratti, il viso un po' pallido e le labbra serrate.
Usciva spesso, in fretta, a capo chino, e quando suo marito le domandava dove
fosse stata, una fiamma appena repressa passava attraverso il suo pallore
trasparente.
Egli invece aveva rinunziato
all'avvocatura, al ministero, alle splendide aspirazioni del suocero. S'era
rassegnato a scendere di un grado nella gerarchia forense, e s'era fatto
iscrivere qual procuratore legale. Finalmente capitò un affar grasso, che ebbe
buon esito, e se ne tirò dietro degli altri. Cesare respirò. Andava a
sollevarsi dal lavoro pesante presso di Elena, prendendole le mani
coll'effusione timida di un fanciullo. Ella, pallida come uno spettro, si
lasciava abbracciare.
Don Liborio, quando seppe la
cosa, cominciò a strillare che il genero aveva fatto una corbelleria, si era
tagliata l'erba sotto i piedi, aveva voltate le spalle ad una strada larga e
nobile, per sgambettare tutta la vita in un sentieruzzo angusto e senza uscita,
e non voleva sentire le ragioni del genero sbigottito dal rabuffo.
- Babbo, rispose pacatamente
Elena, coteste son belle cose quando si è ricchi, o almeno quando si può
aspettare il portafoglio di ministro.
- E chi v'impediva di aspettare?
esclamò don Liborio incalorito. Che fretta avevate? Non siete abbastanza
giovani tutti e due?
- No, babbo! Non avevamo tutti i
giorni dei pianoforti da vendere.
- Avete venduto il pianoforte?
rispose il babbo sorpreso di non veder più lo strumento che mancava da un mese
in quel salotto dove egli veniva ogni giorno.
E se ne andò borbottando, perché
non sapeva più che dire, né come spiegare la sua collera.
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