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Quando entrarono nell'Albergo di
Francia, dove li aspettava la signora Brusio, questa corse ad abbracciare suo
figlio con tutta l'effusione di un cuore di madre; ma rimase senza osarlo,
colle braccia aperte, dinanzi allo sguardo fosco e alla fisonomia cupa ed
irritata del figlio suo.
«Credevo», disse questi aspramente,
«di non essere più all'età di uno scolaretto che si manda a cercare se ha fatto
tardi nel ritornare da scuola...»
La madre fu dolorosamente colpita
da quelle parole, le sole che avesse udite in tal modo da quel figlio che
l'idolatrava. L'istinto materno fu atterrito dallo stato di quel giovanetto che
in un'ora avea potuto dimenticare siffattamente il culto che nutriva della
madre, e risponderle in tal guisa.
«Andiamo, figlio mio, le tue
sorelle ci aspettano...», diss'ella tristamente, ma evitando di inasprirlo;
«grazie, signor Angiolini!...»
S'incamminarono verso casa; e la
madre osservò sospirando che il figliuolo non le offriva il braccio, e
camminava cupo, ed anche indispettito al suo fianco.
Sulla scala corsero ad
incontrarli le due sorelline ancora pallide e singhiozzanti, che gridavano:
«Mamma! mamma!... L'hai
trovato?... È qui il nostro Pietro?!...».
Le loro festanti esclamazioni
furono interrotte dalla voce dura del fratello.
«Per l'avvenire», esclamò questi,
cercando di dare la possibile moderazione alla sua voce tremante d'irritazione,
«spero che le mie tardanze non daranno più luogo a simili scene da teatro...
che mi costringerebbero a cercare altrove la pace e la libertà di cui ho
bisogno... che son deciso ad avere... Datemi la doppia chiave della porta, onde
non dia più occasione ad attendermi domani, e facciamola finita!...»
E senza neanche prendere il lume,
si chiuse nella sua camera, sbattendone l'uscio con impeto.
«Povero figlio mio!», singhiozzò
la desolata madre, abbracciando piangente le sue figlie: «ecco le prime lagrime
che mi fai versare!».
Pietro passeggiò per la camera
alcuni minuti, agitato e smanioso; poscia si fece al verone.
La calma serena di quella notte
d'estate, il fresco venticciuolo che gli asciugava il sudore sulla fronte lo
calmarono alquanto; egli pensò alle lagrime di sua madre ed odiò se stesso come
giammai aveva odiato.
«Son vile!... sì, son vile!...»,
esclamò strappandosi i capelli. «Oh! la testa... Dio mio!...»
Aprì l'uscio della sua camera
senza far rumore, e camminando leggero leggero andò ad origliare dietro la
bussola della camera di sua madre, onde vedere se dormiva.
La signora Brusio era ancora in
piedi quando suo figlio aveva aperto l'uscio, ascoltando ansiosamente il più lieve
rumore ch'egli facesse, e che potesse farle indovinare lo stato del cuore di
lui; appena udì che si avvicinava capì, con l'istinto materno, che suo figlio
pentito veniva a vedere se ella dormisse; e l'istinto materno le suggerì anche
che l'unico perdono che egli poteva desiderare nel suo pentimento era che sua
madre riposasse. Ella si gettò sul letto, e finse di dormire.
Pietro ascoltò, dietro il
paravento, il respiro alquanto accentuato di sua madre; credette che dormisse
davvero, e non poté frenare le lagrime che gli scorrevano ardenti sulle guance:
lagrime di pentimento, di rabbia contro se stesso, di terrore dell'avvenire
(che allora soltanto intravedeva) per ciò che provava.
«Povera madre!», esclamò
singhiozzando; «povera madre mia!».
E la madre udì quei singhiozzi, e
soffocò i suoi fra i guanciali.
Pietro si ritirò in punta di
piedi, com'era venuto; e si rimise al verone.
Colla fronte fra le mani, ed i
gomiti appoggiati alla ringhiera, egli si assopì in quel vortice luminoso e
turbolento che il cuore e l'imaginazione gli creavano, e dove vedeva un'ombra,
dove una figura, ora vestita di bianco, ora quale l'avea veduta poche ore
innanzi... carezzantesi la fronte ed i capelli con le mani di quell'uomo...
Quando, abbarbagliato da una luce vivissima, egli alzò gli occhi, si avvide con
sorpresa che il primo raggio di sole facea scintillare i vetri.
«Diggià!», mormorò egli: «il
giorno vien presto al presente!...».
Sua madre, entrando la mattina
nella camera di lui, osservò con dolore che il letto era intatto, come era
stato acconciato la sera innanzi.
«Madre mia!», le disse il giovane
prendendole una mano, in tuono di pentimento del passato ma risoluto ad
ottenere quello che domandava, «ti chiedo perdono di quello che ho detto e
fatto ieri... Ma ti prego di lasciarmi per l'avvenire alquanto più di libertà,
che l'età mia ora richiede...».
«Fa come vuoi, figlio mio...»,
rispose la madre abbracciandolo. «Io non temo che tu ne possa abusare, poiché
sei figlio di un uomo onesto e manterrai onorato il nome che ti diede. In
quanto a me...», e la povera donna sospirava tentando di sorridere, «in quanto
a me cercherò di vincere le mie sciocche paure...»
«Grazie, grazie, buona
madre!...», esclamò Pietro facendo uno sforzo per non bagnare di lagrime quella
mano che baciava.
Però ogni sera quella madre, che
numerava coi battiti del suo cuore i minuti che suo figlio tardava a venire,
aspettava, sino alle due, e spesso sino alle tre, che il noto passo le
annunziasse da lungi, nel silenzio della strada, ch'era lui che veniva; e
piangeva sovente, quando, invece di mettersi a letto, lo udiva passeggiare per
la camera, o farsi al verone; e l'indomani, dopo avere interrogato sospirando
il letto, spesso colle lenzuola ancora rimboccate, cercava negli occhi smarriti
del figlio e nei suoi lineamenti pallidi e sbattuti la risposta ai vaghi timori
che l'agitavano. Pietro, che ogni mattina pel passato soleva informarsi della
salute di sua madre, non s'accorgeva nemmeno del pallore di lei e della sua
cera malaticcia.
Raimondo non lo vedeva quasi più.
Brusio passava i giorni al Laberinto, la sera seguendo la donna che gli aveva
ispirato questa folle passione o cercando d'incontrarla al passeggio, (dove lo
sguardo di lei qualche volta lo fissava con quel raggio pacato e snervante
della sua pupilla cerulea, ciò che faceva delirare il povero giovane, e gli
faceva seguire, coll'occhio ardente e le membra convulse, quella veste
fluttuante che armonizzavasi sì mirabilmente ai movimenti pieni di seduzione
del corpo da fata) o al teatro dove la vedeva splendere di tutto il prestigio
del suo lusso, profumata da quel vapore inebbriante che recano la bellezza, la
giovinezza, la ricchezza; facendo scintillare la luce del suo sguardo insieme
al riflesso dei suoi diamanti; armonizzando la bianchezza vellutata e purissima
della sua pelle alla bianchezza pallida delle perle che le cingevano il collo
bellissimo; spesso allegra e ridente cogli uomini più eleganti e più alla moda,
appartenenti alla migliore società, che si contendevano un posto nel suo
palchetto; spesso a metà nascosta nell'angolo più oscuro della loggia, colla
testolina ricciuta e coronata di fiori e di gemme rovesciata all'indietro sulla
parete, con quell'attitudine abbandonata cui ella sapeva dare tutto quanto vi
ha d'attraente nella mollezza, d'irresistibile nel languore; e vi stava ad
occhi chiusi, come dormendo ed assorbendo con maggior squisitezza di voluttà le
armonie della musica che avevano il potere di commuoverla dippiù.
Egli passava la notte sotto i
veroni di lei, coll'occhio fisso su quel lume che rischiarava la sua stanza;
aspirando, con terribile voluttà di passione (ch'era tanto potente da sembrare
angoscia qualche volta) di gelosia, ed anche di dolore, tutti i rumori più
insensibili del suo passo, del fruscio della sua veste, tutte le emanazioni
della donna amata, i minimi suoni del suo pianoforte e della sua voce, che
spesso parlava al conte di quelle parole, cui rispondeva, come un'eco, un
singhiozzo dalla strada.
Egli sapeva l'ora del suo
levarsi, della sua toletta, del suo pranzo, della sua passeggiata; conosceva il
modo d'ondeggiare delle tende quando ella vi stava dietro, il rumore delle
carrucole della poltroncina che la sua mano indolente tirava a sé.
Era un martirio spaventevole che
s'imponeva senza saperlo; che l'attraeva però col fascino del precipizio; che
alimentava il parossismo febbrile, il quale divorava le sue forze e la sua
vita, colle sue triste gioie, coi suoi acri godimenti, coi suoi sogni
febbricitanti.
Alcune volte, ritirandosi ella
dopo la mezzanotte, a piedi, accompagnata [dal conte e] da due o tre giovanotti
eleganti che la corteggiavano, si era rivolta verso quell'uomo, seduto sul
marciapiede, che si sarebbe scambiato con un mucchio di cenci; ed il conte avea
rallentato il passo per meglio osservarlo. Quando ella si ritirava in carrozza,
Pietro osservava, qualche volta, al riverbero dei lampioni della carrozza, che
ella, mentre scendeva dal montatoio, si volgeva con curiosità verso l'angolo
ove sapeva di dover trovare quello strano personaggio che la prima volta avea
supposto un mendico; e che il conte si fermava innanzi al portone qualche
minuto per guardarlo.
Una notte, negli ultimi di
settembre, verso le due del mattino, Pietro aspettava da un pezzo la contessa
che era andata alla serata del prefetto. Il rumore di una carrozza, che si
avvicinava al gran trotto, si fece udire da molto lontano per le strade
deserte, e poco dopo il legno passò dinanzi al nostro protagonista fermo al suo
solito posto. Narcisa ne scese più lentamente del solito, e scomparve quasi
subito insieme al conte.
La carrozza ripartì.
Pietro udì il passo leggero di
lei che saliva le scale, accompagnato dal passo più pesante dell'uomo che la
seguiva; udì la porta che si apriva a riceverli e si rinchiuse poco dopo; vide
che nel salotto ove abitualmente dimorava la contessa, venivano accresciuti i
lumi.
Poco dopo la dolce voce di
Narcisa, col suo accento molle ed armonioso d'indefinibile espressione, fece
battere fortemente il cuore del povero giovane.
«Mio Dio!... che buio!... Ma dormono
tutti in questa casa stassera!...»
Indi alcuni suoni, tratti così a
caso dal pianoforte, quasi le dita cercassero le note di una fantastica
melodia, che si stancarono presto a riprodurre e che diede luogo al terzetto
finale d'Ernani, anch'esso poco dopo interrotto, colla stessa capricciosa
volubilità, per un valtzer allora in gran voga: Il Bacio, di Arditi.
Però sembrava che un'attitudine
estraordinaria facesse, in chi suonava, supplire a tutte le lievi imperfezioni
di esecuzione, che venivano dalle difficoltà che incontrava, con una
espressione molto rara, che traeva degli impeti e dei fremiti di delirio
festevole dalle note del valtzer e faceva piangere con quelle del melodramma.
Giammai a Pietro parve di avere
udito armonia come quella che le mani della donna adorata creavano sui tasti
d'avorio, nel silenzio profondo di quella notte, profumata dal vicino Laberinto
e rischiarata dalla luna.
Tutt'a un tratto anche il valtzer
fu interrotto, ed il giovane udì i passi di lei che si avvicinava al verone, e
vide la sua ombra che intercettava il lume che ne rischiarava il vano.
Ella si appoggiò all'inferriata
del verone, colla testa fra le mani, perdendo il suo sguardo nell'orizzonte. La
luna, allora nel suo più alto emisfero, la circondava quasi in un trasparente
vapore.
Un'altra ombra si avanzò e le si
mise al fianco.
«Perdio!», disse una voce secca
ed orgogliosa, con accento toscano, che Pietro riconobbe per quella del conte,
«non mi leverò mai d'addosso quest'accidente!»
Brusio sentì che quelle parole erano
al suo indirizzo, e il sangue gli montò al viso.
«Che dite?», rispose la fresca
voce della contessa, sebbene parlasse pianissimo.
«Parlo di quell'importuno che sta
a farci la spia da mane a sera; che non ci lascia un'ora di pace... e che
credo, in fede mia, sia pazzo di voi...»
La contessa alzò le spalle con un
moto sprezzante d'indifferenza; indi mormorò sbadatamente, colla sua voce più
bella e più calma, e colla più completa noncuranza, lasciando il verone:
«E che ci ho da fare io se
quest'uomo e pazzo?...».
Pietro si alzò, lento, come se le
gambe gli si piegassero sotto, sentendo agghiacciarglisi il sudore sulla
fronte, coi denti sbattenti di convulsione.
Di giorno il conte sarebbe
rimasto atterrito dal pallore e dall'alterazione dei lineamenti di lui, e dal
sinistro splendore dei suoi occhi ardenti.
Egli rimase un momento immobile,
annichilato, come se quella bellissima voce di donna avesse di un sol colpo
reciso i muscoli più vitali del suo cuore. Il solo rumore che si udiva era
quello dei suoi denti che battevano gli uni contro gli altri.
«Questa donna ha ragione!»,
mormorò egli quindi colla voce rauca, stentando a proferire le parole: «io son
pazzo!... son pazzo!... Sono stato vile anche!...».
E partì lentamente, quasi
strascinandosi. Non avea fatto dieci passi che udì le note allegre e
cristalline del valtzer che risuonavano di nuovo.
Si fermò in mezzo alla strada, a
guardare un'ultima volta, con un'ineffabile espressione di disperata amarezza,
quel lume che splendeva chiarissimo in quella stanza riboccante d'armonia; si
levò il cappello, con un moto istintivo, lento, quasi solenne, esclamando,
cogli occhi umidi di lagrime infuocate:
«Addio, signora!... Addio!».
Camminò tentoni, barcollando com
un ubbriaco, fino a quando stramazzò, privo di forze, singhiozzante, su di un
sedile di marmo sotto gli alberi del Rinazzo.
«Oh! questo valtzer! questo
valtzer!», gridò egli smaniante, come se quelle note gli percuotessero sul
cervello, «Dio!... mi pare di diventar matto davvero... Ah!... ma non ha dunque
nemmeno un pensiero per l'uomo ch'è pazzo per lei, questa donna?!!...»
E partì correndo, come un
delirante, fuggendo quei suoni, che sembravano inseguirlo nel silenzio della
contrada.
Si aggirò quasi tutta la notte
per le vie più solitarie e deserte della città; spesso correndo e singhiozzando
disperatamente, spesso lasciandosi cadere a terra, sul canto di una via, quando
l'eccitazione febbrile che l'agitava gli toglieva le forze che gli aveva dato
nel suo parossismo. Non tenteremo di dare un'idea di quelle lagrime roventi che
lasciavano solchi sul suo volto livido ed impastato di polvere e di sudore. La
tempesta violenta che mugghiava in quel petto gli faceva emettere voci tronche,
gemiti che si articolavano come parole, ma in mezzo ai quali risuonava sempre un
grido, or come un singhiozzo, or come un'invocazione disperata: «Narcisa!...
Narcisa!...». E quando le sue arterie battevano in modo da rompersi, egli si
afferrava la testa fra le mani, e tornava a correre come un pazzo, fin quando
la stanchezza fisica lo istupidiva alla lotta terribile delle sue passioni.
Cominciava ad albeggiare;
quell'incerto crepuscolo gli ferì gli occhi come un riverbero infuocato; quella
vita che si risvegliava nella grande città con tutti i suoi rumori, quella luce
che crescendo gli sembrava rischiarasse tutta l'immensità della sua
disperazione, gli parvero odiose... a lui che cercava il nulla, che non avea
pensato al suicidio perché odiava troppo ancora per essere stanco della vita.
Aprì la porta di strada di casa
sua colla doppia chiave che recava sempre addosso; si chiuse nella sua camera,
così al buio; e si buttò sul letto, vestito com'era, lasciando cadere soltanto
in un angolo il suo cappello: era annichilato.
La stanchezza fisica e la morale
l'avevano vinta fors'anche sulla sua disperazione; o almeno, in quel punto,
gliela avevano resa meno sensibile. Egli si addormentò poco dopo di un sonno
agitato, febbrile ed interrotto.
Sua madre, che all'alba avea
lasciato il letto, dopo una notte passata fra le lagrime, e stava nel salotto che
precedeva la camera di lui, onde vedere se almeno fosse rientrato, udì a lungo
gemiti, singhiozzi, rantoli soffocati, che si mischiavano alla respirazione
affannosa e stentata del dormente, e che conturbavano e straziavano il suo
cuore. Questa donna, coll'orecchio fissato sulla toppa dell'uscio, stette quasi
un giorno intiero ascoltando con angosciosa ansietà tutti i minimi rumori di
lui e cercando d'indovinarli. Finalmente, verso le sette di sera, l'udì levarsi
e passeggiare per la camera. Ella ebbe timore, sì, la madre che comprendeva
come qualche cosa di terribile passasse nell'animo del figlio, e lo
allontanasse dalle sue consolazioni e fin dalle sue lagrime, la madre ebbe
timore che questo figlio adorato, buono un tempo ed affettuoso, che ella non riconosceva
più ora allo sguardo fosco e al carattere aspro e violento, non commettesse
qualche scena brutale se si fosse accorto di essere stato spiato.
Pietro passeggiò un pezzo per la camera,
strascinandosi o camminando a salti, a seconda delle istantanee trasformazioni
che subiva il corso delle sue idee; odiando quel filo di luce che trapelava
dalle commessure delle imposte e che gli provava che la luce illuminava ancora;
odiando i rumori della strada che gli annunziavano che tutto non era morto o
almeno in lutto come il suo cuore; odiando fin anche il pensiero di esser
vicino alla sua famiglia, quella famiglia che avea formato il suo culto e per
la quale avrebbe dato altra volta tutto il suo sangue. Poi sedette presso il
tavolino, colla testa fra le mani; e vi stette a lungo; coll'occhio arido,
lucido, di una straordinaria fissità.
Una febbre ardente faceva vibrare
con forza le sue pulsazioni; allorché sentì battere sì violentemente le sue
arterie ch'egli ne udiva quasi il sordo rumore con colpi spessi percossi sul
cervello; allorché sentì sulle palme quel fuoco che ardeva la sua fronte;
allorché, più che mai, intravide dei lucidi bagliori attraversargli la pupilla
con un solco luminoso, che nell'animo tracciava una striscia infuocata fra la
tempesta delle sue passioni, dubitò un momento che fosse pazzo davvero. Egli
ebbe paura di quest'idea... paura di non esser più padrone di sé, della sua
vita, nel momento che sentiva averne maggior bisogno, per inebbriarsi di tutta
la terribile voluttà di quel dolore che l'attaccava alla vita istessa; ebbe
paura di abbandonare questa, come in trastullo, agli uomini: egli si fece
alcune domande che erano strazianti nella loro calma forzata; si propose ragionamenti
posati che tradivano ancora la convulsione dello sforzo che erano costati,
dominando l'uragano che tempestavagli in cuore con volontà disperata di calma,
per convincersi che non era pazzo... poiché egli avea paura d'esserlo... poiché
egli odiava ferocemente...
Udì suonare nove ore all'orologio
della stanza contingua.
«Vediamo!», mormorò egli
alzandosi, «a quest'ora dev'essere buio... Ho tutta la mia ragione ancora!...
Che vale disperarsi per colei?... quali diritti ne ho io? Siamo uomini, perdio!...
come dice Raimondo... Ma chi dice questo spesso è segno che teme di non esserlo
abbastanza... Non è vero che son pazzo!... Non voglio essere pazzo io!...
Ebbene!... io voglio esser uomo!... sì... ho la testa lucida!... comprendo che
bisogna annegarne la memoria... annegarla fra il vino... le donne...
l'orgia!...»
Aprì le imposte, per vedere s'era
notte davvero: era buio affatto; raccolse il cappello da terra e se lo calcò
sul capo senza nemmeno aggiustarsi i capelli arruffati e appiccicati col sudore
sulla fronte, ed uscì, quasi fuggendo la madre che udiva camminare nell'altra
stanza.
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