UNA PECCATRICE
Introduzione.
Dirò come mi sia pervenuta questa
storia, che convenienze particolari mi obbligano a velare sotto la forma del
romanzo.
Verso la metà di novembre avevamo
progettato una partita di campagna con Consoli e Pietro Abate.
Il 14, con una bella giornata,
noi eravamo sulla strada di Aci.
Verso Cannizzaro un elegante
calesse signorile oltrepassò la nostra modesta carrozza da nolo. Giammai si è
tanto umiliati dal contrasto come in simili casi. Consoli, ch'era forse il più
matto della compagnia, gridò al cocchiere:
«Dieci lire se passi quel
calesse!».
Il cocchiere frustò a sangue le
rozze, che cominciarono a correre disperatamente, facendoci sbalzare in modo da
esser sicuri di ribaltare; e siccome le povere bestie non correvano come egli
voleva, Consoli salì in piedi sul sedile dinanzi per togliere le redini e la
frusta dalle mani del cocchiere.
Allora cominciò un alterco fra
quegli che non voleva cederle e Consoli che le voleva ad ogni costo, mentre il
legno correva alla meglio.
Tutt'a un tratto i cavalli si
arrestarono; Abate ed io, sorpresi di vederci fermati sì bruscamente,
domandammo che c'era.
«Un morto»: fu la risposta
laconica del cocchiere.
Un convoglio funebre attraversava
lentamente lo stradone; esso era semplicissimo: un prete, un sagrestano che
portava la croce, un ragazzo che recava l'acqua benedetta, e tre o quattro
pescatori; il feretro, coperto di raso bianco e velato di nero, era portato da
quattro domestici abbrunati, e una carrozza signorile, in gran lutto, lo
seguiva.
Quando la carrozza fu a paro
della nostra, una testa scoperta si affacciò allo sportello sollevando la
tendina di seta nera, e noi riconoscemmo uno dei nostri amici d'Università,
Raimondo Angiolini, laureato in medicina da quasi due anni.
Domandammo chi era morto ad un
domestico in lutto che seguiva, anch'egli a piedi, il convoglio, e ci fu
risposto: «La contessa di Prato».
«Ella!», esclamammo tutti ad una
voce, come se fosse stato impossibile che la morte avesse potuto colpire quella
fata, che aveva fatto il fascino di tutti.
Non sapevamo spiegarci per quali
circostanze la contessa fosse morta in quel luogo e Angiolini ne accompagnasse
il feretro; per un movimento istintivo ed unanime scendemmo da carrozza, e, a
capo scoperto, seguimmo il mortorio sino alla chiesetta.
Raimondo Angiolini entrando in
chiesa venne a stringerci la mano; i nostri occhi soltanto l'interrogavano,
poiché egli rispose tristemente le stesse parole che ci erano state dette:
«La contessa di Prato».
«Ella!», fu ripetuto di nuovo.
Raimondo abbassò il capo
tristemente.
«Morta... la contessa!... morta
qui!», esclamò Abate.
«Sì, ieri l'altro, alle due del
mattino... una morte orribile.»
Rimanemmo un pezzo in silenzio:
giammai questo spaventoso mistero del nulla avea colpito siffattamente le
noncuranti immaginazioni dei nostri 23 anni.
«Sembra un sogno!», mormorò
Consoli, «saranno appena due mesi ch'io la vidi al teatro.»
«La sua malattia fu brevissima»;
rispose Raimondo, «è morta per Pietro Brusio.»
«Per Brusio! ella!... la
contessa!...»
Anche Brusio era uno dei nostri
compagni d'Università, buon giovanotto, alquanto discolo; ma, per quanto ci
torturassimo il cervello, non arrivammo a comprendere come la Prato, questa
Margherita dell'aristocrazia, fosse giunta ad amarlo, e, quel ch'è più, a
morire d'amore per lui. Siccome i nostri volti al certo esprimevano tal dubbio,
Angiolini riprese:
«Nessuno, fuori di me e
dell'amico mio Brusio, e forse egli meno di me, potrà mai arrivare a conoscere
per qual concorso straordinario di circostanze questi due esseri» (Angiolini nella
sua qualità di medico diceva esseri) «si sono incontrati ed hanno finito per
assorbire l'uno la vitalità dell'altro. Sono di quei misteri, che sembrano
troppo reconditi ma troppo ben tracciati nel loro sviluppo per essere casuali,
e che fanno supporre quello che il coltello anatomico non ci ha potuto far
trovare nelle fibre del cuore umano».
«Vogliamo saperlo allora!», saltò
su a dire Consoli, «siamo tutti amici di Brusio.»
Angiolini, malgrado il suo
scetticismo di medico, volse uno sguardo alla bara, posta fra quattro ceri, nel
mezzo della chiesa, mentre il prete celebrava la messa.
«Comprendete benissimo, amici
miei, che questo non è il luogo, né l'ora.»
Ricondotti a quella triste
meditazione tutti fissammo a lungo e in silenzio quella cassa coperta di raso e
velata di nero, su cui il più allegro sole d'inverno, che scintillava sui vetri
della modesta chiesuola, mandava a posare uno dei suoi raggi.
Io non so come ciò avvenga, ma
nessuno di noi tre, in quel punto, quando quel bel sole invernale animava
quelle spiagge ridenti, con quel mare immenso che si vedeva luccicare
attraverso la porta, fra tutto quel sorriso di cielo e la vita che sentivamo
rigogliosa, fidente, espansiva, con il canto allegro dei pescatori che
lavoravano sul lido e il cinguettare dei passeri sul tetto della chiesa, a cui
faceva un triste contrapposto il silenzio funereo di quel recinto, interrotto
solo dal mormorare del prete che officiava, e la luce velata della chiesetta
colle pallide fiammelle di quelle torce, nessuno di noi tre, dicevo, poteva
credere intieramente che quelle quattro tavole racchiudessero quel corpo,
meraviglia di grazia e di eleganza, che, pochi giorni innanzi, quando si vedeva
passare al trotto del suo brillante equipaggio, faceva voltare tante teste.
Lo ripeto: giammai la morte ci
era sembrata più imponente e più possibile nello stesso tempo prima d'allora.
Quando uscimmo di chiesa dissi a
Raimondo:
«Hai bisogno di noi?».
«No, grazie.»
«E Brusio?», domandò Abate.
«È là»; rispose Angiolini
additandoci una graziosa casina.
A quelle sole parole scorgemmo
tutto l'abisso che dovea separare Brusio dalla società, in quel momento in cui
lo immaginammo solo e annientato in quelle camere ancora profumate da lei,
ancora stillanti di quell'amore che inebriandoli aveva ucciso il più fragile
dei due esseri; ora solo, perduto nell'immensità di quel dolore profondo che
sbalordisce come il fulmine.
Sentimmo che nulla potevamo fare
per lui in quel momento.
«Addio!», dissi ad Angiolini
stendendogli la mano.
«Ci vedremo?», aggiunse Abate.
«Chi sa?... fra un mese o due
forse...»
«E ci narrerai questa storia?»,
disse Consoli.
«Tu la scriverai?», rispose
Raimondo rivolto a me.
«Forse.»
«In tal caso bisogna che Pietro
me ne dia prima il permesso. Addio.»
Tre mesi dopo rividi Angiolini al
Caffè di Sicilia. Gli domandai di Brusio: era ritornato a Siracusa, sua patria;
gli rammentai la promessa, ed egli mi narrò le parti principali di quella
storia di cui noi avevamo assistito alla triste catastrofe; però pei dettagli
mi promise di comunicarmeli minuziosi e precisi, dopo che avrebbe consultato
certe lettere che aveva ricevuto da Brusio e dalla contessa.
Un mese più tardi ricevei dalla
Posta un grosso plico col bollo di Napoli; vi erano i dettagli e le lettere che
mi aveva promesso Angiolini, due o tre fotografie rappresentanti diverse
località di una casa abitata in Napoli da Pietro Brusio, e finalmente la
preghiera, che Raimondo mi faceva, se mai mi decidessi un giorno a pubblicare
questa storia dell'amore onnipotente, di salvare rigorosamente le apparenze, in
modo che neanche gli amici di Brusio potessero penetrarne il segreto.
Dal canto mio non ho fatto che
coordinare i fatti, cambiando i nomi qualche volta, ed anche contentandomi di
accennare le iniziali, quando, anche conosciuto il nome, le circostanze per le
quali è ricordato non sono compromettenti; rapportandomi spesso alla nuda
narrazione di Angiolini e alle lettere che questi mi rimise; aggiungendovi del
mio soltanto la tinta uniforme, che può chiamarsi la vernice del romanzo.
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