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Cesare era tornato a casa ad ora
insolita, e fu sorpreso di non trovare sua moglie.
- Che so io dov'è! rispondeva la
serva. Io non mi immischio dei padroni. So che è uscita.
Egli prese le carte che era
venuto a cercare e stava per andarsene quando entrò l'Elena, livida, colle
labbra smorte, e gli occhi luccicanti di febbre sotto il velo.
All'incontrarsi col marito in
anticamera diede un passo indietro bruscamente, al primo momento. Poi cercò di
passar oltre, senza guardarlo, senza parlargli.
- Elena! balbettò Cesare
stupefatto.
- Che c'è? disse lei con voce
irritata, fermandosi di botto. Cosa vuoi?
- Dimmi cos'hai? cos'è stato? Non
ti senti bene?
- No. Non è nulla, sta
tranquillo.
- Dimmi cos'hai?
- Nulla ti dico. Lasciami andare,
lasciami, sto benissimo.
Cesare non sapeva che fare.
La serva ascoltava a bocca aperta
dall'uscio della cucina, lo spingeva fuori sgarbatamente, ripetendogli:
- Lasciatela stare, lasciatela
stare. So io quel che essa ha. Voi non ve ne intendete. Voi gli fate più male
che bene colla vostra vista. Son cose di donne.
Lei sola poteva acchetarla,
toccandola colle manaccie unte, poteva mormorarle di tanto in tanto
all'orecchio qualche parola a voce bassa, mentre il marito dietro l'uscio udiva
piangere sua moglie cheta cheta. Sul tardi arrivò donn'Anna e tutta la
famiglia, tanto che la serva chiuse l'uscio perché non empissero la camera.
Camilla poté sgusciare accanto alla sorella, tenendole un braccio al collo,
parlandole nell'orecchio, senza guardarla, e l'Elena accennava di sì, col capo
basso, asciugandosi gli occhi. Roberto si era messo a sedere discretamente
accanto a Cesare, don Liborio andava su e giù pel salotto, col cappello in
testa, e donn'Anna ripeteva al genero:
- È mal di nervi; so cos'è.
Quand'ero incinta di Camilla l'ho avuto anch'io tal'e quale. Una notte svegliai
don Liborio perché aveva voglia di mangiare dei mattoni pesti. Sciocchezze.
Tutt'a un tratto si aprì l'uscio
della camera, e comparve Elena, seguita dalla sorella, molto abbattuta, cogli
occhi gonfi, strascinandosi a fatica. - Non vuol darmi retta, biascicò Camilla.
- Dice che ha bisogno di respirare sul balcone.
Elena si appoggiò alla ringhiera
del terrazzino, guardando il mare, col mento fra le mani. La sera scendeva
calma e serena e si udiva fin là il fischio dei vapori che partivano. Spirava
una brezzolina fresca, ed Elena rispondeva ostinatamente alla sorella che la
supplicava all'orecchio scuotendo il capo risolutamente, e ripeteva con voce
sorda:
- No! no! lasciatemi stare!
lasciatemi stare!
Infine si voltò inasprita, cogli
occhi scintillanti di collera, la voce rauca:
- Lasciatemi, vi dico! Lasciatemi
sola! Che paura avete?... Perché non mi lasciate sola?...
Ma, scorgendo suo marito non
disse più nulla, e si appoggiò un'altra volta alla ringhiera col mento sulle
palme. Due colonne di fumo nerastro si svolgevano attraverso gli alberi fitti
del porto che frastagliavano di linee nere e sottili l'opale del tramonto. Poi
cominciarono a scorrere lentamente lungo il muraglione del molo, e girarono la
punta del faro, sbuffando più densi, accompagnati da un fischio prolungato e lontano.
Due grandi piroscafi uscirono insieme fuori del molo, e s'avanzarono nel mare
che imbruniva, come una sola gran massa nera bucata di punti luminosi lungo il
bordo, con un rumore sordo di ale possenti che battevano l'onde. Poi
gradatamente si separarono, l'uno parve rimpicciolire virando di bordo,
dileguandosi verso il capo Campanella, e l'altro seguitò ad avanzarsi a
diritta, gettandovi il riflesso ancora incerto del suo fanale rosso.
Elena, com'era sopravvenuta la
sera, domandò a Roberto che l'era vicino, dietro alla Camilla:
- Qual'è dei due che parte per
Genova?
La sua voce era talmente mutata
che Roberto non si raccapezzò subito. Cesare rispose per lui:
- Questo qui, a destra.
Elena trasalì all'udir la voce
del marito, e tirò dentro pel braccio la Camilla, collo sguardo smarrito,
stringendola così forte che anche la sorella spalancava gli occhi dal dolore.
Andò a sedersi nella sua camera, al buio, e non volle vedere più alcuno.
- Non è nulla! ripeteva donn'Anna
chiudendo il balcone. Non vi spaventate. Quand'ero nello stato in cui è lei
adesso, facevo anche peggio.
Nei giorni seguenti Elena andò
calmandosi a poco a poco. Il medico confermò il giudizio di donn'Anna,
raccomandò il riposo, una vita calma, delle distrazioni quanto si poteva, ed un
moto regolare. Elena ebbe una gestazione travagliatissima. Il caldo eccessivo
della stagione aveva contribuito ad abbattere le sue forze. In poco più di un
mese ella era divenuta irriconoscibile, colle guance scarne, gli occhi stanchi
e profondamente solcati, qualcosa di cascante in tutta la sua persona. Ella si
alzava tardi, passava delle giornate intiere sdraiata sul canapè, senza aprir
bocca. Non si occupava più di nulla, non s'interessava a nulla. S'annoiava di
tutto, s'irritava alla più lieve contrarietà. Diceva che oramai si era fatta
vecchia. Non si guardava più nello specchio, si lasciava pettinare come
volevano, indossava la sera una specie di accappatoio lungo, si buttava uno
scialle indosso, e andava a fare una passeggiata a lenti passi, appoggiandosi svogliatamente
al braccio del marito, spesso senza dire venti parole in tutta la sera, senza
fare attenzione alle amorevoli sollecitudini di lui, il quale sentiva il cuore
stretto da quella vaga indifferenza che li separava a poco a poco, che si
insinuava in mezzo a loro due allorché stavano a sedere al buio, su qualche
banco remoto della Villa, senza aver più nulla da dirsi, interessandosi
piuttosto alla gente che passava, correndo l'uno lontano dall'altro col
pensiero, uniti soltanto dalle preoccupazioni comuni e dalle piccole noie.
Quando andavano dalla mamma, Elena si metteva al balcone l'intera sera,
guardando nella strada, facendosi vento col ventaglio, mentre Camilla
agucchiava e Roberto stava a vedere. Poi come don Liborio andava a rimontare la
pendola, tornavano a casa, passo passo, a braccetto, in silenzio, per quelle
stesse strade che avevano fatto col cuore in tumulto nel trovarsi insieme la
prima volta. E i conoscenti che li incontravano a caso non ravvisavano più in
quella matrona larga e lenta l'Elena di un tempo, modellata leggiadramente dal
vestito, ancora un po' rigida, ma diggià serpentina ed elegante, coi grandi
occhi curiosi sotto il cappellino modesto.
Ella non era perversa no! si
credeva sinceramente disgraziata, faceva il possibile per riannodare il
passato, sorrideva dolcemente allorché suo marito le prendeva le mani come una
volta, senza osare di parlare. Egli la guardava sempre in quegli occhi stanchi
con una gran tenerezza, e la baciava a lungo, a lungo, quasi avesse voluto
dirle cose che non sapeva spiegare egli stesso in quel bacio. Tanto che alle
volte Elena, staccandosi da lui, gli fissava in volto uno sguardo strano, come
sorpreso gradevolmente di quell'amore che durava sempre, e domandava:
- Davvero? mi ami ancora lo
stesso? sempre come prima?
Oh! se ella l'avesse
incoraggiato!... Se ella non gli avesse agghiacciato le parole in cuore con
quella fredda incredulità!... È che egli non osava, al vedere quello sguardo
strano, al contatto di tutta quell'aria di indifferenza che ella non
dissimulava neppure. Egli l'amava come prima, più di prima, perché ella era la
parte migliore di se stesso, la sua gioia, il pensiero di tutti i giorni, lo
scopo del suo lavoro, la dolcezza della sua casa, l'essere intimo e caro in cui
si incarnavano tutte le sue speranze, le sue gioie, i suoi sogni, per cui aveva
sofferto, e nel cui sorriso era la sua felicità.
Allora si abbandonava
all'espansione dei suoi sentimenti, tornava ad accarezzarla colle parole e
colle mani tremanti, a stringerla forte, quasi avesse temuto che le fuggisse, e
coprirla di baci deliranti sulle mani, sulle labbra, sul collo, sugli occhi,
sui capelli.
Dapprincipio si animava anche lei
a quella foga d'affetto, dimenticava ogni altra cosa, dibattendosi sotto quelle
carezze, chinando il capo con piccoli gridi selvaggi; chiudeva gli occhi,
sorridendo, coi cappelli allentati; si abbandonava. Poi tornava in sé,
abbuiavasi, aggrottava le ciglia, gli posava le mani sul petto, si irrigidiva.
Gli diceva:
- No! no! lasciami, non siamo più
ragazzi... Che pazzie!... Ora sono un'altra... sono un'altra...
Pensava alla sua giovinezza
miseramente sfiorata? alla sua bellezza distrutta? ai sogni che si erano
dileguati? alla maternità che l'aspettava come un sacrifizio? E di tutti questi
pensieri nasceva e ingigantiva un rancore indistinto, un umor tetro che
scolorava ogni cosa ai suoi occhi. Il marito, colla divinazione penetrante di
chi ama davvero, si sentiva avvolto in quel rancore, in quell'umor nero
anch'esso, gli pareva di essere allontanato e respinto, quasi gli pesasse
addosso la responsabilità di quei sogni di ragazza che s'erano involati. Tutto
ciò metteva un gran vuoto in quelle stanzine ristrette, un freddo che
agghiacciava il cuore di lui, e gli faceva cercare il lavoro come uno svago,
come qualcosa in cui c'era ancora il pensiero di Elena senza che si vedesse il
suo pallore, il suo sorriso glaciale, il suo occhio distratto. Il poveretto si
faceva in quattro per procurarle qualche soddisfazione col suo lavoro. Passava
le notti a scrivere per portarle un regaluccio modesto, un cappellino nuovo, un
braccialetto, un ventaglio, aspettando ansioso un sorriso di lei, un gesto, un
cenno del capo, una parola. Colle ossa rotte dalla fatica, dal salire e
scendere scale di procuratori e di avvocati, le offriva di accompagnarla al
passeggio, in teatro, magari in società, ora che avevano fatto pelle nuova, e
cominciavano a respirare. Ella non voleva, faceva la vittima ingenuamente, si
creava delle tristezze solitarie da romanzo, provava una voluttà amara a far
l'Arianna, la caduta, la disillusa, strascinando la sua noia da una stanza
all'altra, agucchiando svogliatamente a dei capi di corredo piccini come se
dovessero servire per la bambola, e le sembrava in tal modo di sorvegliare
minutamente ogni cosa, tale e quale come donn'Anna. Costei, di tanto in tanto
veniva anche lei a dare una mano, a consigliare su quel che doveva farsi, a
sgridare la serva, la quale allungava il muso a tutte quelle novità, e
strascinava le ciabatte per la casa, brontolando, guardando cogli occhi torvi
ogni pannolino che le davano da stirare, sbattendo la granata contro gli usci
nello spazzare, sfogandosi a picchiare i mobili collo spolveraccio; e si
calmava soltanto se rompeva qualche cosa, restava lì a guardarla e a girarvi
attorno, alle sgridate di Elena rispondeva che non l'aveva fatto apposta, non
sapeva far meglio, se non erano contenti se ne andava - posava lo spolveraccio
sulla prima suppellettile che capitava, grattandosi i gomiti aguzzi: - Tanto
per quel che si buscava adesso!...
Solo donn'Anna bastava a
rintuzzare la petulanza di quella donnaccia, la quale appena la vedeva arrivare
andava a rintanarsi quatta quatta in cucina, colla granata sotto il braccio.
La mamma rimbrottava alla
figliuola: - Come puoi tollerare gli sgarbi di colei? Non vedi che ti ruba
sulla spesa? -Rivedeva il conto in presenza della serva, la quale rispondeva ad
ogni osservazione: - Io non so altro che ho speso tanto, sono i prezzi soliti.
C'è anche qui la padrona che può dirlo. - E guardava l'Elena, la quale chinava
il capo.
Donn'Anna pretendeva che il
genero ci pensasse lui alla spesa, la mattina, prima di andare all'ufficio,
così faceva don Liborio. E Cesare allora per mettere la pace in famiglia, prometteva
che sarebbe andato. La serva tornava in cucina sogghignando, rivolgendogli
delle parolacce dietro le spalle.
- Vorrei vedere cosa farai con
una disutilaccia di quella fatta ora che giungerà il marmocchio! Tu non ci
reggerai, così delicata come sei. Ti sei vista allo specchio? Dovete pensare a
procurarvi una buona balia, di quelle del contado, che son sane e lavorano per
quattro. Roberto che è nei trovatelli te la cercherà.
Elena non sapeva risolversi a
congedare la serva; ma dall'altro canto, l'idea di essere costretta ad
allattare lei il bambino, la spaventava. Malgrado il suo orgoglio, si ridusse a
parlarne bonariamente colla donna, quasi a domandarle consiglio, a metterla a
parte del suo imbarazzo.
- Non è nulla! Vuol dire che
faccio i quindici giorni e poi me ne vado. Tanto in questa casa passo per
ladra. Adesso che il padrone va fuori per la spesa, appena arriva la balia non
avrete più bisogno di me. Già mi toccherebbe fare la serva alla balia, se il
padrone non può tenere altre persone di servizio. E la serva alla balia non la
farei, no! Questo mettetevelo in testa.
Invano Elena cercava di essere
indulgente verso di lei, di trattarla meglio che poteva, regalandole dei
vestiti smessi, uno scialle quasi nuovo. La serva compiva i suoi quindici giorni
come se nulla fosse stato, era sempre colla granata e collo spolveraccio in
mano, affettava di andare a prendere gli ordini dal padrone ad ogni minima
cosa, giacché il padrone scendeva perfino ad andare al mercato. Quando arrivava
il ragazzo colla spesa cacciava le mani nel paniere, brandiva i pesci o il
fascio degli spaghetti, si informava cosa li avessero pagati, ficcava il naso
dentro le branchie dei merluzzi, o sul grasso della carne, e fingeva di essere
stomacata, borbottava: - È roba di otto giorni, capisco adesso perché costa
meno. Valeva la pena di andare un galantuomo col cilindro e la canna d'india
per risparmiare cinque soldi su della roba che non vuol nessuno! - Se le
vivande erano bruciate, o malcotte, rispondeva: - La spesa non la faccio io.
Questa è la roba che ha comprato il padrone. - E alle volte poi rifiutava la
parte che le toccava, mettendo il piatto sotto la tavola perché se ne
accorgessero; fingeva che lo stomaco le si rivoltasse, e si metteva a parlare
col gatto. - Non credere che sia incinta anch'io... Se facessi come tante altre
sarei rimasta a balia nella casa! - E quando non c'era Elena soggiungeva:
-Ragazze o maritate, so io quello che fanno. E le padrone anche! Se dicessi
tutto quello che ho visto in questo mondo! Molte di quelle signore che portano
la veste di seta non son degne di leccarmi queste ciabatte qui! - E si toccava
le ciabatte e le baciava, sotto il naso del padrone, per far intendere che
quelle almeno erano onorate.
L'aveva specialmente col padrone,
buono soltanto per andare a fare le provviste, che non poteva mantenere alla
moglie la balia senza toglierle la cameriera. Quando uno è disperato come lui
non si marita, o deve lasciar mantenere la moglie dagli altri, e non fare il
superbo. Ella andava a domandargli se bisognava lasciare il fuoco acceso per
l'acqua calda o se dovesse mondare l'insalata pel giorno appresso, giusto
allorché lo vedeva più occupato. Si metteva a scopare nel corridoio, si
accaniva contro l'uscio dello studiolo, non la finiva di strofinare ogni
spigolo col grembiule sudicio, cercava ogni mezzo di tormentare il pover'uomo,
gli metteva sottosopra le carte e i libri col pretesto di spolverare, gli
rovesciava il calamaio sulla scrivania, tutto coll'aria calma di fare il suo
dovere, gongolando dentro di sé al vedere che lui stava per perdere la
pazienza, e si agitava nervosamente sulla seggiola, lo stuzzicava col suo
cicaleccio da zanzara: - Ella non ne aveva colpa se sceglieva giusto quel
momento. Non poteva farsi in quattro per badare al tempo stesso in cucina e
nella casa. A lei toccava di fare da cuoco e da stalliere. La padrona faceva il
diavolo per un granello di polvere, come se tenesse quattro persone di
servizio. Adesso che non esciva più, e non aveva più da fare fuori di casa,
andava a cercare i granelli di polvere.
Il padrone aveva un bel
supplicare che lo lasciasse tranquillo, che andasse dalla padrona, per sentire
se bisognava mondare la lattuga o lasciare acceso il fuoco. L'indomani lei
tornava da capo, diceva che non poteva andare da Erode a Pilato, si ostinava a
fargli contare le fette di carne prima di andarle a friggere, lo strutto che
era avanzato dalla padella, il prezzemolo che era andata a comprare, perché non
la tenessero in conto di ladra, all'onor suo ella ci teneva più di qualchedun'altra;
rovesciava le saccocce e contava gli spiccioli sullo scrittoio del padrone -
Povera. ma onorata!
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