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«Oh, i primi baci dietro la
veletta!» Ella li aveva dinanzi agli occhi febbrili, mentre saliva trepida e
guardinga le rampe del Vasto, col passo leggiero, chiusa nella mantiglia,
pallida. Il ciabattino lercio che faceva da portinaio si fece ripetere due
volte il nome del suo inquilino, guardandola sfacciatamente, canticchiandole
dietro una canzonaccia oscena, che accompagnava picchiando del martello sulla
suola, mentre ella saliva rapidamente la scala sudicia e nera, premendosi la
mantiglia sul seno ansante, sino a un quinto piano smantellato. Egli
l'aspettava dietro l'uscio, più pallido di lei, e nell'anticamera buia, le
domandò prima di ogni altra cosa se fosse certa di non essere seguita. Poi le
prese la mano per guidarla negli andirivieni dell'andito. Ella non rispondeva,
e si lasciava condurre nella vasta cameraccia piena soltanto di sole e di luce.
Di là si scorgeva come un panorama il mare, Capri, e un'immensa distesa
d'azzurro. Il poeta, trionfante, aveva spalancato il balcone per preparare la
messa in scena, la festa del cielo che armonizzava colla festa dei loro cuori,
la natura che sorrideva del loro sorriso, tutta la ricchezza di sensazioni
delle anime privilegiate, che i ricchi della terra non possono comprare a peso
d'oro. Elena volse le spalle a quella luce sfacciata che la imbarazzava,
infastidita, irritata.
- Non temere; nessuno può
vederti, disse lui, le case dirimpetto non arrivano al secondo piano. Se no,
avrei chiuso il balcone.
- Sì, chiudete.
Fiandura indovinò vagamente la
goffaggine in cui era caduto, chiuse le imposte, con un'aria misteriosa. Poi
corse a buttarsi ai piedi di lei, con uno slancio di tenerezza commovente,
benedicendola per la felicità che gli arrecava sotto il suo povero tetto,
baciandole il lembo della veste, mormorando con voce melodrammatica: - Grazie!
grazie!
- Ho fatto male! diss'ella.
- Male? Ah! la gran parola! la
parola di tutti coloro che non hanno mai sofferto, che non hanno amato, che non
sanno quanto valga uno di cotesti momenti per certe anime! come uno di cotesti ricordi
basti a riempire un'esistenza!
Qual'era il male, per lui, dotato
della scintilla divina che rischiara ogni sentimento della sua vera luce, e lo
rende etereo? che cos'era il marito, la legge, il mondo, per lui che aveva in
cuore tutto l'amore dell'universo, nella sua più sublime essenza? Che cos'era
la figlia di Elena per le opere che avrebbe potuto crear lui, ispirato da
questo amore, in cui ella avrebbe messo la favilla, il pensiero, il soffio, il
fiato? Egli aveva aspettato questo momento dieci anni! Aveva vissuto con questo
sogno, aveva avuto sempre là quell'immagine che aveva presentito, aveva atteso
colla doppia vista degli spiriti superiori, la sua ispirazione, la sua musa,
verso cui aveva steso le braccia supplichevoli nei giorni neri, nei giorni di
sconforto, che aveva invocato, che aveva conquistato, che gli apparteneva, era
cosa sua, pel diritto che gli dava il suo lungo martirio, il suo amore,
l'ispirazione che ella gli avrebbe dato, la gloria che l'attendeva, l'ingegno
che metteva ai piedi di lei. Elena, disattenta, con cento pensieri confusi
negli occhi, guardava intorno come sbigottita, le pareti nude, la finestra
senza tende, il lettuccio basso e piatto, i libracci squinternati, e gli
scartafacci polverosi accatastati sulle seggiole in artistico disordine, tutta
quella gloria di cartacce sudicie. Ella ritirò vivamente la mano di cui egli
voleva impadronirsi.
Allora il poeta, un po'
sconcertato, prese a parlare dei suoi versi, degli argomenti che aveva in
testa, di quello che voleva fare per rendersi degno di lei, perché ella andasse
superba di poter dire, quando la folla pronunziava commossa il nome di lui: - È
mio!
Si rizzò adagio adagio, poiché le
ginocchia gli dolevano, e cominciava a comprendere che era ridicolo il rimanere
in quella positura, se ella non lo tirava su fra le sue braccia. Andò a
rintracciare delle poesie che aveva scritto per essa, ispirato dall'amore, in
quella stanzaccia tutta vibrante del pensiero di lei. Ella ascoltava, cogli
occhi intenti, bramosa di commuoversi alla cadenza melodiosa di quella voce
concitata, che suonava come un sermone nel silenzio della vasta camera, isolata
sui tetti. Cercava anche lei qualche cosa, una parola adatta, un argomento che
non seguitasse a far battere la campagna al pensiero, lontano dalla loro
situazione. Trovò soltanto:
- Avete scritto qui... queste
cose?
- Sì, rispose lui, pensando a
voi! Qui non giungono altri pensieri, non sale voce umana. Quando apro quelle
imposte vedo soltanto dinanzi a me il mare immenso, e mi basta. È l'alloggio di
un uccello solitario. Ve l'avevo detto.
- È un po' alto, - osservò Elena.
- Ha il vantaggio di non esserci
vicini curiosi e importuni. Mi piace la mia libertà. Anzi posso ricevere chi
voglio senza che nessuno se ne avvegga.
- Ah! diss'ella.
- Elena!... No!... Non quello che
pensate. Qui non ha messo il piede nessun'altra donna.
- Ah!
- Mi credete? Credete che
allorquando si ha il cuore e la mente pieni della vostra immagine è impossibile
profanarla!... Mi credete che dacché vi conosco, dacché vi siete impadronita di
tutto l'essere mio, mai un pensiero... mai un atto... Elena!...
- No! esclamò Elena bruscamente,
tirandosi indietro. No, Fiandura... Non mi fate pentire di esser venuta!...
- Perdonatemi, Elena! son pazzo!
È che vi amo come un pazzo! - Elena gli abbandonò la mano. Allora il poeta
incoraggiato, continuò: - Se sapeste come vi amo! Se potessi mostrarvi il cuore
delirante per voi! Se potessi dirvi le parole con cui vi ho invocata! se
potessi narrarvi le notti insonni, i giorni desolati, le febbri, quel che sento
a una vostra parola, quel che è per me un vostro sguardo, quel che provo a un
vostro sorriso, un gesto, il fruscio della vostra veste, il profumo dei vostri
guanti! Quando vi vedo nelle vostre sale, circondata, corteggiata, adulata... comprimendo
l'angoscia nel mio petto!... E come son geloso di tutti, delle ore in cui non
vi vedo, delle case in cui non posso seguirvi, delle parole che vi dicono,
degli uomini che discorrono con voi, dell'aria che respirate, del vostro
passato...
Elena levò il capo con tal moto
improvviso che gli tagliò netta la parola.
- Oh! mormorò ella amaramente col
volto in fiamme.
- Che cosa?
- Nulla!
Il poeta sconcertato, riprese con
fuoco:
- Sì, son geloso di
quell'imbecille che si crede in diritto di farvi la corte perché ha un cerotto
di corona sul biglietto di visita...
Elena fece una spallucciata che
lo scombussolò completamente. Oramai aveva vuotato il sacco del lirismo
melodrammatico e cercava il modo, anche lui, di mettersi in carreggiata. -
Quanto era felice, al pensare che ella era là, che era venuta per lui! Come le
stava bene quel vestito nero! Perché non si lasciava togliere un guanto?
Soltanto cotesto! - Ella diceva di no, imbarazzata anche lei, umiliata di
sentirsi ridicola ancor essa. Era tardi, doveva andarsene. - Ancora un istante!
Egli aveva bisogno ancora di saziarsi gli occhi ed il cuore di quella visione
celeste! Oh! il suo povero tetto! le sue povere gioie! la sua vita deserta!
tanti anni! Aveva un mondo di cose da dirle e non le trovava. Si sentiva
sbalordito dalla felicità. - A volte Elena gli saettava un'occhiata, rapida,
avida anch'essa e pur diffidente, con un sorriso che si agghiacciava sulle
labbra.
- No! no! Elena! non ancora! Se
tu sapessi cos'è questo momento per me! per un cuore di poeta! Ne saresti
superba anche tu. Voglio crearti un trono di gloria, voglio eternare in un
canto... E ci tornava con un'insistenza spietata, ingenua, instancabile. Il
tempo scorreva rapidamente, sebbene nella stanza non ci fosse neppur l'ombra di
quel volgare arnese che lo misura agli intelletti piccini, che regola
prosaicamente le occupazioni dei borghesi. Elena guardò il suo orologio, e si
rizzò di botto, più seria di com'era venuta, aggiustandosi in furia i nastri
del cappello e il lembo della veletta, cercando istintivamente cogli occhi uno
specchio... - No! no! è tardi, devo andarmene...
- Perché siete venuta dunque?
esclamò il poeta lasciandosi vincere dal dispetto.
Elena si tirò indietro
bruscamente, completamente trasformata da un istante all'altro, col viso basso,
tutto una vampa, i lineamenti contratti, le sopracciglia aggrottate. Poscia gli
saettò in faccia un'occhiata che pel poeta fu una rivelazione, un lampo,
l'ispirazione di gettarlesi ai piedi un'altra volta, scongiurandola di
perdonargli. - Era pazzo, era pazzo d'amore. Aveva persa la testa. Se ella non
gli avesse stesa la mano si sarebbe buttato dal balcone, davanti a
quell'immensità azzurra. Si sarebbe sfracellato il cranio in mezzo a tutta
quella festa di luce.
Elena nervosamente agitata, coi denti
stretti, l'occhio smarrito sotto la veletta, aggiustandosi febbrilmente la
mantiglia addosso, balbettava:
- Lasciatemi andare! lasciatemi
andare!
Ditemi che mi avete perdonato,
Elena! Non mi lasciate così! Ditemi che vi rivedrò!...
- Sì, sì! ripeteva ella macchinalmente.
- Grazie. Oh! grazie! Quando?...
quando vi rivedrò?...
- Non lo so... non posso dirvelo
ora... È tardi... Non ho un minuto di tempo... Vi scriverò... Ci vedremo...
Egli la seguiva passo passo per l'andito,
mogio, a capo basso, inciampando nei mattoni smossi, dietro il passo rapido di
lei che sembrava fuggire. Elena chinò il capo nel passare per l'uscio che le
era aperto, gettandogli una stretta di mano lenta e una parola che spirò sotto
la veletta. Ei rimase sul pianerottolo, col cuore che gli martellava,
accompagnando ansioso quella veste nera che si dileguava rapidamente lungo le
rampe della scala, quel sogno ambizioso e febbrile che sfumava volgarmente.
Quando era per scomparire, col cuore stretto dall'angoscia, le gridò:
- Ricordatevi!
Elena abbassò il capo, come se le
fosse caduta una tegola addosso, stringendosi nella mantiglia. Il portinaio
tempestando di colpi di martello la suola della ciabatta le cantò un'altra
volta dietro il ritornello osceno.
Ah! mormorava Elena fuggendo,
colle labbra contratte dal disgusto. - Ah!
Per la strada incontrò il marito,
il quale correva come un cavallo da lavoro su e giù per Napoli, carico d'affari
e di preoccupazioni, in mezzo al via vai chiassoso della folla, e fece fermare
la carrozzella, tutto felice d'incontrarla, di dirle una buona parola, di
mettere un momento la sua immagine leggiadra fra le occupazioni noiose della
sua professione.
- Come stai bene! Hai passeggiato
molto? Sei rossa in viso. Vuoi che ti accompagni in legno?
- No, vado qui vicino. Grazie.
- Sai! per la causa col demanio,
sono in giro dalle otto. Va benone!
- Addio.
Egli si sporgeva ancora dal
legnetto che correva saltellando sul lastricato per seguire cogli occhi amorosi
l'andatura modesta ed elegante della sua Elena, la quale si allontanava
frettolosa, rasente al muro, a capo chino, grave del pentimento di una colpa
inutile. Cesare invece correva dagli avvocati, dai procuratori, su e giù per le
scale dei tribunali, tutto invaso e commosso dal pensiero di lei, onde
procurarle quella vita agiata, quei mobili antichi, quei servitori coi capelli
bianchi che avevano l'aspetto di averla tenuta a balia. La casa oramai era
messa su questo piede, che le amiche intime fossero almeno delle baronesse, e
Cesare che pagava tutto si presentasse timidamente nel suo salone, fra le tende
di broccato antico, e il duca Aragno desse a ogni cosa il tono, il gusto, il
colore, le maniere grandiose che lusingavano la vanità borghese di Elena, le
tenevano luogo dei suoi castelli in aria da ragazza, la rialzavano
dall'umiliazione che aveva ricevuto dalla sua scappata sino alla soffitta del
poeta, completamente obliato. Il duca trionfava colla sua scuderia, col suo
sarto, col suo gran nome buttato dall'alto in anticamera, colla gelosia
pettegola di una vera dama che faceva parlare di sé tutta Napoli. La tresca col
duca era profumata, elegante, in un ambiente che raffina la colpa, l'accarezza
e l'addormenta con tutte le mollezze, nel velluto, tra i fiori, coi piaceri artificiosi, coi riguardi
scambievoli, coll'etichetta inflessibile, con tutte le buone maniere inventate
dalla raffinata corruzione per far cadere mollemente l'onore di una donna.
Il poetuccolo, geloso per vanità,
aveva scritto una satira furibonda contro di Lei. - «Ti rammenti? - L'elegia
erotica e accusatrice. - Ti rammenti, nel salotto color d'oro? - Ti rammenti,
quando venisti a trovarmi nella povera stanzetta? - La povertà tornava bene
coll'intonazione piagnucolosa. Le allusioni erano trasparenti come il
cristallo, i particolari precisi per l'impronta di intimità che richiedeva
l'argomento. - Ti rammenti il primo bacio, sulla poltrona di velluto nero,
ricamato colle tue cifre? e il fazzoletto che dimenticasti nella mia stanza? il
profumo che vi lasciasti con esso? il tuo nome dolce al pari di quello della
tua greca sorella? Ah! dove l'hai portato adesso quel profumo, traditrice?
Nell'alcova principesca! nelle stanze anticipatamente profanate da altri amori
volgari. Hai barattato il tuo motto altero «Tant que vivray autre n’auray»
contro una corona a cinque fioroni, perch'essa t'è parsa più nobile di una
fronda d'alloro, e più bella dei vent'anni, e più splendida dei capelli
biondi...».
La romanza continuava su questo
tono per tre facciate di uno di quei giornaletti grandi quanto un foglio di
lettera, che nessuno compra, e che tutti leggono ogni volta che si vitupera un
uomo, un libro, o qualche altra cosa in vita. Il marito della greca donna seppe
in tal modo, un mese dopo, lo scempio turpe che si era fatto del suo onore.
Ma allorquando tentò di lavare la
macchia in una maniera qualsiasi, con un colpo di sciabola o di pistola, non
trovò per assisterlo un solo di quegli amici che gli stringevano la mano, che
gli lasciavano il loro nome alla porta, venendo a far visita a sua moglie, che
gliela avrebbero nascosta colla loro persona s'egli l'avesse sorpresa fra le
braccia del suo amante, e che in cambio gli avrebbero fatto da testimonio
s'egli avesse dovuto battersi per una ballerina o per una cortigiana. Il poeta,
in cima alle sue povere stanze, si drappeggiava superbamente, come nel suo
paletò spelato, nella dignità dell'arte, nel sacerdozio della penna.
Trinceravasi dietro la irresponsabilità della finzione poetica. Gli amici non
osavano insistere onde approfondire la cosa. Avevano fretta di levare i piedi
da quella mota. Schieravano dinanzi al marito la fama delicata della moglie,
l'avvenire della figliuoletta, il pericolo di uno scandalo che sarebbe stato
pregiudizievole in qualsiasi evento. Citavano Cesare e sua moglie. Infine,
infine... - E questa gente che si stringe nelle spalle allorché vi sentite
spezzare il cuore pel tradimento di lei in cui avete riposto tutto il vostro
affetto, la vostra fede, la vostra felicità, questa gente, se non sapete
resistere a lei per cui il cuore vi sanguina, che amate ancora, e la quale vi
dice, con lagrime vere, con singhiozzi che sentite venire dal cuore,
aggrappandosi al vostro collo coi capelli sciolti, colle braccia convulse: -
Perdonami! Perdonami! perdonami come Dio!... Ebbene, questa gente, se voi fate
come Dio, si stringe egualmente nelle spalle, ma di sprezzo.
Cesare tornò a casa, pallido come
uno spettro. E lì, colla figlioletta fra le braccia, pianse a lungo,
disperatamente, di quelle lagrime che piombano ad una ad una sul cuore, e vi
scavano un solco.
Tutt'a un tratto entrò l'Elena,
coll'occhio impietrato, le labbra convulse e cascanti...
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