STORIA DI UNA CAPINERA
Avevo visto una capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia
ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiava in un angolo della sua gabbia,
e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul
verde del prato o nell'azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che
avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava
tentare il rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera
prigioniera. Eppure i suoi custodi, le volevano bene, cari bambini che si
trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane
e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella;
non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché
tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non
poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l'ala e l'indomani fu
trovata stecchita nella sua prigione.
Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta
perché in quel corpicino c'era qualche cosa che non si nutriva soltanto di
miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.
Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero
uccelletto, mi narrò la storia di un'infelice di cui le mura del chiostro
avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l'amore avevano torturato
lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i
giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato
senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera,
che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera
capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua prigione, che
non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la
testolina sotto l'ala ed era morta.
Ecco perché l'ho intitolata: Storia di una capinera.
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