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Un'ora del mattino suonava
lentamente all'orologio del salotto nel grazioso casino che abitavano i due
giovani. Narcisa, pallida del suo delicato pallore di cera, coll'occhio
brillante di un inusitato splendore che avea dei lampi di felicità, vestita di
bianco, il suo colore favorito, sebbene la stagione fosse alquanto inoltrata,
coi capelli raccolti mollemente dentro una reticella di seta ed arricciantisi
sulla fronte quasi sino alle sopra[c]ciglia, con quella moda ardita che
ricordava le più belle teste delle statue greche, stava seduta abbandonatamente
sopra un canapè, accanto a Pietro, nella sua attitudine solita, allacciandogli
il collo con le sue belle braccia, figgendo avidamente gli occhi negli occhi di
lui, ascoltando le sue parole; e sembrava deliziarsi nella trasparente e
profumata atmosfera che le mille sensazioni di quel momento le creavano.
Giammai la donna amante avea
sussultato di tale amore fra le braccia dell'uomo amato; giammai la sirena si
era abbandonata più molle, più languente; giammai la maliarda avea avuto
sguardo più inebbriante da fare oscillare convulsivamente le più intime fibre
del cuore di lui. Sembrava che qualche cosa di più che mortale eccitasse in lei
tutte le più squisite risorse, le ispirazioni più ardenti della donna
affascinante, della donna ebbra anch'essa di questa voluttà che ispirava e che
cercava, per formarne un fascino irresistibile, divorante.
L'occhio di Pietro era raggiante;
la sua parola interrotta a scosse come per delirio; le sue membra tremanti di
sovrumano diletto. Egli suggeva avidamente coi baci per la fronte, pei capelli,
per le labbra, per gli occhi, pel collo quelle emanazioni acri e violente di
una voluttà insaziabile, che eccitava il godimento sino al delirio...
«Oh! Narcisa! Narcisa!»,
esclamava egli come un pazzo, «Narcisa di Napoli... di Catania!... t'ho trovata
alfine! sì, t'ho trovata!!...»
Tutt'a un tratto quel corpo
affascinante di mille seduzioni ebbe un fremito che non seppe reprimere, e
quasi una dolorosa contrazione.
Pietro l'abbracciò più
strettamente, come ebbro... poiché lo scambiò per un fremito di piacere.
«Che io ti vegga, Narcisa!»,
esclamò egli colle mani giunte, inginocchiandosi sul tappeto, come se avesse
voluto adorarla: «oh! ch'io possa vederti!.. Perché nel tempo istesso che io
provo questo godimento supremo, che mi comunico il tuo corpo da fata fra le mie
braccia, non posso analizzarti col mio sguardo, ed assorbire quell'altra
ebbrezza sublime di divorare le tue bellezze?...».
Egli si tacque, sorpreso,
allarmato dal pallore che copriva i delicati lineamenti di lei, che tradivano
qualche lievissima contrazione spasmodica: e che cominciavano a bagnarsi di
fredde stille di sudore a fior di pelle alla radice dei capelli.
Narcisa, come per nascondergli
quel triste spettacolo inebbriandolo fra le sue carezze, lo attirò fra le sue
braccia, baciandolo del suo bacio languido e divorante nella sua molle
seduzione; e posò il suo viso sul volto di lui, mischiando i ricci dei suoi
capelli ai suoi...
«Che hai, Narcisa?», le gridò
Pietro spaventato dal freddo sudore di cui gli inumidiva il volto il contatto
di lei.
«Oh, nulla!... È la felicità!...
è la gioia suprema che provo... che sembra farmi svenire... Oh! come son
felice!... Dio mio! come son felice!...»
Mentre quella testolina ricciuta
si posava sulla sua, Pietro la sentì farsi più pesante sulla sua spalla.
«Narcisa!...»
«Oh, qual felicità, Pietro!... Mi
pare di aver sonno... di dover sognare questi squisiti diletti... Avevo tanto
sofferto!... Adagiami sul canapè... e suonami qualche cosa sul pianoforte...
Provo delle sfumature sì care... dei sogni incerti sì belli!... Oh, Pietro, se
li provassi anche tu! Mi pare di dover godere di più con quei suoni tratti da
te...»
La sua pupilla era prodigiosamente
dilatata; ma lo fissava ancora coi raggi più vivi del suo sguardo.
Pietro s'inginocchiò ai suoi
piedi; ella ebbe il coraggio di cambiare in un sorriso la contrazione di
spasimo delle sue labbra.
«Suonami il valtzer... Il
Bacio... fammi contenta...»
Pietro esitava.
«Ma che hai? Dio mio! sei pallida
da far paura...»
«È nulla, ti dico... è l'eccesso
della gioia, della felicità... Son tanto felice, mio Pietro!... Fammi questo
piacere, suona quel valtzer... che mi domandavi sempre...» E giunse le mani con
atto infantile di preghiera.
Pietro cominciò ad eseguire
quella musica che faceva la più strana impressione in mezzo al silenzio della
notte (nella mestizia che, suo malgrado, cominciava ad offuscarlo), ascoltata
da quella donna coricata sul divano, che giungeva le mani; della quale i
tratti, sussultanti di quando in quando, sembravano assorbire le vibrazioni
come delle care reminiscenze; della quale gli occhi si dilatavano colla pupilla
di una spaventevole fissità; della quale infine le labbra si aprivano anelanti
come a bever l'onda di quell'armonia, in mezzo alle contrazioni spasmodiche che
non poteva dissimulare; nel silenzio quasi lugubre di quel salotto, che
cominciava ad esser rotto dall'anelito affannoso e soffocato della respirazione
di lei.
Ella si era alzata lentamente,
come attratta da quel suono; cogli occhi come affascinati da immagini che ella
sola poteva vedere... E si era trascinata barcollante, stendendo le mani
tentoni, come se non vedesse più, verso il punto dove risuonavano quelle note
festanti. Ella vi giunse, anelante di fatica e di piacere, e si aggrappò alla
spalla di Pietro per non cadere, gridando con accento indescrivibile:
«Oh! Pietro! Pietro!... dove
sei?!...».
E cadde inginocchiata.
Le sue pupille azzurre, chiare,
quasi fosforescenti, si fissavano in volto a lui, senza sguardo, come
cercandolo; e allorquando sembrò ch'ella non potesse rompere quel velo che le
annebbiava la vista, che le impediva di pascersi nelle sembianze di lui, i suoi
lineamenti, che cominciavano a contrarsi, espressero l'angoscia... un terrore
nuovo, incomprensibile.
«Oh, Dio! Dio mio!», singhiozzò
agitando le labbra convulsivamente, come se stentasse a trarre quei suoni dalla
sua gola arida e ad articolarli colle sue labbra tremanti: «Oh! Dio!... sì presto!
sì presto!...».
E quando incontrò gli abiti del
giovane, le sue mani increspate cercarono brancolando le mani di lui, che
strinsero avidamente, con tenace ostinazione, quasi temessero di lasciarsele
sfuggire.
La pelle del suo viso si era
fatta arida, e le vene cominciavano ad iniettarsi di sangue. Pietro, stordito,
spaventato, afferrò il cordone del campanello.
«È giunto il signor Angiolini»:
disse un domestico sulla soglia.
«Presto! presto! che corra...
soccorso! Ella muore!», gridò Pietro.
Sollevò quel bel corpo, fattosi
di un'inerte pesantezza, fra le sue braccia, stringendovelo con una furibonda
tenerezza, e lo coricò sul divano. In tutto quel tempo le mani convulse di lei
cercarono ancora le sue; e quando le trovarono fecero atto di recarsele alle
labbra, fissandolo sempre di quella pupilla cerulea, dilatata, senza sguardo.
Si udirono dei passi precipitati,
e comparve Raimondo, che veniva a prendere Brusio per condurlo da sua madre,
come Narcisa ne avea avuto sentore. Con un solo sguardo egli vide di che si
trattava, e senza perder tempo in domande inutili, corse da lei, distesa sul
divano, e le prese il polso.
Le pulsazioni erano deboli,
lente, mancanti; osservò la pelle arida, picch[i]ettata in alcuni punti delle
braccia di bollicine incolori; il volto acceso e che cominciava a farsi livido;
gli occhi fissi che operavano uno sforzo prodigioso per non cedere alla
pesantezza delle palpebre, onde fissarsi ancora su di Pietro, quantunque non lo
vedessero più. Toccò vivamente la regione epigastrica che tradì uno spasimo
acuto.
«Hai in casa dell'emetico?»,
domandò vivamente Raimondo al suo amico, rizzandosi con la pronta decisione che
dà l'intuizione al medico di genio, e che lo fa sollevare e dominare in tali
momenti.
«Oh no!... Dio mio!...»
«Un momento! avrete almeno
questo»; e spezzò il cordone del campanello, strappandolo con violenza.
«Recate un bicchier d'acqua e del
sapone, e preparate due tazze di caffè molto carico e senza zucchero; subito!»,
ordinò al cameriere che comparve.
«Bisogna che tu passi nell'altra
stanza»; soggiunse quindi a Brusio che sembrava di sasso. Narcisa, che udì
forte e comprese quelle parole, strinse più vivamente le mani del giovane,
quasi volesse attaccarsi a lui.
«No! no!», singhiozzò Pietro
cadendo inginocchiato dinanzi al canapè; «no! io non la lascerò un minuto... Io
sarò forte, Raimondo!»
Il medico si strinse con
impazienza nelle spalle, e tentò di far bere a Narcisa il bicchier d'acqua che
gli avevano recato ove avea sciolto del sapone.
Ella ne inghiottì avidamente due
o tre sorsi, afferrando il bicchiere come se avesse voluto aggrapparsi alla
vita che sentiva sfuggirle; provò qualche movimento di vomito, che rimase senza
effetto; e ricadde pesantemente sul canapè mormorando:
«Oh! la vista!... Dio mio! la
vista!... vederlo almeno!...».
E due lagrime luccicarono sulla
sua orbita. I suoi lineamenti erano orribili di questa lotta penosa che cercava
vincere e dissimulare con isforzi sovrumani.
Raimondo, che avea preso la testa
di lei fra le sue braccia, un minuto dopo la lasciò ricadere sul cuscino, resa
di una cadaverica pesantezza; e rimase muto, disanimato. Poco dopo mormorò,
come parlando a se stesso:
«È l'oppio in forti dosi... Ora
il delirio... dopo il coma...».
«Che sete! Dio mio, che sete!»,
mormorava Narcisa colla voce secca, stentando a disnodare la lingua, legata da
una spaventevole aridità; «acqua! per pietà, Pietro!... acqua!...»
Raimondo le fece inghiottire
quasi tre tazze di caffè amaro.
«Che fare? Dio!... che fare?»,
gridava Pietro implorando, con l'accento del cuore, da Raimondo quell'aiuto che
questi non poteva dargli mentre avea chinato la testa sul petto, come se avesse
voluto dire: troppo tardi!
La fisionomia di Narcisa si
animava come se contemplasse deliziose visioni che il suo occhio sbarrato e
fisso poteva vedere soltanto. Ella mormorava frasi interrotte, appena
sensibili, in cui spesso le sue labbra si agitavano come per sorridere. Una o
due volte sembrò riscuotersi bruscamente, con un senso penoso... e allora i
suoi tratti esprimevano un immenso affanno... in cui ella mormorava:
«Oh, Pietro!... il valtzer!... il
valtzer!...».
Pietro, che aveva soltanto la
forza di bagnare di pianto le sue mani che si teneva alle labbra, gridò
singhiozzando:
«Ma salvala, Raimondo!...
fratello mio!... Non vedi che muore!... Bisogna ch'ella non muoia!... Non
voglio che ella muoia!...».
Tutt'a un tratto Raimondo corse
al pianoforte, come cedendo ad un'ultima e subitanea ispirazione; lo strascinò
sulle sue carrucole sino al canapè dov'era sdraiata l'agonizzante; sollevò
questa fra le sue braccia, perché le braccia di lei potessero ancora circondare
il collo di Pietro che non volevano abbandonare; e disse a Brusio che sembrava
istupidito:
«Non c'è più che un miracolo che
possa prevenire il coma, che possa salvarla: bisogna prolungare questo delirio
per dare il tempo di operare all'infuso di caffè... Suonale quello che vuole...
Ci son dei casi in cui la scienza bisogna che ricorra all'arte o al caso».
Pietro cominciò a suonare quel valtzer
allegro e brillante, di cui le note acquistavano la più triste inflessione
sotto le sue dita increspate e tremanti, e che strillavano sinistramente in
mezzo al funereo silenzio di quella stanza.
Due o tre volte le labbra di
Narcisa sorrisero; i suoi lineamenti perdettero la loro rigida alterazione per
esprimere il piacere più intenso che quel suono certamente le procurava o che
determinava i sogni deliziosi del suo delirio... Ella stringeva più fortemente,
sebbene con moto convulso, quella testa che abbracciava; e qualche volta le sue
labbra si agitarono come per baciare; e il suo capo si avanzava tentoni come se
avesse voluto incontrare quello di lui;... e la sua pupilla appannata, vitrea,
fissa, ebbe un lampo, un raggio di uno sguardo in cui balenava tutto
l'ineffabile amore che l'agonia non poteva assopire in quel cuore.
«Oh! Pietro! Pietro!... ti
vedo!...», gridò esultante; con un accento indescrivibile che avea più
dell'urlo dello spasimo che del trasporto della gioia; «m'ami?!... m'ami
tu?!!!...»
E si rovesciò assieme a lui sul
canapè vincendo, con uno sforzo disperato, miracoloso, la difficoltà di
proferire, il torpore della mente, l'inerzia delle forze, l'agonia insomma.
«Pietro, m'ami ancora?!»
«Sì! sì! t'adoro!...», singhiozzò
egli tentando inumidire l'aridità di quella pelle coll'umido delle sue labbra,
di scacciare il torpore di quelle membra, la pesantezza di quelle palpebre
coll'impeto dei suoi baci; cercando trasfondere la vita che sentiva rigogliosa,
giovane, potente in lui, nel soffio che alitava fra le labbra di lei violacee,
semiaperte e convulse.
«E non me lo dici perché hai
pietà di me?... e non me lo dici perché io muoio?!...», seguitò ella
aggrappandosi al suo collo, nelle convulsioni dell'agonia, con quel moto
incerto e straziante del volto e delle labbra che cercavano il volto di lui per
baciarlo.
«Oh, no!... non ti ho mai amato
come t'amo!... Narcisa!... Narcisa!... non mi abbandonare!...»
«Grazie!... grazie!...», mormorò
la moribonda con un anelito interrotto che la stentata respirazione soffocava
nella sua gola; «grazie!... oh! la vita!... dottore, fatemi vivere... egli mi
ama!!... io non voglio morire!!!», finì con accento straziante.
E non poté più proferire,
quantunque agitasse ancora penosamente le labbra, e alcuni suoni rochi e
interrotti scappassero dalla sua gola arida.
Ella rimase come profondamente
assopita; riscossa di tratto in tratto da sussulti convulsivi: rivelando mille
impressioni, ora deliziose ora tristi, nella mutabile espressione dei suoi
lineamenti, in cui l'occhio soltanto, colla sua larga e lucida fissità faceva
prevedere la morte.
Era orribile a vedersi la rapida
decomposizione di quella fisonomia. Finalmente sopraggiunse il sonno.
Pietro rimaneva, com'ella l'aveva
attirato rovesciandolo nella sua caduta, ancora avvinghiato a quel corpo per
tre quarti cadavere, e che aveva tuttavia i suoi ultimi moti convulsivi, gli
estremi sforzi dei suoi rantoli, la disperata tensione della pupilla per lui;
egli era come affascinato da quell'orribile spettacolo che impietrava le
lagrime nel suo occhio ardente e dilatato quasi al pari di quello di lei.
«Ma parti, disgraziato!», gli
gridò Raimondo tentando di strapparlo a quell'amplesso di morte; «non vedi che
ciò ti uccide...!»
Pietro non rispose, e abbracciò
più strettamente quel corpo inerte, in cui gli parve sentire un ultimo sussulto
al suo abbraccio, mentre le mani gli parve lo stringessero più tenacemente,
come per ringraziarlo e non lasciarlo.
Quell'agonia fu lunga, penosa,
orrenda. A pena il medico, colla mano sul petto di lei a numerare i battiti del
cuore, poté discernere il punto in cui il sonno del veleno si mischiò al sonno
della morte.
Pietro rimase istupidito, come un
pazzo; per un mese intiero.
Il secondo rivide sua madre; poi
gli amici. Un anno dopo ricomparve in società...
Chi sa quante volte al giorno
pensa a quest'ora a Narcisa, la donna ch'è morta d'amore per lui?!...
Le splendide promesse del suo
ingegno, che l'amore di un giorno aveva elevato sino al genio nella sua anima fervente,
erano cadute con quest'amore istesso. Pietro Brusio è meno di una mediocrità,
che trascina la vita nel suo paese natale rimando qualche sterile verso per gli
onomastici dei suoi parenti, e dissipando il più allegramente possibile lo
scarso suo patrimonio.
Misteri del cuore!
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