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«Vostra madre sta male, e
desidera vedervi. Venite.
don Anselmo Dorello».
Cesare si sentì mancare le
ginocchia. Poi, accasciato sulla poltrona, si mise a piangere dirottamente.
Elena era lì presente, immobile, sembrava commossa anche lei. Per la prima
volta, dopo tanto tempo, gli prese il capo fra le braccia, e se lo strinse al
seno, in silenzio. Il poveretto, in quell'ora nera che gli si stringeva
addosso, sentì scendersi al cuore quella pietà come un'amara dolcezza. La
guardò cogli occhi lagrimosi, balbettando:
- Mia madre, Elena! mia madre,
Elena!
- Vengo con te - diss'ella. -
Voglio venire anch'io.
Arrivarono al paesello verso
l'alba. Le finestre della casa paterna lucevano ancora. Attraversarono le
stanze in disordine, cogli usci spalancati, pei quali passavano i pianti della
famiglia, l'odor vago dell'incenso, delle candele di cera, e della morte. Don
Anselmo, tutt'ora ornato dalla stola nera, venne loro incontro, sbarrando l'entrata
colla sua persona, e in quell'istante solenne abbracciò il nipote, senza dir
motto, lo portò quasi di peso sul vecchio canapè, in mezzo alle sorelle che
piangevano.
- La volontà di Dio! - disse il
prete, pallido anche lui. - In ogni cosa c'è la volontà di Dio.
Elena, in quella desolazione,
rimaneva come obliata in un cantuccio, si sentiva che era la sola estranea a
quel dolore. Chi si occupò di lei fu lo zio canonico, colui dal quale l'era
stata mossa la guerra più aspra, quasi ora la morte avesse dissipato ogni
rancore, gli avesse data una lezione severa di carità e di perdono.
- Siete tutti figli miei, -
diss'egli. - L'ho promesso a quella poveretta.
Nel paese fu una sorpresa
generale. L'argomento di tutte le conversazioni, lo stupore di coloro che
tenevano il canonico per un uomo di carattere, e non avrebbero mai creduto che
si lascerebbe abbindolare dalle moine della Napoletana, la forestiera che
avrebbe dissipato i risparmi di don Anselmo, avrebbe mangiato le speranze delle
cognate, per ecclissare le signore del paese col suo lusso. Un maturo
benestante che faceva la corte dalla finestra ad una delle sorelle di Dorello
non si fece più vedere. Lo zio Luigi, al quale delle anime caritatevoli erano
corse a dare l'allarme, arrivò all'improvviso, tutto sottosopra, commosso sino
alle intime viscere dal timore che suo fratello il canonico potesse essere
rapito al suo affetto da un momento all'altro, come la cognata. - Quando la
morte picchia ad una casa non si contenta di così poco. - Il sangue gli parlava
nelle vene, il sangue stesso di don Anselmo, il quale aveva accumulato una
bella sostanza, e doveva rammentarsi del sangue suo, prima di disporre in
favore dei nipoti, e di gente estranea per soprammercato, che aspettava la sua
morte per scialarla coi suoi denari. Il paese intero diceva la stessa cosa.
Nella spezieria e nel casino non si parlava d'altro che del lusso di Elena, dei
suoi ricevimenti principeschi, delle sue dozzine di cappelli, - aneddoti,
pettegolezzi, maldicenze. La signora Brancato, la signora Golano, tutte,
andarono a farle visita in gala, seguite da certi servitori insaccati in livree
a colori vivaci, impastoiati in guanti bianchi di cotone.
Elena sembrava tornata ai bei
tempi della Rosamarina. La morte che aveva colpito come un fulmine, il lutto
che si era stretto attorno alla famiglia, l'aveva riaccostata intimamente e
sinceramente al marito, di cui sentiva essere il solo conforto, quasi una cara
e dolorosa memoria vivente delle amarezze che gli era costata. Cesare non le
aveva detto nulla, ma ella indovinava ai suoi tristi silenzi, agli occhi che
gli si gonfiavano di lagrime, quando le stringeva commosso la mano, scrollando
il capo, e pareva volesse dirle:
- Dimentichiamo!
dimentichiamo!...
Una delle sorelle,
nell'espansione disperata delle lagrime, aveva detto che la mamma non s'era più
riavuta dallo spavento quando il canonico aveva scoperto la vendita segreta del
sommacco e l'affare del vaglia mandato a Cesare di nascosto. Sembrava che zio e
nipote avessero sempre dinanzi agli occhi quelle parole, e non potessero
guardarsi senza ricordarsene.
A poco a poco nella famigliuola
andavasi facendo la calma del dolore, si riprendevano tristamente le abitudini
della vita, l'intimità era meno silenziosa ma meno stretta. Il prete tornava
alla sua chiesa e ai suoi poderi. Cesare aveva dovuto fare una o due gite alla
città per affari, quantunque fosse l'epoca feriale.
Le ragazze ricominciavano ad
occuparsi di faccende domestiche. La vita li ripigliava, li distraeva, li
separava, ognuno per la sua strada. Dopo pranzo la Barberina, la quale prima
col ricordo soltanto del suo nome, faceva gonfiare gli occhi di lagrime,
chiamava alcuni istanti di allegria schietta, di vera festa domestica, colla
sua innocente serenità, colle sue monellerie da bambina viziata. Nelle carezze
le fronti si spianavano, delle risate gioconde tornavano a risuonare nella
vasta stanza piena di tante memorie tristi.
Elena godeva anch'essa di quei
piaceri intimi, della gioia tranquilla, di quell'esistenza raccolta. Colla
volubilità estrema della sua natura le pareva che fossero passati dei secoli
dal tempo delle feste mondane. Provava una soddisfazione raffinata, un
contrasto piccante, nell'evocare i sogni romanzeschi come cose lontane, nella
fantastica contemplazione della natura, nell'azzurro del cielo, nel violetto
delle montagne lontane, nella pace dell'ora silenziosa, nel cinguettio volgare
delle dame colle mani rosse che andavano a trovarla.
Il barone si era fatto sposo con
una delle più ricche damigelle di Avellino, e venne a far visita anche lui -
sorpresi entrambi di trovarsi tanto mutati. Elena sapeva ormai per esperienza
che anche nelle sale sdegnose della grande città l'eco di una sostanza
colossale ha sempre una grande importanza. Egli aveva viaggiato e aveva
lasciato qua e là un po' della sua pinguedine e molto del suo denaro. In cambio
aveva riportato dei vestiti di un sarto in voga, le maniere distinte, il
frasario convenzionale dei saloni, la disinvoltura e l'impertinenza della sua
ricchezza. Elena ne fu piacevolmente impressionata, quasi lusingata, come ciò
fosse opera sua, pel lievito che aveva lasciato la sua memoria in quel mezzo
contadino. E per quanto fosse padrona di sé, per quanto volesse persuadersi
sinceramente di non aver più un pensiero che non fosse per suo marito, era
troppo donna per non lasciarglielo indovinare. Don Peppino dal canto suo era
abbastanza incivilito per non accorgersene, per non fondarci sopra mille
castelli in aria, aiutandoli colle chiacchiere sentite in caffè, dinanzi al
banco del farmacista, nello studio del notaio. Egli aveva raccolto, come gli
altri del paesello, i pettegolezzi che correvano sulla riputazione dell'Elena.
Alla sua primitiva ammirazione ingenua per la cittadina, gonfiata nella
disoccupazione del paesello, si mescolava adesso un sapore più acuto,
l'immagine della sua nuca bianca, dei suoi occhioni grigi, le carezze della sua
voce, il ricordo delle sue civetterie innocenti, il desiderio delle sue labbra
rosse. Il poco che ella gli aveva accordato s'ingigantiva e si inaspriva ora al
sorgere di tutte quelle memorie, gli pareva che ella fosse stata qualcosa per
lui, gli avesse lasciato come una promessa. Ma tornando a farle visita, ogni
volta, si trovava di nuovo impacciato e timido; sentiva ingigantire il suo
desiderio all'ostacolo che incontrava in se stesso; continuava ad esprimerle la
sua ammirazione bramosa con una riserbatezza esitante che aveva l'attrattiva
del pudore. La donna ricominciava a sentire un piacere mascolino
nell'indovinare tutte coteste impressioni, nel solleticare coteste simpatie,
nel provocare la confessione di questi sentimenti, come un seduttore raffinato
gode nell'assaporare il turbamento che mette nell'anima d'una giovinetta, per
l'attrattiva della novità, per la freschezza della sensazione, pel gusto di
destare l'incendio senza lasciarsi scottare, di sfiorare il male senza
cascarci. No! stavolta non voleva cascarci! Egli le portava dei fiori, passava
delle ore ad adorarla in silenzio. Aveva finito per mandare a monte il suo
matrimonio. Tutta Altavilla avrebbe potuto credere che era l'amante di Elena.
Ma ella non gli aveva dato la punta di un dito. - No, neppure la punta di un
dito.
- Perché avete rotto il
matrimonio? Sapete, non mi piace! No: siamo amici, sentite, ma niente dippiù!
No!
Don Peppino arrivava a piangere
di desiderio, di gelosia, di disperazione, baciandole le mani fredde.
- No! No! giammai! Io son
maritata.
Poi le crudeltà della civetteria:
- Cosa facevate ieri sera in casa Brancato? Non voglio che vi sdolciniate con
quella sguaiata della Golano! - Nessuno dei miei amici deve andare in casa
Azzari. Buona notte ora, che è tardi.
E tutto il paese, inquieto,
geloso, spiava per turno le finestre, si attardava nelle piazze, dai vicini,
trascurava gli affari proprii per veder chiaro nella cosa, mandava in visita le
donne, corteggiava don Peppino, sperando che cascasse in alcuno dei
trabocchetti che gli si tendevano con discorsi insidiosi, che mettevano da
lontano al punto controverso, interrogava ansioso il volto impenetrabile dello
zio canonico, il lume della sua finestra che vegliava su quella di Elena
nell'oscurità. Almeno quello era un uomo, aveva la bocca per non parlare, ma
aveva pure degli occhi per vedere; non somigliava a quel marito che se n'era
andato a dar sesto ai suoi affari di Napoli, senza accorgersi del malanno che
gli cascava sul capo ad Altavilla. I più indulgenti dicevano che marito e
moglie erano separati di fatto, da un pezzo, e serbavano le apparenze esteriori
per riguardi umani. Elena aveva procurato a Dorello una clientela ricca e
numerosa. Egli l'aveva sposata per questo, e faceva affari d'oro a Napoli,
senza curarsi d'altro. Si citavano nomi senza fine, date, aneddoti precisi e
accertati. Nella spezieria e al casino non parlavasi d'altro. I curiosi si
affacciavano sugli usci allorché le sorelle di Cesare andavano a messa; le
signore allungavano il giro e passavano dalla piazza per vedere se c'era
l'Elena affacciata, e scambiare un saluto dalla finestra, e se potevano anche
quattro chiacchiere. L'impiegato postale esaminava attentamente ogni lettera
che partiva per Napoli all'indirizzo di Cesare Dorello, voltandola e
rivoltandola dieci volte per ogni verso, prima di decidersi con un sospirone a
metterla colle altre nel sacco della spedizione.
Se incontravano per via don
Luigi, con suo fratello il canonico, andavano loro dietro, raccolti, intenti,
per cercare di carpire qualche parola dei loro discorsi, e sentire se
trattavasi del nipote o di sua moglie.
Il loro buon istinto non li
ingannava del tutto. Lo zio don Luigi andava a cercare ogni volta suo fratello
il canonico per dirgli:
- È una porcheria! Non posso più
escire di casa dalla vergogna. Tutto il paese non parla d'altro. La roba dei
Dorello andrà in mano di una che ci disonora tutti!
- No; rispondeva il fratello colla
sua calma inalterabile. Lascia fare a me. Vedrò io.
E parlava d'altro, evitando il
discorso ogni volta che il fratello don Luigi ce lo tirava pian piano,
fermandosi a chiacchierare colla gente che incontrava quasi non ci avesse altro
in capo, più gentile ed ossequioso che non era mai stato verso il barone.
Ma le ragazze, le quali lo
conoscevano meglio, sentivano, malgrado il loro triste raccoglimento, qualcosa
di straordinario che pesava sulla casa, ormai vasta e deserta, come un
pericolo, una minaccia, che maturava e si accostava lentamente; ed entravano
timide nelle stanze della cognata, quelle stanze dove c'erano ancora tante
memorie della loro povera morta, senza osare di fissarvi gli occhi, senza osare
di fermarvisi, in presenza della foresteria, nel mutamento che indovinavano
senza comprendere.
Una sera don Anselmo, passando
dinanzi all'uscio di Elena, picchiò discretamente.
Don Peppino era seduto presso la
finestra, e si alzò al comparire del canonico, quasi ei fosse stato un vescovo
per lo meno, tutto ossequioso e imbarazzato. Stette ancora un poco,
chiacchierando a casaccio col prete impenetrabile e coll'Elena perfettamente
calma. Poi si congedò, come fosse sulle spine, e se ne andò un'ora prima del
solito.
All'Elena, che glielo faceva
osservare con perfetta disinvoltura, in presenza dello zio, appena don Peppino
se ne fu andato, il canonico disse sorridendo:
- Son le dieci. Voi credete
sempre d'essere a Napoli. Le dieci qui sono un'ora straordinaria.
Stette un momento in silenzio.
Poscia le prese la mano, e soggiunse colla sua voce insinuante da confessore:
- Anzi, ascoltatemi, nipote mia.
Certe visite, a certe ore, qui da noi danno nell'occhio. Siamo in un piccolo
paese, pieno di pregiudizii, di pettegolezzi, sapete... Vi parlo come un
parente, come un padre, come un confessore. Non ve l'avrete a male.
- No! - disse Elena.
- Lo so, meschinerie, pura
maldicenza. Che volete farci? Non chiuderete la bocca ai calunniatori. Don
Peppino è giovane, ricco, scapolo... si dice anzi che abbia voluto rimanere
scapolo... Il meglio è tagliare corto alle chiacchiere maligne, senza scandali,
con bella maniera...
- Va bene, - interruppe Elena. -
Ho inteso.
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