Questo racconto è fatto per le
persone che vanno colle mani dietro la schiena contando i sassi, per coloro che
cercano il pelo nell'uovo e il motivo per cui tutte le cose umane danno una
mano alla ragione e l'altra all'assurdo; per quegli altri cui si rizzerebbe il
fiocco di cotone sul berretto da notte quando avessero fatto un brutto sogno, e
che lascerebbero trascorrere impunemente gli Idi di Marzo; per gli spiritisti,
i giuocatori di lotto, gli innamorati, e i novellieri; per tutti coloro che
considerano col microscopio gli uncini coi quali un fatto ne tira un altro,
quando mettete la mano nel cestone della vita; per i chimici e gli alchimisti
che da 5000 anni passano il loro tempo a cercare il punto preciso dove il sogno
finisce e comincia la realtà, e a decomporvi le unità più semplici della verità
nelle vostre idee, nei vostri principi, e nei vostri sentimenti, investigando
quanta parte del voi nella notte ci sia nel voi desto, e la reciproca azione e
reazione, gente sofistica la quale sarebbe capace di dirvi tranquillamente che
dormite ancora quando il sole vi sembra allegro, o la pioggia vi sembra uggiosa
- o quando credete d'andare a spasso tenendo sotto il braccio la moglie vostra,
il che sarebbe peggio. Infine, per le persone che non vi permetterebbero di
aprir bocca, fosse per dire una sciocchezza, senza provare qualche cosa, questo
racconto potrebbe provare e spiegare molte cose, le quali si lasciano in bianco
apposta, perché ciascuno vi trovi quello che vi cerca.
Narro la storia ora che i
personaggi di essa sono tutti in salvo dalle indiscrete ricerche dei curiosi;
poiché dei tre personaggi - è una storia a tre personaggi, come le storie
perfette, e di tutti e tre avete già indovinato l'azione, per poco pratica che
abbiate di queste cose - lui è al Cairo, o lì presso, a dirigere non so
che lavori ferroviari; lei è morta, poveretta! e l'altro in certo
modo è morto anche lui, si è trasformato, ha preso moglie, non si rammenta più
di nulla, e non si riconoscerebbe più nemmeno dinanzi ad uno specchio di dieci
anni addietro, se non fossero certi calabroni petulanti e ronzanti attorno a sua
moglie, che gli mettono lo specchio sotto il naso, e somigliano così a lui
quand'era petulante e ronzante anch'esso, da fargli montare la mosca al naso.
Insomma, tre personaggi comodissimi che non contano più, che non esistono quasi
- potete anche immaginare che non siano mai esistiti.
Lui e l'altro erano due buoni e bravi ragazzi,
due anime gemelle, amici fin dall'infanzia, Oreste e Pilade
dell'Amministrazione ferroviaria. Lui era ingegnere, l'altro
disegnatore; abitavano nella medesima casa, e andavano sempre insieme, ciò che
li avea fatti soprannominare i Fratelli Siamesi; si vedevano tutti i giorni
all'ufficio dalle nove del mattino alle cinque della sera. Non si seppe
spiegare come lui avesse potuto conoscere la Lina, farle la corte, e
sposarla; - era l'unico torto in trent'anni che Damone avesse fatto al suo
Pitia.
Ma alla fin fine non era stato un
torto nemmen quello. Pitia-Donati sulle prime avea tenuto il broncio al suo
Damone-Corsi, è vero, ma il broncio non era durato una settimana. Lina era tale
ragazza che si sarebbe fatta voler bene da un orso, e Donati poi non era un
orso; ella sapeva quali gelosie dovesse disarmare, e col suo dolce sorriso e le
sue maniere gentili e carezzevoli s'era messa tranquillamente nell'intimità dei
due amici come un ramoscello d'ellera, invece di ficcarcisi come un cuneo.
In capo ad alcuni mesi erano tre
amici invece di due, ecco tutto il cambiamento. Donati sapeva d'avere anche una
sorella oltre il fratello, e Corsi lo sapeva meglio di lui. Di tutto quello che
immaginate, e che avvenne difatti, non c'era neppur l'ombra del sospetto nella
mente di alcuno dei tre - altrimenti la storia che vi racconto non avrebbe
avuto nulla di singolare.
Più singolare ancora è che questo
stato di cose sia durato otto anni, e avrebbe potuto durare anche
indefinitamente. Da principio nelle manifestazioni dell'amicizia, della gran
simpatia che sentivano l'un per l'altro Donati e Lina, c'era stato un leggiero
imbarazzo, forse causato dal timore che potessero essere male interpretate; poi
l'abitudine, la lealtà dei loro cuori, la purezza istessa di quei sentimenti,
li avevano resi più espansivi, più schietti, e più fiduciosi. Donati avea
assistito la Lina in una lunga e pericolosa malattia come un vero fratello
avrebbe potuto fare, ed ella avea per il quasi fratello di suo marito tutte le
cure, tutte le delicate premure di una sorella.
La intimità delle due piccole
famiglie era divenuta così cordiale, così sincera, così aperta a due battenti,
che gli amici, i conoscenti, il mondo, non la stimavano né troppa, né sospetta.
Così rara, ne convengo, com'era rara l'onestà di quelle anime; ma se in una
sola di esse ci fosse stato del poco di buono, non avrei bisogno di tirare in
campo il Fato degli antichi, o la coda del diavolo dei moderni.
La sera, dopo il desinare,
andavano a spasso tutti e tre. Donati dava il braccio alla Lina, e si impettiva
allorché leggeva negli occhi dei viandanti «che bella donnina!». La domenica
pranzavano insieme, e prendevano un palchetto al Comunale o all'Alfieri. Donati
avea la smania delle sorprese; sorprese che si poteano indovinare col
calendario alla mano, a Natale, a Pasqua, e il dì dell'onomastico di Lina.
Arrivava con un'aria disinvolta che lo tradiva peggio delle sue tasche rigonfie
come bisacce, e si fregava le mani vedendo sorridere la Lina. La sera,
d'inverno, si raccoglievano nel salotto, presso il tavolino; facevano quattro
chiacchiere; sfogliavano delle riviste, dei romanzi nuovi, indovinavano delle
sciarade, o Lina suonava il piano. Donati aveva una pazienza ammirabile per
sorbirsi il racconto dettagliato di tutti i romanzi che leggeva Lina - era il
solo vizio che ella avesse - sapeva indovinare delicatamente l'arte di
ascoltare, di farsi punto ammirativo, o punto interrogativo, di agitarsi sulla
seggiola, di convertire lo sbadiglio in esclamazione, mentre, povero diavolo,
cascava dal sonno, o capiva poco, o, semplice e tranquillo com'era, non
s'interessava affatto a tutti i punti ammirativi cui si credeva obbligato dalla
situazione.
Spesso, risalendo nelle sue
stanze, trovava dei fiori freschi sullo scrittoio, un tappetino nuovo dinanzi
al canapè, qualche cosuccia elegante messa in bella mostra sui mobili modesti.
Un risolino giocondo che veniva dal fondo dell'anima faceva capolino
discretamente su quel viso sereno da galantuomo, e si rifletteva su tutte
quelle cosucce silenziose; allora a mo' di ringraziamento, egli picchiava due o
tre colpi sul pavimento. Lina si era data un gran da fare per cercargli moglie;
ei rispondeva invariabilmente: - Oibò! stiamo benone così. Non mettiamo il
diavolo in casa -. Il poveretto era così persuaso d'appartenere a quella
famigliuola, era così contento di quella tranquilla esistenza, che avrebbe
creduto di metter il fuoco all'appartamento, se avesse fatto un sol passo al di
fuori della falsariga sulla quale era uso a camminare, e sulla quale erano
regolate tutte le sue azioni, da perfetto impiegato. Ai suoi amici che gli
consigliavano di farsi una famiglia, rispondeva: - Ne ho una e mi basta -. E
gli amici non ridevano. Lina invece diceva che non bastava; pensava agli anni
più maturi, alle infermità, alla vecchiaia del suo amico, come avrebbe potuto
farlo una madre.
Qualche volta prima di chiudere
la finestra, sentendolo passeggiare tutto solo nella camera soprastante, alzava
gli occhi al soffitto e mormorava: - Povero giovane! - L'isolamento di quella
vita melanconica, scolorita, monotona, nell'età delle passioni e dei piaceri,
dava un certo risalto a quel carattere calmo e modesto, ingigantiva la figura
austera di quel solitario, esagerava l'idea del sacrificio, rendeva l'uomo
simpatico, si insinuava come una puntura in mezzo alla felicità di lei, così
piena, così completa; le faceva pensare, con un sentimento di dolcezza, alla
parte di protezione, di affetto fraterno e di conforto che ella poteva
esercitarvi.
A voi, cercatori d'uncini!
A Catania la quaresima vien senza
carnevale; ma in compenso c'è la festa di Sant'Agata, - gran veglione di cui
tutta la città è il teatro - nel quale le signore, ed anche le pedine, hanno il
diritto di mascherarsi, sotto il pretesto d'intrigare amici e conoscenti, e
d'andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il
marito abbia diritto di metterci la punta del naso. Questo si chiama il diritto
di 'ntuppatedda, diritto il quale, checché ne dicano i cronisti, dovette
esserci lasciato dai Saraceni, a giudicarne dal gran valore che ha per la donna
dell'harem. Il costume componesi di un vestito elegante e severo, possibilmente
nero, chiuso quasi per intero nel manto, il quale poi copre tutta la
persona e lascia scoperto soltanto un occhio per vederci e per far perdere la
tramontana, o per far dare al diavolo. La sola civetteria che il costume
permette è una punta di guanto, una punta di stivalino, una punta di sottana o
di fazzoletto ricamato, una punta di qualche cosa da far valere insomma, tanto
da lasciare indovinare il rimanente. Dalle quattro alle otto o alle nove di
sera la 'ntuppatedda è padrona di sé (cosa che da noi ha un certo
valore), delle strade, dei ritrovi, di voi, se avete la fortuna di esser
conosciuto da lei, della vostra borsa e della vostra testa, se ne avete; è
padrona di staccarvi dal braccio di un amico, di farvi piantare in asso la
moglie o l'amante, di farvi scendere di carrozza, di farvi interrompere gli
affari, di prendervi dal caffè, di chiamarvi se siete alla finestra, di menarvi
pel naso da un capo all'altro della città, fra il mogio e il fatuo, ma in fondo
con cera parlante d'uomo che ha una paura maledetta di sembrar ridicolo; di
farvi pestare i piedi dalla folla, di farvi comperare, per amore di quel solo
occhio che potete scorgere, sotto pretesto che ne ha il capriccio, tutto ciò
che lascereste volentieri dal mercante, di rompervi la testa e le gambe - le 'ntuppatedde
più delicate, più fragili, sono instancabili, - di rendervi geloso, di rendervi
innamorato, di rendervi imbecille, e allorché siete rifinito, intontito,
balordo, di piantarvi lì, sul marciapiede della via, o alla porta del caffè,
con un sorriso stentato di cuor contento che fa pietà, e con un punto
interrogativo negli occhi, un punto interrogativo fra il curioso e
l'indispettito. Per dir tutta la verità, c'è sempre qualcuno che non è lasciato
così, né con quel viso; ma sono pochi gli eletti, mentre voi ve ne restate
colla vostra curiosità in corpo, nove volte su dieci, foste anche il marito
della donna che vi ha rimorchiato al suo braccio per quattro o cinque ore - il
segreto della 'ntuppatedda è sacro. Singolare usanza in un paese che ha la
riputazione di possedere i mariti più suscettibili di cristianità! È
vero che è un'usanza che se ne va.
Ora accade che una volta, tre o
quattro giorni prima della festa, Lina, burlona com'era, parlando di 'ntuppatedde,
dicesse a Donati:
- Stavolta, sapete, non vi
consiglio di farvi vedere per le strade -.
Donati sapeva che Lina non s'era
travestita mai da 'ntuppatedda, e siccome era la sola sua amica da cui
potesse aspettarsi una sorpresa, rispose facendo una spallata:
- Poiché me la son passata liscia
per otto anni!...
- Liscia o non liscia, a voi! Uomo
avvisato uomo salvato -.
Ma Donati non cercava di
salvarsi, anzi quel tal pericolo lo attraeva, senza fargli sospettare il detto
del Vangelo. Sarebbe stata una festa, una superba occasione di fare alla Lina
un bel regaluccio fingendo di non riconoscerla, di prendere il di sopra e
intrigarla invece di lasciarsi intrigare, di godersi l'imbarazzo di lei, far lo
gnorri, e riderne poi di gusto insieme a lei. Stette tutto il giorno
almanaccandoci sopra, mentre all'ufficio tirava linee rette e curve, passandosi
la lezione a memoria, studiando le botte e le risposte, facendo provvista di
spirito a mente riposata. L'idea di condursi sotto il braccio quella bella
donnina, potendo fingere di non conoscerla, di trovarsi solo con lei, in mezzo
alla folla, di essere per un'ora il suo solo protettore, uno sconosciuto, un
uomo nuovo, avea qualcosa di clandestino che lo faceva ringalluzzire come di
una buona fortuna.
Ora ecco la coda del diavolo,
quella benedetta coda che si diverte a mettere sossopra tutte le buone intenzioni
di cui è lastricato l'inferno, insinuandosi fra le commessure di esse,
scoprendo il rovescio dei migliori sentimenti, mettendo in luce l'altro lato
delle azioni più oneste, dei fatti che sembrano avere il motivo meno
indeterminato.
La notte che precedette il giorno
della festa Donati fece un brutto sogno; ma così vivo, così strano, così
sorprendente, accompagnato da tale verità di circostanze, che allorché fu
sveglio rimase un bel pezzo incerto se fosse stato o no un brutto sogno, e non
poté chiudere occhio pel resto della notte. Sognò di trovarsi insieme a Lina,
una Lina che parevagli di non aver conosciuto mai, vestita da 'ntuppatedda,
coll'occhio nero e luccicante, la voce e le mani tremanti d'emozione, erano
seduti ad un tavolino del Caffè di Sicilia, dov'egli non soleva andar mai,
stavano immobili, zitti, guardandosi. Ad un tratto ella s'era lasciata
scivolare il manto sulle spalle, fissandolo sempre con quegli occhi
indiavolati, rossa come non l'aveva mai vista, e afferrandogli il capo per le
tempie gli avea avventato in faccia un bacio caldo e febbrile.
Il povero Donati saltò alto un
palmo sul letto, si svegliò con un gran batticuore, e stette cinque minuti
fregandosi gli occhi, ancora balordo. A poco a poco si calmò, finì col ridere
di se stesso, e non ci pensò più.
Il giorno dopo fece l'indiano;
finse di non accorgersi di certi sorrisi maliziosi della Lina, dell'aria
affaccendata di lei, dell'insolito va e vieni che c'era per casa. Disse che
avrebbe passata la sera all'ufficio, per un lavoro straordinario, e andò a
piantarsi in sentinella sul marciapiede del Gabinetto di lettura.
Aspetta e aspetta, finalmente,
verso le cinque, Lina comparve lesta lesta dai Quattro Cantoni, un po'
impacciata nel manto, ma impacciata con grazia; andò difilato dov'egli
trovavasi, come se l'avesse saputo, si cacciò in mezzo alla folla, e infilò
senz'altro il suo braccino sotto quello di lui. Donati l'avrebbe riconosciuta a
questo soltanto. Ella, spiritosa e chiacchierina, badava a stordirlo con un
cicaleccio tutto scoppiettio, ad inventargli mille frottole per intrigarlo, ad
imbarazzarlo con quel po' d'inglese e di francese che l'era rimasto del
collegio, facendosi credere ora una signora forestiera, ora una ragazza che avesse
il diritto di cavargli gli occhi, ora una amica che si fosse travestita per
salvarlo da un gran pericolo, ora una lontana parente che si fosse rammentata
di lui per venirgli a chiedere la strenna di una catenella d'oro. Donati
fingeva di cascarci, se la rideva sotto i baffi, se la godeva mezzo mondo, si
divertiva ad intrigarla lui, alla sua volta, lasciandole supporre che avesse
indovinato dei gran segreti, permettendole di edificare cento storie che non
esistevano, sul fantastico addentellato che ella stessa gli avea offerto.
Infine, quando la vide più curiosa, quando le sorprese negli occhi il primo
baleno di un sentimento nuovo, qualcosa fra la sorpresa e la timidità di
trovarsi con tutt'altro uomo, scoppiò a ridere, e con quella sua faceta bonomia
le disse: - Cara Lina, quando volete sorprendere il mio segreto, e farvi
passare per l'incognita che ha il diritto di cavarmi gli occhi, non dovete
mettere quel braccialetto lì, che me li cava davvero, tanto lo conosco! - Lina
si mise a ridere anche lei, sollevò un po' il manto, e disse: - Bravo! Ora che
avete vinto, giacché siamo davanti al Caffè di Sicilia, offritemi un sorbetto
-. Ed entrarono.
Bizzarria del caso! andarono a
mettersi proprio a quel medesimo tavolino che Donati avea visto in sogno, l'uno
di faccia all'altra, come nel sogno. Lina avea caldo e si faceva vento col
fazzoletto; lasciò scivolare il manto sulle spalle, e appoggiò il gomito sul
tavolino. Donati la vedeva fare senza aprir bocca.
Da alcuni minuti Donati
mostravasi singolarmente imbarazzato; rispondeva sconnesso, a sproposito, e
finalmente le parole gli erano morte in bocca. Lina chiacchierava per due, un
po' rossa dal caldo, coll'occhio acceso dalla maschera, come nel sogno.
Finalmente si avvide del turbamento che Donati non sapeva padroneggiare, e ad
una risposta di lui più sbalestrata delle altre, dissegli: - O... cos'avete? -
Ei si fece rosso. Infine,
davvero... che aveva? Era una cosa ridicola! Possibile che quel sogno della
notte lo avesse imbecillito per tutta la giornata! e si stringeva nelle spalle
ridendo ingenuamente di se stesso. - To'! - rispose, - ho che sono un asino.
Una sciocchezza! e se ve la nascondessi sarei sciocco due volte: ecco! - e le
raccontò il sogno quale s'era riprodotto punto per punto nella realtà, meno una
circostanza che tacque, ben inteso, o piuttosto tradusse ad usum delphini,
dicendole che ella nel sogno gli avesse confessato di amarlo - nientedimeno!
Donati rideva ancora, rideva di
tutto cuore riandando per filo e per segno le stramberie della notte, che
raccontate diventavano più assurde; rideva dell'impressione singolare che il
ripetersi di talune circostanze del sogno avea fatto su di lui. Ella da
principio s'era fatta rossa; l'ascoltava in silenzio, col mento sulla mano,
senza guardarlo più, senza ridere più. Quando egli ebbe finito, abbozzò un
pallido sorriso per non lasciarlo senza risposta - non ne trovò una migliore -
e s'alzò. Se ne andarono in fretta, discorrendo a sbalzi, qualche volta
cercando le parole.
Donati non era precisamente certo
di non aver detto qualche corbelleria; ma sentiva in nube che avrebbe dato una
mesata del suo stipendio perché non avesse parlato, ed anzi perché non avesse
avuto di che parlare. La festa finì zitta zitta, e senza allegria.
Tutti gli anni, il domani della
festa, i tre amici solevano andare a desinare in campagna. Stavolta Lina fu
indisposta e non se ne fece nulla. Donati avrebbe voluto a qualunque costo che
quel giorno si fosse passato come tutti gli altri anni, perché avea sempre
sullo stomaco il sogno e il gran ciarlare che ne avea fatto, e avrebbe voluto
metterci sopra una buona pietra, col seguitare a far quello che avevano sempre
fatto, e non pensarci più. La sera però la passarono come di consueto, in
famiglia. Lina comparve un po' tardi, con un viso di donna che ha l'emicrania,
ma calma e serena. Donati le domandò come si sentisse. Ella gli piantò gli
occhi in faccia, due occhi che gli fecero l'effetto di due chiodi, e rispose
secco secco: - Bene -.
Fu la prima sera passata
freddamente. D'allora in poi ce ne furono parecchie di simili. Lina agucchiava,
Donati suonava o leggeva, e Corsi s'ingegnava di attaccare uno scampolo di
conversazione, alla quale la moglie rispondeva con monosillabi tenendo gli
occhi fitti sul lavoro, e Donati con una specie di grugnito senza lasciare il
libro, né il sigaro; persino Corsi, allegro per natura ed espansivo, diveniva
anch'esso taciturno ed uggito; spirava un'aria di musoneria in casa sua che
agghiacciava tutto. Si lasciavano di buon'ora, Lina porgeva appena la mano:
qualche volta non compariva che un momento per dare la buona notte.
Il povero Donati non sapeva darsi
pace. Si sentiva colpevole, ma la colpa maggiore era stata quella di esagerare
il male che aveva fatto, colla sua aria di reo; e chiamava in aiuto tutti i
santi, perché gli dessero il coraggio di prendere una buona volta la Lina a
quattro occhi e dirle: - Orsù, infine, cos'avete? cosa è stato? cosa ho fatto?
- Ma quella domanda semplicissima diveniva la cosa più difficile di questo
mondo. Il nuovo contegno di lei, la sua riservatezza, la sua freddezza
insolita, la rendevano tutt'altra donna, una donna che gli chiudeva in bocca le
perorazioni più eloquenti, e gli legava la lingua e i movimenti.
Una di quelle sere, voltandosi
all'improvviso, sorprese gli occhi di Lina, fissi su di lui con tale
espressione che gli fece rimescolare il sangue dai piedi alla testa; era uno
sguardo che non le avea mai visto, profondo, in cui brillava dell'amarezza, una
curiosità insolita, acre e pungente. Lina avvampò in viso e chinò il capo; ei
non osò più voltarsi per timore d'incontrare un'altra volta quegli occhi
indiavolati.
Finalmente, una volta che Corsi
non c'era, gli parve ad un tratto sentirsi invadere dal coraggio che avea tanto
invocato. Lina era immersa a capo fitto in quel che stava leggendo, e non
fiatava da un gran pezzo; ei si alzò, fece un passo verso di lei, e balbettò:
- Lina! -
Ella si rizzò, spaventata da
quella sola parola, pallida come un cencio e tutta tremante. Donati rimase a
bocca aperta e non seppe andare innanzi. Rimasero alcuni istanti così. Ella si
rimise per la prima; prese il ricamo che aveva accanto, ma le mani le tremavano
ancora talmente che l'ago punzecchiava stoffa. Egli si arrovellava dentro di sé
d'essere così grullo. - Cosa avete? - disse infine. - Siete in collera con me?
Non mi perdonerete mai? -
La donna alzò il capo, sgomenta,
e lo guardò come esterrefatta. Chinò la fronte di nuovo e balbettò con voce
spenta e mal ferma alcune parole inintelligibili.
A poco a poco Donati diradò le
sue visite. Corsi gli si mostrava sempre più freddo. Quando i due antichi amici
si trovavano insieme, provavano, senza saper perché, un imbarazzo
inesplicabile. La freddezza di entrambi si comunicava e si moltiplicava
dall'uno all'altro. Corsi avea tutto indovinato dal nuovo contegno della moglie
e dell'amico, oppure Lina gli avea tutto raccontato? L'ultima volta che Donati
andò da lei, pel suo onomastico, la trovò che era sola in casa. Lina si fece di
bracia e represse a stento un movimento di sorpresa. Donati non sapeva trovare
il verso del pelo del suo cappello, né le prime frasi di un discorso che
andasse.
Ella stava sul canapè, in gran
cerimonia, sì da far venire la voglia al disgraziato visitatore d'andarsene
dalla finestra. La visita durò dieci minuti. Mentre scendeva le scale
l'ex-Polluce mormorava con voce soffocata nella gola: - È finita! è finita! -
D'allora in poi non ebbe più il
coraggio di picchiare a quell'uscio. Veniva a casa mogio mogio, il più tardi
che poteva, guardando furtivamente quella finestra rischiarata che gli
rammentava le sere gioconde passate accanto al fuoco, col cuore e i piedi
caldi, e affrettava il passo sul ripiano della scala. Giammai le sue modeste
stanzucce non gli erano sembrate più silenziose, più fredde, e più
melanconiche; adesso il povero romito ci stava il meno che potesse. Stando
fuori, fece come aveva fatto Corsi, conobbe un'altra Lina.
Venuto il settembre, Corsi avea
sloggiato senza nemmen dirgli addio, e non s'erano più visti. Lina era stata
inferma, e gravemente: Donati l'aveva saputo molto tempo dopo. Gli avevano
detto che la malattia l'avea cambiata di molto; ei ci aveva pensato spesso,
avea avuto spesso dinanzi agli occhi quel profilo delicato e pallido, e quegli
occhi febbrili, come una trafitta, come un rimorso; ma non avrebbe immaginato
mai l'impressione che dovevano fare su di lui quel viso e quell'occhiata
furtiva la prima volta che, andando colla sua fidanzata, incontrò Lina. - Ella
s'era voltata a guardarlo di nascosto, come si guarda un mostro o un
malfattore.
Intanto era trascorso l'anno, ed
era sopravvenuta la festa di Sant'Agata. Donati doveva sposare da lì a poco.
Egli aspettava in mezzo alla folla una 'ntuppatedda che quasi gli aveva
promesso di farsi vedere un momento quando si sentì afferrare all'improvviso
pel braccio. Gettò una rapida occhiata sulla donna mascherata, ma la sua
fidanzata era più piccola di statura e non aveva quell'occhio nero così
sfavillante. Ei sentì che il cuore dava un tuffo; non seppe cosa dire, e si
lasciò rimorchiare dentro il caffè.
La sua compagna cercò un tavolino
appartato e sedette di faccia a lui; sembrava stanca e commossa fuor di modo.
Ei la considerava ansiosamente. - Lina! - esclamò infine.
- Ah! - diss'ella con un riso che
voleva dir tante cose; e appoggiò la fronte incappucciata sulla mano.
Donati balbettava parole senza
senso.
- Vi sorprende vedermi qui? -
domandò Lina dopo un lungo silenzio.
- Voi?
- Vi sorprende? -
Donati chinò il capo. Ella lasciò
scivolare il manto sulle spalle, e mormorò: - Vedete!
- Mio Dio! - esclamò Donati.
- Vi faccio pietà? Oh, almeno! Ma
non è colpa vostra, no!... Ho avuto sempre una salute cagionevole. State
tranquillo dunque... Non vorrei avvelenare la vostra luna di miele.
- Oh, cosa dite mai!... Se
sapeste... se sapeste quanto ho sofferto!...
- Voi?
- Sì!... e quanto mi sono
pentito!...
- Ah! vi siete pentito!
- Non so darmi pace!... Non so
comprendere io stesso perché... cosa sia avvenuto per...
- Non lo sapete?
- No, per l'anima mia!
- È accaduto... che vi ho amato.
- Voi! voi! -
Ella si fece ancora più pallida;
si rizzò in piedi quasi fosse spinta da una molla, e gli disse con voce sorda:
- Perché mi avete raccontato quel
sogno dunque? -
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