VII.
Don Garzia d'Arvelo era diventato
inaspettatamente, a cinquant'anni, signore dei numerosi feudi che dipendevano
dalla baronia di Trezza; il barone suo nipote era stato trovato in un burrone,
lungo stecchito, un bel dì, o una brutta notte, che era andato a caccia di non
so qual selvaggina. Il cavaliere d'Arvelo, ora che era barone, fece impiccare
preliminarmente due o tre vassalli i quali avevano la disgrazia di possedere
bella selvaggina in casa, e la triste riputazione di tenere all'onore come
altrettanti gentiluomini; poi era montato a cavallo, e siccome sospettavasi anche
che il signore di Grevie avesse saldato in quel tal modo spicciativo alcuni
vecchi conti di famiglia, era andato ad aspettarlo ad un certo crocicchio, e
senza stare a sofisticare sulla probabilità del si dice, aveva messo il
saldo alla partita.
Soddisfatti così i suoi obblighi
di d'Arvelo e di signore non uso a farsi posare mosca sul naso, era andato ad
assidersi tranquillamente sul seggio baronale, avea appeso la spada al chiodo
del suo antecessore, e, tanto per farsi la mano da padrone, avea fatto sentire
come la sua fosse di ferro a tutti quei poveri diavoli che stavano nei limiti
della sua giurisdizione, ed anche delle sue scorrerie, ché un po' del predone
gli era rimasto colle vecchie abitudini di cavalier di ventura. Tutti coloro
che nel requiem ordinato in suffragio del giovane barone avevano
innestato sottovoce certi mottetti che non erano nella liturgia, ebbero a
pentirsene, e dovettero ripetere, senza che sapessero di storia, il detto della
vecchia di Nerone. Lupo per lupo, il vecchio che succedeva al giovane mostrava
tali ganasce e tale appetito, che al paragone il lupacchiotto morto diventava
un agnellino. Il cavaliere, cadetto di grande famiglia, era stato tanto tempo
ad aguzzarsi le zanne e ad ustolare attorno a tutto quel ben di Dio in cui
sguazzava il nipote, capo della casa e suo signore e padrone, che malgrado le
scorrerie di tutti i generi, sulle quali il fratello e poscia il nipote avevano
chiuso un occhio, si poteva dire di lui che fosse affamato da cinquant'anni;
sicché era naturalissimo che allorquando poté darsi una buona satolla di tutti
gli intingoli del potere più sfrenato, lo fece da ghiottone, il quale abbia
stomaco di struzzo.
Del resto il Re, suo signore dopo
Dio, era lontano, e i d'Arvelo erano d'illustre famiglia, grandi di Spagna, di
quelli che non si sberrettano né dinanzi al Re, né dinanzi a Dio, titolari di
diverse cariche a Corte, baroni ricchi e potenti, un po' alleati della mano
sinistra coi Barbareschi, di quei mastini insomma che andavano lisciati pel
verso del pelo. Don Garzia andò a Corte; si batté con un gentiluomo che osò
ridere dei suoi baffi irsuti e dei suoi galloni consunti, e gli mise tre
pollici di ferro fra le costole, prestò il suo omaggio di sudditanza al Re, il
quale lo invitò alla sua tavola, e fra il caciocavallo e i fichi secchi gli
disse, che poiché la famiglia d'Arvelo non avea altri successori, il suo buon
piacere era che don Garzia sposasse una damigella Castilla, la quale attendeva
marito nel Monastero di Monte Vergine. Don Garzia, buon suddito e buon capo di
grande famiglia, sposò la damigella senza farselo dir due volte, e senza
vederla una volta sola prima di condurla all'altare, ma dopo aver ben guardato
nelle pergamene della famiglia della sposa e nei quattro quarti del suo
blasone; la mise in una lettiga nuova, con buona mano d'uomini d'arme e di
cagnotti davanti, ai lati, e dietro; montò il suo cavallo pugliese, e se la
menò a Trezza.
La sera dell'arrivo degli sposi
si fecero gran luminarie al castello, nel villaggio, e nei dintorni, la campana
della chiesuola suonò sino a creparne, si ballò tutta la notte sulla spiaggia,
e del vino del Bosco e di Terreforti delle cantine del barone ne bevve persino
il mare. Nondimeno, allorché la sposa fu entrata in quella cameraccia scura e
triste, in fondo all'alcova immensa della quale ergevasi come un catafalco il
talamo nuziale, non poté vincere un senso di ripugnanza e quasi di paura, e
domandò al marito:
- Come va, mio signore, che
essendo voi tanto ricco, avete una sì brutta cameraccia? -
Don Garzia, il quale ricordavasi
di dover essere galante pel quarto d'ora, rispose:
- La camera sarà bella ora che ci
starete voi, madonna -.
Però la prima volta che donna
Violante si svegliò in quella brutta cameraccia, e al fianco di quel brutto
sire, dovette essere un gran brutto svegliarsi. Ma ell'era damigella di buona
famiglia, bene educata all'obbedienza passiva, fiera soltanto del nome della
sua casa e di quello che le era stato dato in tutela; era stata strappata
bruscamente alla calma del suo convento, ai tranquilli diletti, ai sogni
vagamente turbati della sua giovinezza, ad un romanzetto appena abbozzato, ed
era stata gettata, - ella che avea sangue di re nelle vene, - nell'alcova di
quel marrano, cui per caso era caduto in capo un berretto di barone: ella avea
accettato quel marrano, perché il Re, il capo della sua famiglia, le leggi
della sua casta glielo imponevano, e avea soffocato la sua ripugnanza, allorché
la mano nera e callosa di quel vecchio s'era posata sulle sue spalle bianche e
superbe, perché era suo marito: dolce e gentile com'era, cercava a furia di
dolci e gentili maniere raddolcire quel vecchio lupo che le ringhiava accanto,
e le mostrava i denti aguzzi allorché voleva sembrare amabile. Però quello non
era tal lupo cui l'acqua santa del matrimonio potesse far cambiare il pelo; e
quanto a vizi avea tutti quelli che s'incontrano sulla strada di un soldato di
ventura, dietro le insegne delle bettole. Per giunta, e per disgrazia, donna
Violante dopo due anni di matrimonio non solo non avea messo al mondo il dito
mignolo d'un baroncino, ma non avea nemmen l'aria di darsene per intesa, e
d'aver capito il motivo per cui don Garzia s'era tolto in casa la noia e la
spesa di una moglie.
Quella moglie delicata,
linfatica, colle mani bianche, che gli parlava a voce bassa, che arrossiva alle
sue canzonette allegre ed alle sue esclamazioni gioviali, che scappava
spaventata allorché il sire era in buon umore, che non gli sapeva condire i
suoi intingoli prediletti, e che non era stata buona nemmeno a dargli un successore,
gli faceva l'effetto d'un ninnolo di lusso, da tenersi sotto chiave come i
diamanti di famiglia; perciò, lungi di smettere le sue abitudini di
lanzichenecco, ci s'era lasciato andare allegramente, senza prendersi nemmeno
la pena di nasconderlo alla moglie, la quale era così timida, e tremava
talmente, allorché ei si metteva in collera alla menoma osservazione, da
sembrargli stupida. Cacciava, beveva, correva pei tetti e scavalcava le siepi,
e quando ritornava ubbriaco, o di cattivo umore, guai alle mosche che si
permettevano di ronzare!
Un'ultima scappata di don Garzia
però avea fatto tale scandalo, che andò a colpire nel vivo quella vittima
rassegnata. La fierezza di patrizia, l'amor proprio di donna, la gelosia di
moglie, si ribellarono alfine in donna Violante, e le diedero per la prima
volta un'energia fittizia.
- Mio signore, - dissegli con
voce tremante, ma senza chinare gli occhi dinanzi al brusco cipiglio del
marito, - rimandatemi al convento dal quale m'avete tolta, poiché sono tanto
scaduta dalla vostra stima!
- Che vuol dir ciò? - borbottò
don Garzia, - e chi vi ha detto di esser scaduta?
- Come va dunque, che vi
rispettiate così poco voi stesso, da scendere sino alla Mena? -
Il barone stava per attaccare una
mezza dozzina di quei sacrati che facevan tremare il castello sino dalle
fondamenta, ma si contentò di sghignazzar forte:
- Da quando in qua, madonna, al
castello di Trezza le galline si permettono di alzar la cresta? Badate a
covarmi dei baroni, piuttosto, com'è vostro dovere, e lasciatemi cantar
mattutino e compieta secondo il mio buon piacere -.
La baronessa l'indomani s'era
levata pallida e sofferente, ma cogli occhi luccicanti di un insolito
splendore; sembrava rassegnata, ma di una rassegnazione cupa, meditabonda,
lampeggiante di tratto in tratto la ribellione e la vendetta; quel marito
istesso così rozzo, così brutale, fu una volta sorpreso e impensierito
dell'aria indefinibile ed insolita di quella donna che posava il capo sul suo
medesimo guanciale, quantunque un sol muscolo della fisionomia di lei non si
movesse, e volle mostrarle che le avea perdonato la sua velleità di resistenza
con un bacio avvinazzato. - Ella non lo respinse, non si mosse, rimase cogli
occhi chiusi, le labbra scolorite e serrate, le guance pallide e ombreggiate
dalla lunga frangia delle sue ciglia: soltanto una lagrima ardente luccicò un
momento fra quelle ciglia, e scese lenta lenta.
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