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Parecchie settimane dopo, in
Napoli, ad una delle serate che dava il barone di Monterosso, noi ritroviamo
Narcisa, accompagnata dal marito e dal giovanotto ufficiale di cavalleria negli
Usseri, che abbiamo incontrato con lei a Catania. Il sottotenente, che
apparteneva ad una delle più nobili famiglie del Napoletano, l'avea presentata
ad una signora di mezza età, la quale recava con tutta disinvoltura gli
occhiali sul naso, appartenente anch'essa alla più alta società e che col suo
ingegno si è fatto un nome che comincia ad esser celebre anche fuori d'Italia.
Le due donne, l'una circondata e adulata pel potere dei suoi vezzi, l'altra pel
prestigio del suo nome, sedevano l'una presso all'altra su di un canapè,
accerchiate da uno stuolo di cortigiani.
Il barone di Monterosso venne a
complimentare la signora contessa R***, e a dire anche due parole d'occasione a
Narcisa.
«Avrò la fortuna, signora
contessa», disse, parlando alla donna matura, «di presentarle stasera un uomo,
che, ancora giovanissimo, si è aperta diggià la più brillante carriera nella
letteratura drammatica.»
«L'autore di Gilberto forse?»,
domandò la signora.
«Lo conosce?»
«No; ne ho udito semplicemente
parlare; è un dramma che ha incontrato moltissimo, a quel che pare; e di cui i
giornali si sono disputati i meriti con quell'accanimento che dà sempre della
rinomanza all'autore. È napoletano?»
«È siciliano; si chiama Pietro
Brusio.»
«Brusio?... Non ho mai udito
questo nome...»
«Fra otto giorni questo nome sarà
pronunziato come quello di Giacometti e di Gherardi del Testa.»
«È una celebrità in erba,
dunque?»
«Sì, signora contessa: una
celebrità che nasce, ma in mezzo ad una splendida aurora. Il suo dramma è stato
replicato quattro volte a richiesta, e domani fu desiderato per la quinta;
l'impresario glielo ha pagato come non si sogliono pagare quasi mai le
produzioni letterarie in ltalia, e l'ha impegnato a scrivere pei Fiorentini con
un appuntamento che lo farà vivere da signore.»
«Domani andrò ai Fiorentini»,
disse la dama, «stasera mi presenti il suo protetto; lo pregherò di passare da
me le sere in cui ricevo.»
Il barone s'inchinò
allontanandosi per dar retta ad altri invitati.
Narcisa ballò come una silfide e
confessò al suo cavaliere di mai essersi divertita come in quella sera.
Verso mezzanotte il barone si
avvicinò di nuovo al divano ove sedevano Narcisa e la contessa, accompagnato da
un giovane alto e bruno, di cui l'espressione fredda, altiera e quasi severa
era appena temperata dal contegno grazioso che gl'imponeva l'atto che andava a
compiere.
«Mi permetta, signora contessa
R***», disse il barone con il garbo di un uomo di società, «che abbia l'onore
di presentarle il signor Pietro Brusio, il giovane autore di cui le feci
parola.»
Pietro s'inchinò in silenzio,
mentre la dama originale l'esaminava con tutta flemma, attraverso gli occhiali,
dal capo alle piante e gli faceva i complimenti d'uso. Anche Narcisa esaminava il
nuovo arrivato con una curiosità che andò a finire nella maggior sorpresa.
Ella stentò a riconoscere il
giovane incognito che a Catania incontrava ad ogni passo, divorando degli occhi
il suo sguardo, e che passava le notti sul marciapiede dirimpetto alla sua
casa, in quel giovane che le stava dinanzi con la fronte nobile, quantunque
solcata dalle febbrili emozioni della creazione, e dai delirii sublimi del
pensiero; coi lineamenti sbattuti dalle fatiche del lavoro, dalle lotte ardenti
dell'idea, che aveva sentita immensa, colla forma, che spesso non sentiva
abbastanza. Egli avea l'occhio brillante della confidenza che dà la giovinezza
e l'avvenire, quando si affaccia ridente; il suo vestito irreprensibile
sviluppava la forte e maschia eleganza del corpo; si presentava con tutta la
grazia di un abituato alle più aristocratiche riunioni. Ciò che più di ogni
cosa servì a farglielo riconoscere, meglio che l'altiero portamento della
fronte, ch'egli non avea saputo rendere grazioso in quel momento come il sorriso
a cui aveva forzato il suo labbro sdegnoso nel presentarsi alla contessa R***,
fu questo.
La contessa gli parlava con la
famigliarità che dà la parentela del genio, e gli stringeva la mano. Il cerchio
degli ammiratori di lei gli si affollava d'attorno, e lo guardava con occhio
invidioso. Tutt'a un tratto ella lo vide diventar pallido come un cadavere, e
dirizzarsi sulla persona con un movimento macchinale che non seppe
padroneggiare; e ciò fu quando il barone (ch'era rimasto al suo fianco
frapponendosi fra di lui e Narcisa) si allontanò. Pietro aveva veduto la
contessa di Prato, alla quale il sottotenente dirigeva un complimento ch'ella
non ascoltava. Brusio rimase un momento immobile, senza poter parlare, cogli
occhi, che si erano fatti di una sorprendente lucidità, fissi in quelli di lei,
mentre una leggiera convulsione faceva tremare sul suo labbro superiore i baffi
castagni.
La signora R***, che gli parlava
in quel momento, fu sorpresa di non avere risposta, e lo guardò con curiosità.
Pietro staccò quasi con isforzo
gli occhi da quelli di Narcisa, che lo fissavano col loro sguardo limpido e
chiaro, per volgerli all'ufficiale, che anch'esso lo guardava sorpreso,
arricciandosi le basette.
Egli fu freddo, distratto,
impacciato tutto il tempo che rimase a discorrere colla donna celebre. Quando
questa gli parlava dello splendido avvenire che la riuscita della sua
produzione l'autorizzava ad aspettarsi, rispose tristamente:
«Forse, signora contessa, giammai
in tutta la mia vita potrò compiere un lavoro come quello che scrissi in otto
giorni, e al quale il pubblico ha avuto la bontà di fare buon viso».
«È solo modestia che le fa dir
ciò?»
«No, signora; forse è
presentimento.»
«Bisognerebbe, in tal caso, non
ammettere questo dramma come parto del suo ingegno, ma piuttosto...»
«Del cuore?», interruppe il
giovane; «sì, signora!».
«Ella ha ragione: in un momento
di passione si possono operar miracoli che parrebbero impossibili a tentarsi un
minuto dopo. Pel bene del suo avvenire voglio augurarmi che tale non sia il suo
Gilberto.»
«Chi lo sa?»
E lo sguardo del giovane, che
s'inchinava per allontanarsi, incontrò quello di Narcisa fisso su di lui con
un'espressione che dimostrava più della semplice curiosità.
Si ordinavano le coppie per un
valtzer; e l'ufficiale venne a presentare il suo braccio a Narcisa, che vi
abbandonò il suo corpo flessibile, splendida di tutta la sua strana bellezza;
coi capelli, intrecciati di perle, cadenti sulle spalle bianchissime e
vellutate; col bel seno anelante sotto il velo ed il merletto che lo copriva;
col suo sorriso indefinibile sulle labbra, e gli occhi che, senza esser
brillanti, avevano un'onda di voluttà nei loro raggi.
Ella si avanzò lentamente,
mollemente, come immedesimandosi al corpo dell'uomo a cui si accompagnava, con
un inimitabile movimento del suo collo da cigno, quasi le perle e i fiori che
s'intrecciavano ai suoi capelli, e il volume di questi, fossero troppo pesanti
per quella piccola testa; presentendo nello sguardo sorridente e scintillante
tutto quel torrente d'impetuose voluttà che il valtzer, questo ballo degli
innamorati, dovea darle; come appoggiando tutti i delicati tesori del suo corpo
al braccio del suo cavaliere, per trarne quella foga d'esaltazione che la
musica, l'eccitamento, il contatto del corpo dell'uomo elegante doveano darle.
Nulla varrà a riprodurre, ad
accennare soltanto, l'impressione voluttuosamente affascinante di quel corpo
leggiero da silfide, che librava, direi, le ali coll'espressione del suo
sguardo, per abbandonarsi a tutto il trasporto di quel ballo.
Le coppie cominciarono a girare;
la musica eseguiva Il Bacio di Arditi.
Dopo il primo giro, quando la
contessa si fermò, anelante, come cullandosi al braccio del suo splendido
cavaliere, sfiorandogli un'ultima volta il viso coi suoi capelli; colle guance
accese, il petto anelante, gli occhi umidi di languore e di piacere, incontrò
un altro sguardo, umido ancor esso di una indicibile espressione d'angoscia e
quasi di cruccio, che brillava su di una fronte alquanto calva e pallida di una
spaventosa pallidezza. Ella fissò un lungo sguardo su quello che si fissava su
di lei.
«Vogliamo ricominciare?», le
sussurrò all'orecchio l'ufficiale, passandole il braccio attorno alla vita da
bajadera.
«È inutile... mi sento stanca...
Non ballo più...»
Ella cercò cogli occhi un'altra
volta quello sguardo supplichevole e nello stesso tempo minaccioso: era
scomparso.
«Oh! questo Bacio! questo
Bacio!... avrò da sentirlo dappertutto!...», mormorava Pietro delirante
scendendo le scale.
«Domani ai Fiorentini si darà un
dramma che ha fatto furore; a quanto si dice; avrete la compiacenza di
accompagnarmici?», domandò Narcisa al marito.
Questi s'inchinò in silenzio.
L'indomani, infatti, alle 9 e
mezzo, la contessa, che non si ricordava di essere entrata in teatro a tal ora,
era in un palchetto di seconda fila sul proscenio. Il sipario non era ancora
alzato e la sala era affollatissima.
La contessa recava in mano un
magnifico mazzo di viole bianche che posò sul parapetto insieme
all'occhialetto.
Il dramma fu recitato in mezzo ad
una di quelle ovazioni che sembrano strappate agli spettatori quando l'autore
ha saputo scuotere tutte le corde dei cuori colla sua mano potente: era una di
quelle opere spontanee, tutte di un sol getto, che sono belle perché sono vere,
che sono inimitabili perché sono semplici e comuni. Narcisa rivide quel
giovanetto che passava le notti sotto i suoi veroni; lo rivide nel protagonista
di quel dramma, con tutti i suoi fremiti d'amore e i suoi disinganni disperati,
ella sentì che quel dramma parlava di lei, era scritto per lei, in tutte quelle
sfumature di rimembranze che l'accennavano ad ogni passo... L'ufficiale, che
avea battuto le mani quando l'aristocrazia aveva applaudito, osservò con
sorpresa che ella rimaneva indifferente alle sue sollecitudini, tutta assorta
in quel Gilberto che ad ogni parola destava in lei una reminescenza e le
svelava quale amore quasi sopra[n]naturale avea saputo destare.
Nel mezzo della scena che l'avea
commossa dippiù, ella, coll'ispirazione improvvisa e adorabile della donna leggiera
e capricciosa, s'era tolto dal dito un magnifico anello di brillanti e l'avea
legato al nastro del mazzetto.
Alla fine del second'atto
l'autore, chiamato fragorosamente dal pubblico, venne sulla scena. Egli non ebbe
che uno sguardo, in mezzo al turbine di quegli applausi frenetici, in mezzo
all'agitazione di quella folla che si levava gridando il suo nome, in mezzo
all'inebbriamento di quell'ovazione quasi delirante: uno sguardo che andò a
posarsi su di un palchetto di un proscenio al second'ordine.
Egli vi vide la contessa... verso
della quale si chinava sorridendo il biondo giovanotto dalla brillante divisa
di ufficiale degli Usseri.
Pietro dimenticò quegli applausi,
quelle corone che gli cadevano ai piedi, quei fiori che lo coprivano come in un
nembo, quelle acclamazioni al suo nome; egli non badò più neanche ad un mazzo
di viole bianche che gli era caduto ai piedi dal palchetto di Narcisa e che
avea raccolto, per fuggire come un delirante, come un uomo che teme
d'impazzire, poiché tutti questi applausi non potevano dargli quello sguardo
ch'era venuto a cercare sino a Napoli, che avea voluto comprare a prezzo delle
ispirazioni del suo genio, e che avea visto rivolto sul giovane sottotenente.
La folla chiamò invano replicate
volte l'autore.
«Che ne dite del dramma?»,
domandò la contessa all'ufficiale, dopo l'ultimo atto, approfittando del tempo
in cui il conte era uscito per fare ordinare la carrozza dal jo[c]key che
aspettava sul corridoio.
«Molto bello, in verità; e anche
assai applaudito.»
«E dell'autore?»
«Che volete che ne dica?... ch'è
un autore come tutti gli altri», soggiunse colui con il supremo disprezzo degli
uomini di spada.
«Eppure quest'uomo è celebre!»,
aggiunse la contessa avvolgendosi nella sua vespertina di cachemire bianco.
«Sarà anche questo.»
«Sento che amerei quest'uomo come
una pazza!», esclamò Narcisa punta dal freddo motteggio del suo vagheggino,
colla viva schiettezza del suo carattere mobile ed impetuoso.
«Confessate almeno che questa
franchezza è odiosa!...», rispose ridendo il sottotenente, poiché non sapeva se
dovesse prendere la cosa sul serio, sebbene l'espressione affatto nuova della
contessa gli desse molto a pensare.
«Ha però sempre il merito della
franchezza!», replicò con tutta flemma Narcisa: «Quest'uomo io l'amo... poiché
la sua celebrità è opera mia!... opera di cui posso andare superba!... Partite
per la guerra, signore, a farvi uccidere per me o a ritornare generale
d'armata, e allora... ma allora soltanto... forse.... io vi amerò come sento
che amo in questo momento quell'uomo!».
«Signora!», esclamò l'ufficiale
coi denti stretti, facendosi pallido.
«Non mi accompagnate sino alla
mia carrozza?», disse senza scomporsi Narcisa, dandogli la busta
dell'occhialetto da recarle, nel momento che suo marito rientrava nel
palchetto.
Brusio era ritornato a sua casa
agitatissimo, e passò la notte senza dormire.
Ella! Narcisa! avea assistito al
suo trionfo, avea palpitato dei suoi sentimenti, gli avea gettato quel mazzetto
che avea fatto appassire a furia di baci!... Ma ella non era sola!...
quell'uomo, quel soldato, sì giovane, sì bello, sì splendido! che le parlava sì
da presso... che le sorrideva in quel modo!... Tutt'a un tratto le sue dita
incontrarono l'anello che era legato al mazzo; un dubbio atroce lo fece
impallidire: quei fiori, che la donna adorata avea lasciato cadere su di lui,
invece di essere l'espressione della simpatia, non dimostravano piuttosto uno
di quei volgari applausi, uno di quegli splendidi regali con cui si paga l'abilità
di un istrione?... Quest'idea lo martellò a lungo; e l'indomani, ancora sotto
questa impressione, scrisse il seguente biglietto a Narcisa - sarcasmo pungente
ed amaro velato dalla forma più delicata:
Signora contessa,
Ieri ebbi la fortuna di raccogliere
un mazzo che le cadde dal palchetto sulla scena. Se, unita ai fiori che lo
compongono, non vi avessi trovato una gemma di qualche valore, io l'avrei forse
conservato come un ricordo dippiù della simpatia di cui mi onorarono gli
spettatori; ma nel dubbio d'ingannarmi sulla destinazione del suo prezioso
regalo, poiché tali sogliono essere le ricompense dei commedianti celebri, mi
fo un dovere di rimetterlo alle mani dalle quali è partito.
La prego, signora, di gradire la
testimonianza della mia più distinta considerazione, ecc.
Suggellò il biglietto, dopo
averlo firmato, aspettando con impazienza l'ora convenevole per ricapitarlo.
Bisogna dire che il giovane,
esagerando la sua suscettibilità, scrivendo quella lettera di orgoglioso
rimprovero sotto le frasi gentili, cedeva ad una segreta speranza di mettersi
in relazione con Narcisa; e che egli avea adottato quel mezzo come ne avrebbe
adottato un altro, se gli si fosse presentato.
A mezzogiorno suonò, e disse al
domestico che comparve, consegnandogli la lettera ed il mazzo:
«V'informerete dalla servitù del
signor barone di Monterosso dell'abitazione della signora contessa di Prato, e
andrete a recarle questa lettera insieme ai fiori e all'anello, personalmente»,
aggiunse in ultimo, accentuando la parola.
«Ascoltate....», disse quindi,
mentre il servitore stava per uscire, esitando tuttavia a proferire quelle
parole che gli pareva svelassero la sua segreta speranza che cercava
dissimulare a se stesso: «se vi dicono esserci risposta aspettatela».
Attese con ansietà febbrile i tre
quarti d'ora che il domestico impiegò a ritornare colla risposta. Finalmente
l'udì sulle scale e andò ad incontrarlo nel salotto, dominandosi a pena.
Gli venne recato su di un vassoio
da lettere un biglietto da visita; al di sotto del titolo Conte di Prato in
litografia, c'era scritto a mano: prega il sig. Brusio di far trovare alle 8
due suoi amici al Caffè d'Europa.
«Un duello!», esclamò Pietro
sorpreso di leggere tutt'altro di quello che sperava: «confesso che me l'aspettava
pochissimo. Quello che non so comprendere è perché il signor conte spinga la
permalosità sino a sfidarmi per un mazzo rimandato... a meno che...».
Rimase pensieroso alcuni secondi,
senza compire la frase, girandosi il biglietto fra le dita.
«Non importa»; disse quindi
riscuotendosi; «quest'uomo è destinato; io l'ucciderò, com'è vero che mi chiamo
Pietro e che quest'uomo mi ha insultato a Catania...»
Uscendo per prevenire i testimoni
passò dal barone di Monterosso e vi trovò un altro suo amico.
«V'incontro a proposito»;
diss'egli stringendo le due mani che gli venivano stese, «ho un affare col
conte di Prato e venivo a pregarvi della vostra assistenza.» E raccontò ai due
amici il fatto della mattina che avea causato la sfida del conte.
«Le condizioni?», domandò il
barone.
«Vi dò carta bianca;
l'appuntamento è per stasera, alle otto, al Caffè d'Europa. Vi prevengo
soltanto che non accetterò accomodamenti.»
Alle dieci i due padrini vennero
a trovarlo al Teatro S. Carlo per riferirgli le condizioni stabilite.
«Diavolo!», esclamò il barone,
«l'affare sembra più serio che io non mi fossi immaginato. Il conte è furioso,
a quanto pare; ed ha proposto condizioni d'inferno: trenta passi, dieci passi
liberi per ciascheduno. C'è da divertirsi con due uomini che possono venire a
scaricarsi le pistole sul petto a dieci passi!»
«Accetto!», esclamò Pietro col
suo accento vivo e brusco.
«Caspita! lo sapevamo; giacché
abbiamo accettato per voi... Quando c'entra quel demonio di contessa...»
«La contessa?»
«Eh, via!... forse che domani
andate a cacciarvi una palla in corpo quasi colle pistole appoggiate sullo
stomaco per quel povero mazzo che c'entra quanto un pretesto?!... Il conte è
irritatissimo per l'assiduità che spiegaste nel far la corte a sua moglie, per
cui la seguitaste da Catania a Napoli; e si è servito di questo pretesto per
sfidarvi onde evitare il rumore.»
«Vi assicuro che non ho ancora
l'onore di essere conosciuto personalmente da quella signora...»
«Il conte però sembra che vi
conosca molto bene... A domani!»
A mezzanotte Brusio rientrando
trovò una lettera che il cameriere gli disse aver recato due ore avanti una
giovane assai elegante, che erasi annunciata per la cameriera della contessa di
Prato. Egli aprì con febbrile impazienza la lettera profumata, della quale il
bellissimo carattere inglese era tracciato con mano incerta, e vi lesse:
Signore,
Il conte l'ha sfidato. Le
condizioni di questo duello sono orribili: due uomini che si battono alla
pistola non si battono per una semplice riparazione; si battono per uccidersi.
Questo duello è un delitto.
A Napoli si è molto parlato del
suo scontro di un mese fa con un giornalista il quale ancora guarda il letto;
si dice ancora che ella è un terribile tiratore; il conte anche lui possiede
questa sciagurata destrezza... E questi due uomini, che si odiano a morte,
andranno, domani, dope essersi abbigliati freddamente, come al solito, dopo di
aver fatto attaccare la carrozza, dopo di essersi salutati civilmente, a
mettersi a 15 o 20 passi di distanza colle pistole in mano, mirando col triste
sangue freddo che deve dare in mano dell'uno la vita dell'altro... Oh!
signore!... lo ripeto: questo è delitto!... questo è il più spietato assassinio
legale!... O il conte resta ucciso ed io avrò il rimorso di essere stata causa
della sua morte... o invece...
Signore... a Catania conobbi un
giovane nobile e generoso... che mostrava d'amarmi... Io invoco questa memoria
per scongiurare tale disgrazia... Questo duello non deve aver luogo! Si
ritratti, signore, il conte accetterà le sue più semplici scuse, e le basterà
di fare il primo passo perch'egli le venga incontro a stringerle la mano. Se ha
una madre pensi a questa madre, se ha un'amante pensi all'amante, signore... e
farà il più nobile sacrifizio che amor proprio d'uomo possa fare evitando
questo duello.
Narcisa Valderi
Pietro fu tristamente colpito da
quella lettera. Egli si aspettava tutt'altro, egli credeva di trovare
affettuose parole di donna amante, e per contro rinvenne la moglie che
supplicava il duellista famoso per la vita del marito; egli non vide, non seppe
scorgere tutto ciò che lasciava [in]travedere, che accennava anche quella
lettera che parlava delle reminiscenze di Catania... poiché a quelle
reminiscenze non si era data più importanza di quanta se ne dà a sentimenti che
non si dividono; avea riletto due o tre volte una parola, quell'o invece... che
un momento avea fatto la sua speranza, come se avesse cercato interpretare
tutto il senso di quei puntini che la seguivano, e trovarvi quello che il suo
cuore voleavi vedere; ma quei puntini potevano anche nascondere, come spesso,
il nulla.
Se Narcisa gli avesse scritto
semplicemente: Pietro, non uccidete mio marito, ritrattatevi: egli non si
sarebbe ritrattato, ma non avrebbe neanche fatto il passo che fece, rimandandole
la lettera, come una suprema impertinenza.
Sorridendo del suo riso amaro,
scrisse, in basso della stessa lettera della contessa, queste sole linee, che
gli parve la completassero, e ne fossero la degna risposta, mormorando fra i
denti stretti dal sarcasmo: «Ah! costei ha paura che io le uccida il marito!...
costei si rivolge al giovane di Catania, e ne accenna la memoria, come si
farebbe di un balocco ad un fanciullo; per ottenere il suo intento!... Ma non
sa questa donna quali lagrime stillino ancora queste memorie?!...».
Le due linee dicevano: «Se amassi
una donna, come io e nessuno può amare - e questa donna mi chiedesse una viltà
- io la negherei a questa donna. - Alla signora contessa di Prato posso
assicurare che il conte, suo sposo, non correrà alcun pericolo».
Sì, egli l'amava tanto, colei,
malgrado tutto quello che aveva sofferto per lei, e forse a causa di ciò,
malgrado i torti che si figurava aver ella verso di lui, da farle il sacrifizio
della vita senza neanche pensarci, senza neanche farglielo indovinare; mentre
l'assicurava della vita di suo marito, ricusandosi nel tempo istesso a far le
sue scuse al conte, - ciò che valeva offrirsi come un bersaglio ai colpi di
lui.
Quest'uomo che non sapeva se la sera
del domani dovesse venire per lui; quest'uomo che andava fra poche ore a
barattare una vita giovane e ricca d'avvenire, acclamata, festeggiata, contro
un colpo di pistola, dormì tranquillo tutta la notte, poiché si sentiva più
vicino a Narcisa, la sirena che gli avrebbe fatto adorare l'inferno per mezzo
delle sue seduzioni.
All'alba era alzato e si vestiva.
Nel punto di scendere le scale consegnò al cameriere la lettera della contessa
dicendogli:
«Recate al suo indirizzo questa
lettera, e dite alla contessa di avervela io data nel punto di montare in
carrozza. Fate avanzare».
«La carrozza!», gridò il
cameriere.
I briosi cavalli lo trasportarono
rapidamente all'abitazione del barone, nella strada del Pilierò, ove
aspettavano i due testimoni.
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