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Giovanni Verga
Primavera e altri racconti

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  • Le storie del castello di Trezza.
    • III.
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III.

 

Donna Isabella passò la giornata ad esaminare minutamente tutte le stanze, anditi, e corridoi vicini alla sua camera, e don Garzia le chiese inutilmente il motivo della sua preoccupazione. La notte dormì poco e agitata, ma non udì nulla; soltanto il vento che s'era levato verso l'alba faceva sbattere una delle finestre che davano sul ballatoio.

L'indomani la baronessa era ancora in letto, quando da dietro il cortinaggio udì il seguente dialogo fra suo marito e il Rosso che l'aiutava a calzare i grossi stivaloni:

- Dimmi un po', mariuolo, cos'è stato tutto questo baccano che hanno fatto le mie finestre stanotte? -

Il Rosso si grattò il capo e rispose:

- È stato che un'ora prima dell'alba si è messo a soffiare lo scirocco.

- Sarà benissimo, ma se le finestre fossero state ben chiuse, lo scirocco non avrebbe potuto farle ballare come una ragazza che abbia il male di San Vito. Ora bada bene al tuo dovere, marrano! ché nel castello intendo tutto vada come l'orologio che è sul campanile della chiesa, adesso che son qua io.

 

- Messere, voi siete il padrone, - rispose il Rosso esitando, - ma quella finestra bisogna lasciarla aperta.

- Dimmi il perché.

- Perché quando si chiude la finestra si sente...

- Eh?

- Si sente, messere!

- Malannaggia l'anima tua! - urlò il barone dando di piglio ad uno stivale per buttarglielo in faccia.

- Messere, voi potete ammazzarmi, se volete, ma ho detto la verità.

- Chi te l'ha soffiata cotesta verità, briccone maledetto?

- Ho visto e udito come vedo ed odo voi, che siete in collera per mia disgrazia e senza mia colpa.

- Tu?

- Io stesso.

- Tu mi rubi il vino della mia cantina, scampaforche!

- Io non avevo bevutoacquavino, messere.

- Tu mi diventi poltrone, dunque! un gatto che fa all'amore ti fa paura. Diventi vecchio, Rosso mio, arnese da ferravecchi, e ti butterò fuori del castello con un calcio più sotto delle reni.

- Messere, io sono buono ancora a qualche cosa, quando mi metterete in faccia a una dozzina di diavoli in carne e ossa, che possano raggiungersi con un buon colpo di partigiana, o che possano ammazzare me come un cane; ma contro un nemico il quale non ha né carneossa, e vi rompe il ferro nelle mani come voi fareste di un fil di paglia, per l'anima che darei al primo cane che la volesse! non so cosa potreste fare voi stesso, sebbene siate tenuto il più indiavolato barone di Sicilia -.

Il barone questa volta si grattò il capo, e si accigliò, ma senza collera, o almeno senza averla col Rosso. - Orbè, - gli disse, - chiudimi bene tutte le finestre stanotte, e vattene a dormire senza pensare ad altro -.

Donna Isabella si levò pallida e silenziosa più del solito.

- Avreste paura? - domandò don Garzia.

- Io non ho paura di nulla! - rispose secco secco la baronessa.

Ma la notte non poté chiudere occhio, e mentre suo marito russava come un contrabasso ella si voltava e rivoltava pel letto, e ad un tratto scuotendolo bruscamente pel braccio, e rizzandosi a sedere cogli occhi sbarrati e pallida in viso: - Ascoltate! - gli disse.

Don Garzia spalancò gli occhi anche lui, e vedendola così, si rizzò a sedere sul letto e mise mano alla spada.

- No! - diss'ella, - la vostra spada non vi servirà a nulla.

- Cosa avete udito?

- Ascoltate!

Entrambi rimasero immobili, zitti, intenti; alfine don Garzia buttò la spada con dispetto in mezzo alla camera e si ricoricò sacramentando.

- Mi diventate matta anche voi! - borbottò. - Quella canaglia del Rosso vi ha fatto girare il capo! gli taglierò le orecchie a quel mariuolo.

- Zitto! - esclamò la donna nuovamente, e questa volta con tal voce, con tali occhi, che il barone non osò replicare motto. - Udiste?

- Nulla! per l'anima mia! -

Ad un tratto si rizzò a sedere una seconda volta, se non pallido e turbato come la sua donna, almeno curioso ed attento, e cominciò a vestirsi; mentre infilava gli stivali trasalì vivamente.

- Udite! - ripeté donna Isabella facendosi la croce.

Egli attaccò una grossa bestemmia invece della croce; saltò sulla spada che avea gettato in mezzo alla camera, e così com'era, mezzo svestito, colla spada nuda in pugno, al buio, si slanciò nell'andito che era dietro all'alcova.

Ritornò poco dopo. - Nulla! - disse, - le finestre son chiuse, ho percorso il corridoio, l'andito, lo spogliatoio; siamo matti voi ed io; lasciatemi dormire in pace adesso, giacché se domani il Rosso venisse a sapere quel che ho fatto stanotte, e sino a qual segno sia stato imbecille, dovrei vergognarmi anche di lui -.

Né si udì più nulla; la baronessa rimase sveglia, e don Garzia, sebbene avesse attaccato di nuovo due o tre russate sonore, non poté dormire di seguito come al solito; all'alba si alzò con tal cera che il Rosso, spicciatosi alla svelta dei soliti servigi, stava per battersela.

- Chiamami Bruno - gli disse il barone, e ricominciò a passeggiar per la camera, mentre la baronessa stava pettinandosi. Donna Isabella, preoccupata, lo seguiva colla coda dell'occhio, e lo vide andare per l'andito, l'udì camminare nello spogliatoio; poi lo vide ritornare scuotendo il capo, e mormorando fra di sé: - No! è impossibile!... -

Bruno e il Rosso comparvero.

- Vecchio mio, - gli disse il barone, - ti senti di buscarti un bel ducato d'oro, e passare una notte nel corridoio qui accanto, senza tremare come la rocca di una donnicciuola cui si parli di spiriti?

- Messere, io mi sento di far tutto quel che comandate - rispose Bruno, ma non senza alquanto esitare.

Il barone che conosceva da un pezzo il suo Bruno per un bravaccio indurito a tutte le prove, fu sorpreso da quell'esitazione, e dallo scorgere che il Bruno, contro ogni aspettativa, s'era fatto serio.

- Per l'inferno! - gridò battendo un gran pugno sulla tavola, - mi diventate tutti un branco di poltroni qui!

- Messere, per provarvi come poltroni non lo siamo tutti, farò quel che mi ordinerete.

- E anch'io. - rispose il Rosso, vergognoso di non esser messo alla prova invece del capocaccia. - Così, non avrete più a dubitare delle parole nostre.

- Orbene! giacché tutti avete visto, giacché tutti avete udito, giacché tutti avete toccato con mano, fatemi buona guardia stanotte, appostatevi sul cammino che suol tenere cotesto gaglioffo che ha messo la tremarella addosso a tutta la mia gente. Da qual parte si suol vedere questo fantasma?

- Nel corridoio qui accanto, di solito... Ma nessuno ha più visto nulla dacché quest'ala del castello non è stata più abitata...

- Tu, Bruno, ti porrai a guardia dietro l'uscio che mette nella sala grande, e il Rosso dietro la finestra, in capo al corridoio. Allorché cotesto spirito malnato sarà dentro, e voi avrete accanto le vostre brave daghe, e non vi tremerà né la mano né il cuore, il ribaldo non potrà scappare altro che dalla mia camera... e allora, pel mio Dio o pel suo Diavolo! l'avrà da fare con me. Andate, e buona guardia!

- Io credo che fareste meglio ad ordinare delle messe per l'anima della vostra donna Violante - gli disse la baronessa seria seria, allorquando furono soli.

Il barone fu sul punto di mettersi in collera, ma seppe padroneggiarsi, e rispose in aria di scherno:

- Da quando in qua mi siete divenuta credula come una femminuccia, moglie mia?

- Dacché vedo ed odo cose che non ho mai uditeviste.

- Cos'avete udito, di grazia?

- Quel che avete udito voi! - ribatté essa senza scomporsi.

Don Garzia s'accigliò.

- Io non ho uditovisto nulla - esclamò dispettosamente.

- Ed io ho visto voi come vi vedo in questo momento, e come sareste sorpreso voi stesso di vedervi se lo poteste!

- Ah! - esclamò il barone con un riso che mostrava i suoi denti bianchi ed aguzzi al pari di quelli di un lupo, - è che mi avete fatto girare il capo anche a me, ed ho paura anch'io!

- Credete che io abbia paura, messere? -

Il messere non rispose e andò a mettersi alla finestra di un umore più nero delle grosse nuvole che s'accavallavano sull'orizzonte.

 

 




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