Il focolare domestico era sempre
ai miei occhi una figura rettorica, buona per incorniciarvi gli affetti più
miti e sereni, come il raggio di luna per baciare le chiome bionde; ma
sorridevo allorquando sentivo dirmi che il fuoco del camino è quasi un amico.
Sembravami in verità un amico troppo necessario, a volte uggioso e dispotico,
che a poco a poco avrebbe voluto prendervi per le mani o per i piedi, e tirarvi
dentro il suo antro affumicato, per baciarvi alla maniera di Giuda. Non
conoscevo il passatempo di stuzzicare la legna, né la voluttà di sentirsi
inondare dal riverbero della fiamma; non comprendevo il linguaggio del
cepperello che scoppietta dispettoso, o brontola fiammeggiando; non avevo
l'occhio assuefatto ai bizzarri disegni delle scintille correnti come lucciole
sui tizzoni anneriti, alle fantastiche figure che assume la legna
carbonizzandosi, alle mille gradazioni di chiaroscuro della fiamma azzurra e
rossa che lambisce quasi timida, accarezza graziosamente, per divampare con
sfacciata petulanza. Quando mi fui iniziato ai misteri delle molle e del
soffietto, m'innamorai con trasporto della voluttuosa pigrizia del caminetto.
Io lascio il mio corpo su quella poltroncina, accanto al fuoco, come vi
lascierei un abito, abbandonando alla fiamma la cura di far circolare più caldo
il mio sangue e di far battere più rapido il mio cuore; e incaricando le
faville fuggenti, che folleggiano come farfalle innamorate, di farmi tenere gli
occhi aperti, e di far errare capricciosamente del pari i miei pensieri.
Cotesto spettacolo del proprio pensiero che svolazza vagabondo intorno a voi,
che vi lascia per correre lontano, e per gettarvi a vostra insaputa quasi dei
soffi di dolce e d'amaro in cuore, ha attrattive indefinibili. Col sigaro
semispento, cogli occhi socchiusi, le molle fuggendovi dalle dita allentate,
vedete l'altra parte di voi andar lontano, percorrere vertiginose distanze: vi
par di sentirvi passar per i nervi correnti di atmosfere sconosciute: provate,
sorridendo, senza muovere un dito o fare un passo, l'effetto di mille
sensazioni che farebbero incanutire i vostri capelli, e solcherebbero di rughe
la vostra fronte.
E in una di coteste
peregrinazioni vagabonde dello spirito, la fiamma che scoppiettava, troppo
vicina forse, mi fece rivedere un'altra fiamma gigantesca che avevo visto
ardere nell'immenso focolare della fattoria del Pino, alle falde dell'Etna.
Pioveva, e il vento urlava incollerito; le venti o trenta donne che
raccoglievano le olive del podere, facevano fumare le loro vesti bagnate dalla
pioggia dinanzi al fuoco; le allegre, quelle che avevano dei soldi in tasca, o
quelle che erano innamorate, cantavano; le altre ciarlavano della raccolta
delle olive, che era stata cattiva, dei matrimoni della parrocchia, o della
pioggia che rubava loro il pane di bocca. La vecchia castalda filava, tanto
perché la lucerna appesa alla cappa del focolare non ardesse per nulla; il
grosso cane color di lupo allungava il muso sulle zampe verso il fuoco,
rizzando le orecchie ad ogni diverso ululato del vento. Poi, nel tempo che
cuocevasi la minestra, il pecoraio si mise a suonare certa arietta montanina
che pizzicava le gambe, e le ragazze incominciarono a saltare sull'ammattonato
sconnesso della vasta cucina affumicata, mentre il cane brontolava per paura
che gli pestassero la coda. I cenci svolazzavano allegramente, e le fave
ballavano anch'esse nella pentola, borbottando in mezzo alla schiuma che faceva
sbuffare la fiamma. Quando le ragazze furono stanche, venne la volta delle canzonette:
- Nedda! Nedda la varannisa! - sclamarono parecchie. - Dove s'é cacciata
la varannisa?
- Son qua - rispose una voce
breve dall'angolo più buio, dove s'era accoccolata una ragazza su di un fascio
di legna.
- O che fai tu costà?
- Nulla.
- Perché non hai ballato?
- Perché son stanca.
- Cantaci una delle tue belle
canzonette.
- No, non voglio cantare.
- Che hai?
- Nulla.
- Ha la mamma che sta per morire,
- rispose una delle sue compagne, come se avesse detto che aveva male ai denti.
La ragazza, che teneva il mento
sui ginocchi, alzò su quella che aveva parlato certi occhioni neri,
scintillanti, ma asciutti, quasi impassibili, e tornò a chinarli, senza aprir
bocca, sui suoi piedi nudi.
Allora due o tre si volsero verso
di lei, mentre le altre si sbandavano ciarlando tutte in una volta come gazze
che festeggiano il lauto pascolo, e le dissero: - O allora perché hai lasciato
tua madre?
- Per trovar del lavoro.
- Di dove sei?
- Di Viagrande, ma sto a Ravanusa
-.
Una delle spiritose, la
figlioccia del castaldo, che doveva sposare il terzo figlio di massaro Jacopo a
Pasqua, e aveva una bella crocetta d'oro al collo, le disse volgendole le
spalle: - Eh! non è lontano! la cattiva nuova dovrebbe recartela proprio
l'uccello -.
Nedda le lanciò dietro
un'occhiata simile a quella che il cane accovacciato dinanzi al fuoco lanciava
agli zoccoli che minacciavano la sua coda.
- No! lo zio Giovanni sarebbe
venuto a chiamarmi! - esclamò come rispondendo a se stessa.
- Chi è lo zio Giovanni?
- È lo zio Giovanni di Ravanusa; lo
chiamano tutti così.
- Bisognava farsi imprestare
qualche cosa dallo zio Giovanni, e non lasciare tua madre, - disse un'altra.
- Lo zio Giovanni non è ricco, e
gli dobbiamo diggià dieci lire! E il medico? e le medicine? e il pane di ogni
giorno? Ah! si fa presto a dire! - aggiunse Nedda scrollando la testa, e
lasciando trapelare per la prima volta un'intonazione più dolente nella voce
rude e quasi selvaggia: - ma a veder tramontare il sole dall'uscio, pensando
che non c'è pane nell'armadio, né olio nella lucerna, né lavoro per l'indomani,
la è una cosa assai amara, quando si ha una povera vecchia inferma, là su quel
lettuccio! -
E scuoteva sempre il capo dopo
aver taciuto, senza guardar nessuno, con occhi aridi, asciutti, che tradivano
tale inconscio dolore, quale gli occhi più abituati alle lagrime non saprebbero
esprimere.
- Le vostre scodelle, ragazze! -
gridò la castalda scoperchiando la pentola in aria trionfale.
Tutte si affollarono attorno al
focolare, ove la castalda distribuiva con paziente parsimonia le mestolate di
fave. Nedda aspettava ultima, colla sua scodelletta sotto il braccio.
Finalmente ci fu posto anche per lei, e la fiamma l'illuminò tutta.
Era una ragazza bruna, vestita
miseramente; aveva quell'attitudine timida e ruvida che danno la miseria e
l'isolamento. Forse sarebbe stata bella, se gli stenti e le fatiche non ne
avessero alterato profondamente non solo le sembianze gentili della donna, ma
direi anche la forma umana. I suoi capelli erano neri, folti, arruffati, appena
annodati con dello spago; aveva denti bianchi come avorio, e una certa
grossolana avvenenza di lineamenti che rendeva attraente il suo sorriso. Gli
occhi erano neri, grandi, nuotanti in un fluido azzurrino, quali li avrebbe
invidiati una regina a quella povera figliuola raggomitolata sull'ultimo
gradino della scala umana, se non fossero stati offuscati dall'ombrosa
timidezza della miseria, o non fossero sembrati stupidi per una triste e
continua rassegnazione. Le sue membra schiacciate da pesi enormi, o sviluppate
violentemente da sforzi penosi, erano diventate grossolane, senza esser
robuste. Ella faceva da manovale, quando non aveva da trasportare sassi nei
terreni che si andavano dissodando; o portava dei carichi in città per conto
altrui, o faceva di quegli altri lavori più duri che da quelle parti stimansi
inferiori al còmpito dell'uomo. La vendemmia, la messe, la raccolta delle olive
per lei erano delle feste, dei giorni di baldoria, un passatempo, anziché una
fatica. È vero bensì che fruttavano appena la metà di una buona giornata estiva
da manovale, la quale dava 13 bravi soldi! I cenci sovrapposti in forma di
vesti rendevano grottesca quella che avrebbe dovuto essere la delicata bellezza
muliebre. L'immaginazione più vivace non avrebbe potuto figurarsi che quelle
mani costrette ad un'aspra fatica di tutti i giorni, a raspar fra il gelo, o la
terra bruciante, o i rovi e i crepacci, che quei piedi abituati ad andar nudi
nella neve e sulle rocce infuocate dal sole, a lacerarsi sulle spine, o ad
indurirsi sui sassi, avrebbero potuto esser belli. Nessuno avrebbe potuto dire
quanti anni avesse cotesta creatura umana; la miseria l'aveva schiacciata da
bambina con tutti gli stenti che deformano e induriscono il corpo, l'anima e
l'intelligenza. - Così era stato di sua madre, così di sua nonna, così sarebbe
stato di sua figlia. - E dei suoi fratelli in Eva bastava che le rimanesse quel
tanto che occorreva per comprenderne gli ordini, e per prestar loro i più
umili, i più duri servigi.
Nedda sporse la sua scodella, e
la castalda ci versò quello che rimaneva di fave nella pentola, e non era
molto.
- Perché vieni sempre l'ultima?
Non sai che gli ultimi hanno quel che avanza? - le disse a mo' di compenso la
castalda.
La povera ragazza chinò gli occhi
sulla broda nera che fumava nella sua scodella, come se meritasse il
rimprovero, e andò pian pianino perché il contenuto non si versasse.
- Io te ne darei volentieri delle
mie, - disse a Nedda una delle sue compagne che aveva miglior cuore; - ma se
domani continuasse a piovere... davvero!... oltre a perdere la mia giornata non
vorrei anche mangiare tutto il mio pane.
- Io non ho questo timore! -
rispose Nedda con un triste sorriso.
- Perché?
- Perché non ho pane di mio. Quel
po' che ci avevo, insieme a quei pochi quattrini, li ho lasciati alla mamma.
- E vivi della sola minestra?
- Sì, ci sono avvezza; - rispose
Nedda semplicemente.
- Maledetto tempaccio, che ci
ruba la nostra giornata! - imprecò un'altra.
- To', prendi dalla mia scodella.
- Non ho più fame; - rispose la varannisa
ruvidamente, a mo' di ringraziamento.
- Tu che bestemmi la pioggia del
buon Dio, non mangi forse del pane anche tu? - disse la castalda a colei che
aveva imprecato contro il cattivo tempo. - E non sai che pioggia d'autunno vuol
dire buon anno? -
Un mormorio generale approvò
quelle parole.
- Sì, ma intanto son tre buone
mezze giornate che vostro marito toglierà dal conto della settimana! -
Altro mormorio d'approvazione.
- Hai forse lavorato in queste
tre mezze, perché ti s'abbiano a pagare? - rispose trionfalmente la vecchia.
- È vero! è vero! - risposero le
altre, con quel sentimento istintivo di giustizia che c'è nelle masse, anche
quando questa giustizia danneggia gli individui.
La castalda intuonò il rosario,
le avemarie si seguirono col loro monotono brontolio, accompagnate da qualche
sbadiglio. Dopo le litanie si pregò per i vivi e per i morti, e allora gli
occhi della povera Nedda si riempirono di lagrime, e dimenticò di rispondere amen.
- Che modo è cotesto di non
rispondere amen? - le disse la vecchia in tuono severo.
- Pensava alla mia povera mamma
che è tanto lontana; - balbettò Nedda timidamente.
Poi la castalda diede la santa
notte, prese la lucerna e andò via. Qua e là, per la cucina o attorno al
fuoco, s'improvvisarono i giacigli in forme pittoresche. Le ultime fiamme
gettarono vacillanti chiaroscuri sui gruppi e su gli atteggiamenti diversi. Era
una buona fattoria quella, e il padrone non risparmiava, come tant'altri, fave
per la minestra, né legna pel focolare, né strame pei giacigli. Le donne
dormivano in cucina, e gli uomini nel fienile.
Dove poi il padrone è avaro, o la
fattoria è piccola, uomini e donne dormono alla rinfusa, come meglio possono,
nella stalla, o altrove, sulla paglia o su pochi cenci, i figliuoli accanto ai
genitori, e quando il genitore è ricco, e ha una coperta di suo, la distende
sulla sua famigliuola; chi ha freddo si addossa al vicino, o mette i piedi
nella cenere calda, o si copre di paglia, s'ingegna come può; dopo un giorno di
fatica, e per ricominciare un altro giorno di fatica, il sonno è profondo, al
pari di un despota benefico, e la moralità del padrone non è permalosa che per
negare il lavoro alla ragazza la quale, essendo prossima a divenir madre, non
potesse compiere le sue dieci ore di fatica.
Prima di giorno le più mattiniere
erano uscite per vedere che tempo facesse, e l'uscio che sbatteva ad ogni
momento sugli stipiti, spingeva turbini di pioggia e di vento freddissimo su
quelli che intirizziti dormivano ancora. Ai primi albori il castaldo era venuto
a spalancare l'uscio, per svegliare i pigri, giacché non è giusto defraudare il
padrone di un minuto della giornata lunga dieci ore, che gli paga il suo bravo tarì,
e qualche volta anche tre carlini (sessantacinque centesimi!) oltre la
minestra.
- Piove! - era la parola uggiosa
che correva su tutte le bocche, con accento di malumore. La Nedda, appoggiata
all'uscio, guardava tristemente i grossi nuvoloni color di piombo che gettavano
su di lei le livide tinte del crepuscolo. La giornata era fredda e nebbiosa; le
foglie avvizzite si staccavano strisciando lungo i rami, e svolazzavano
alquanto prima di andare a cadere sulla terra fangosa, e il rigagnolo
s'impantanava in una pozzanghera, dove s'avvoltolavano voluttuosamente dei
maiali; le vacche mostravano il muso nero attraverso il cancello che chiudeva
la stalla, e guardavano la pioggia che cadeva con occhio malinconico; i
passeri, rannicchiati sotto le tegole della gronda, pigolavano in tono
piagnoloso.
- Ecco un'altra giornata andata a
male! - mormorò una delle ragazze, addentando un grosso pan nero.
- Le nuvole si distaccano dal
mare laggiù, - disse Nedda stendendo il braccio; - verso il mezzogiorno forse
il tempo cambierà.
- Però quel birbo del fattore non
ci pagherà che un terzo della giornata!
- Sarà tanto di guadagnato.
- Sì, ma il nostro pane che
mangiamo a tradimento?
- E il danno che avrà il padrone
delle olive che andranno a male, e di quelle che si perderanno fra la mota?
- È vero, - disse un'altra.
- Ma pròvati ad andare a
raccogliere una sola di quelle olive che andranno perdute fra mezz'ora, per
accompagnarla al tuo pane asciutto, e vedrai quel che ti darà di giunta il
fattore!
- È giusto, perché le olive non
sono nostre!
- Ma non sono nemmeno della terra
che se le mangia!
- La terra è del padrone, to'! -
replicò Nedda trionfante di logica, con certi occhi espressivi.
- È vero anche questo; - rispose
un'altra, la quale non sapeva che rispondere.
- Quanto a me preferirei che
continuasse a piovere tutto il giorno, piuttosto che stare una mezza giornata
carponi in mezzo al fango, con questo tempaccio, per tre o quattro soldi.
- A te non ti fanno nulla tre o
quattro soldi, non ti fanno! - esclamò Nedda tristemente.
La sera del sabato, quando fu
l'ora di aggiustare il conto della settimana, dinanzi alla tavola del fattore,
tutta carica di cartacce e di bei gruzzoletti di soldi, gli uomini più
turbolenti furono pagati i primi, poscia le più rissose delle donne, in ultimo,
e peggio, le timide e le deboli. Quando il fattore le ebbe fatto il suo conto,
Nedda venne a sapere che, detratte le due giornate e mezza di riposo forzato,
restava ad avere quaranta soldi.
La povera ragazza non osò aprir
bocca. Solo le si riempirono gli occhi di lagrime.
- E laméntati per giunta,
piagnucolona! - gridò il fattore, il quale gridava sempre, da fattore
coscienzioso che difende i soldi del padrone. - Dopo che ti pago come le altre,
e sì che sei più povera e più piccola delle altre! e ti pago la tua giornata
come nessun proprietario ne paga una simile in tutto il territorio di Pedara,
Nicolosi e Trecastagne! Tre carlini, oltre la minestra!
- Io non mi lamento... - disse
timidamente Nedda intascando quei pochi soldi che il fattore, ad aumentare il
valore, aveva conteggiato per grani. - La colpa è del tempo che è stato cattivo
e mi ha tolto quasi la metà di quel che avrei potuto buscarmi.
- Pigliatela col Signore! - disse
il fattore ruvidamente.
- Oh, non col Signore! ma con me
che son tanto povera!
- Pàgagli intiera la sua
settimana, a quella povera ragazza; - disse al fattore il figliuolo del
padrone, il quale assisteva alla raccolta delle olive. - Non sono che pochi
soldi di differenza.
- Non devo darle che quel ch'è
giusto!
- Ma se te lo dico io!
- Tutti i proprietari del
vicinato farebbero la guerra a voi e a me se facessimo delle novità.
- Hai ragione! - rispose il
figliuolo del padrone, il quale era un ricco proprietario, e aveva molti
vicini.
Nedda raccolse quei pochi cenci
che erano suoi, e disse addio alle compagne.
- Vai a Ravanusa a quest'ora? -
dissero alcune.
- La mamma sta male!
- Non hai paura?
- Sì, ho paura per questi soldi
che ho in tasca; ma la mamma sta male, e adesso che non son più costretta a
star qui a lavorare, mi sembra che non potrei dormire, se mi fermassi anche
stanotte.
- Vuoi che t'accompagni? - le
disse in tuono di scherzo il giovane pecoraio.
- Vado con Dio e con Maria -
disse semplicemente la povera ragazza, prendendo la via dei campi a capo chino.
Il sole era tramontato da qualche
tempo e le ombre salivano rapidamente verso la cima della montagna. Nedda
camminava sollecita, e quando le tenebre si fecero profonde, cominciò a cantare
come un uccelletto spaventato. Ogni dieci passi voltavasi indietro, paurosa, e
allorché un sasso, smosso dalla pioggia che era caduta, sdrucciolava dal
muricciolo, o il vento le spruzzava bruscamente addosso a guisa di gragnuola la
pioggia raccolta nelle foglie degli alberi, ella si fermava tutta tremante,
come una capretta sbrancata. Un assiolo la seguiva d'albero in albero col suo
canto lamentoso; ed ella, tutta lieta di quella compagnia, gli faceva il
richiamo, perché l'uccello non si stancasse di seguirla. Quando passava dinanzi
ad una cappelletta, accanto alla porta di qualche fattoria, si fermava un
istante nella viottola per dire in fretta un'avemaria, stando all'erta che non
le saltasse addosso dal muro di cinta il cane di guardia, che abbaiava
furiosamente; poi partiva di passo più lesto, rivolgendosi due o tre volte a
guardare il lumicino che ardeva in omaggio alla Santa, nello stesso tempo che
faceva lume al fattore, quando doveva tornar tardi dai campi.
Quel lumicino le dava coraggio, e
la faceva pregare per la sua povera mamma. Di tempo in tempo un pensiero
doloroso le stringeva il cuore con una fitta improvvisa, e allora si metteva a
correre, e cantava ad alta voce per stordirsi, o pensava ai giorni più allegri
della vendemmia, o alle sere d'estate, quando, con la più bella luna del mondo,
si tornava a stormi dalla Piana, dietro la cornamusa che suonava allegramente;
ma il suo pensiero correva sempre là, dinanzi al misero giaciglio della sua
inferma. Inciampò in una scheggia di lava tagliente come un rasoio, e si lacerò
un piede; l'oscurità era sì fitta che alle svolte della viottola la povera
ragazza spesso urtava contro il muro o la siepe, e cominciava a perder coraggio
e a non saper dove si trovasse. Tutt'a un tratto udì l'orologio di Punta che
suonava le nove, così vicino che i rintocchi sembravano le cadessero sul capo.
Nedda sorrise, quasi un amico l'avesse chiamata per nome in mezzo ad una folla
di stranieri.
Infilò allegramente la via del
villaggio, cantando a squarciagola la sua bella canzone, e tenendo stretti
nella mano, dentro la tasca del grembiule, i suoi quaranta soldi.
Passando dinanzi alla farmacia
vide lo speziale ed il notaro tutti inferraiuolati che giocavano a carte.
Alquanto più in là incontrò il povero matto di Punta, che andava su e giù da un
capo all'altro della via, colle mani nelle tasche del vestito, canticchiando la
solita canzone che l'accompagna da venti anni, nelle notti d'inverno e nei
meriggi della canicola. Quando fu ai primi alberi del diritto viale di
Ravanusa, incontrò un paio di buoi che venivano a passo lento ruminando
tranquillamente.
- Ohé, Nedda! - gridò una voce
nota.
- Sei tu, Janu?
- Sì, son io, coi buoi del
padrone.
- Da dove vieni? - domandò Nedda senza fermarsi.
- Vengo dalla Piana. Son passato
da casa tua; tua madre t'aspetta.
- Come sta la mamma?
- Al solito.
- Che Dio ti benedica! - esclamò
la ragazza come se avesse temuto il peggio, e ricominciò a correre.
- Addio, Nedda! - le gridò dietro
Janu.
- Addio, - balbettò da lontano
Nedda.
E le parve che le stelle
splendessero come soli, che tutti gli alberi, noti uno per uno, stendessero i
rami sulla sua testa per proteggerla, e i sassi della via le accarezzassero i
piedi indolenziti.
Il domani, ch'era domenica, venne
la visita del medico, il quale concedeva ai suoi malati poveri il giorno che
non poteva consacrare ai suoi poderi. Una triste visita davvero! perché il buon
dottore non era abituato a far complimenti coi suoi clienti, e nel casolare di
Nedda non c'era anticamera, né amici di casa ai quali si potesse annunciare il
vero stato dell'inferma.
Nella giornata seguì anche una
mesta funzione; venne il curato in rocchetto, il sagrestano coll'olio santo, e
due o tre comari che borbottavano non so che preci. La campanella del
sagrestano squillava acutamente in mezzo ai campi, e i carrettieri che
l'udivano fermavano i loro muli in mezzo alla strada, e si cavavano il
berretto. Quando Nedda l'udì per la sassosa viottola tirò su la coperta tutta
lacera dell'inferma, perché non si vedesse che mancavano le lenzuola, e piegò
il suo più bel grembiule bianco sul deschetto zoppo, reso fermo con dei
mattoni. Poi, mentre il prete compiva il suo ufficiò, andò ad inginocchiarsi
fuori dell'uscio, balbettando macchinalmente delle preci, guardando come
trasognata quel sasso dinanzi alla soglia su cui la sua vecchierella soleva
scaldarsi al sole di marzo, e ascoltando con orecchio distratto i consueti
rumori delle vicinanze, ed il via vai di tutta quella gente che andava per i
propri affari senza avere angustie pel capo. Il curato partì, ed il sagrestano
indugiò invano sull'uscio perché gli facessero la solita limosina pei poveri.
Lo zio Giovanni vide a tarda ora
della sera la Nedda che correva sulla strada di Punta.
- Ohé! dove vai a quest'ora?
- Vado per una medicina che ha
ordinato il medico -.
Lo zio Giovanni era economo e
brontolone.
- Ancora medicine! - borbottò, -
dopo che ha ordinato la medicina dell'olio santo! già, loro fanno a metà collo
speziale, per dissanguare la povera gente! Fai a mio modo, Nedda, risparmia
quei quattrini e vatti a star colla tua vecchia.
- Chissà che non avesse a
giovare! - rispose tristemente la ragazza chinando gli occhi, e affrettò il
passo.
Lo zio Giovanni rispose con un
brontolio. Poi le gridò dietro: - Ohe! la varannisa!
- Che volete?
- Anderò io dallo speziale. Farò
più presto di te, non dubitare. Intanto non lascerai sola la povera malata -.
Alla ragazza vennero le lagrime
agli occhi.
- Che Dio vi benedica! - gli
disse, e volle anche mettergli in mano i denari.
- I denari me li darai poi; -
rispose ruvidamente lo zio Giovanni, e si diede a camminare colle gambe dei
suoi vent'anni.
La ragazza tornò indietro e disse
alla mamma: - C'è andato lo zio Giovanni, - e lo disse con voce dolce
insolitamente.
La moribonda udì il suono dei
soldi che Nedda posava sul deschetto, e la interrogò cogli occhi.
- Mi ha detto che glieli darò
poi; - rispose la figlia.
- Che Dio gli paghi la carità! -
mormorò l'inferma, - così resterai senza un quattrino.
- Oh, mamma!
- Quanto gli dobbiamo allo zio
Giovanni?
- Dieci lire. Ma non abbiate
paura, mamma! Io lavorerò! -
La vecchia la guardò a lungo
coll'occhio semispento, e poscia l'abbracciò senza aprir bocca. Il giorno dopo
vennero i becchini, il sagrestano e le comari. Quando Nedda ebbe acconciato la
morta nella bara, coi suoi migliori abiti, le mise tra le mani un garofano che
aveva fiorito dentro una pentola fessa, e la più bella treccia dei suoi
capelli; diede ai becchini quei pochi soldi che le rimanevano perché facessero
a modo, e non scuotessero tanto la morta per la viottola sassosa del cimitero;
poi rassettò il lettuccio e la casa, mise in alto, sullo scaffale, l'ultimo
bicchiere di medicina, e andò a sedersi sulla soglia dell'uscio, guardando il
cielo.
Un pettirosso, il freddoloso
uccelletto del novembre, si mise a cantare tra le frasche e i rovi che
coronavano il muricciuolo di faccia all'uscio, e saltellando fra le spine e gli
sterpi, la guardava con certi occhietti maliziosi come se volesse dirle qualche
cosa: Nedda pensò che la sua mamma, il giorno innanzi, l'aveva udito cantare.
Nell'orto accanto c'erano delle olive per terra, e le gazze venivano a
beccarle; ella le aveva scacciate a sassate, perché la moribonda non ne udisse
il funebre gracidare; adesso le guardò impassibile, e non si mosse; e quando
sulla strada vicina passarono il venditore di lupini, o il vinaio, o i
carrettieri, che discorrevano ad alta voce per vincere il rumore dei loro carri
e delle sonagliere dei loro muli, ella diceva: - costui è il tale, quegli è il
tal altro -. Allorché suonò l'avemaria, e s'accese la prima stella della sera,
si rammentò che non doveva andar giù per le medicine a Punta, ed a misura che i
rumori andarono perdendosi nella via, e le tenebre a calare nell'orto, pensò
che non aveva più bisogno d'accendere il lume.
Lo zio Giovanni la trovò ritta
sull'uscio.
Ella si era alzata udendo dei
passi nella viottola, perché non aspettava più nessuno.
- Che fai costà! - le domandò lo
zio Giovanni. Ella si strinse nelle spalle, e non rispose.
Il vecchio si assise accanto a
lei, sulla soglia, e non aggiunse altro.
- Zio Giovanni, - disse la
ragazza dopo un lungo silenzio, - adesso non ho più nessuno, e posso andar
lontano a cercar lavoro; partirò per la Roccella, ove dura ancora la raccolta
delle olive, e al ritorno vi restituirò i denari che ci avete imprestati.
- Io non sono venuto a
domandarteli i tuoi denari! - le rispose burbero lo zio Giovanni.
Ella non disse altro, ed entrambi
rimasero zitti ad ascoltare l'assiolo che cantava. Nedda pensò che era forse
quello stesso di due sere innanzi, e sentì gonfiarsi il cuore.
- E del lavoro ne hai? - domandò
finalmente lo zio Giovanni.
- No, ma qualche anima
caritatevole troverò, che me ne darà.
- Ho sentito dire che ad Aci
Catena pagano le donne abili per incartare le arance in ragione di una lira al
giorno, senza minestra, e ho subito pensato a te; tu hai già fatto quel
mestiere nello scorso marzo, e devi esser pratica. Vuoi andare?
- Magari!
- Bisognerebbe trovarsi domani
all'alba al giardino del Merlo, all'angolo della scorciatoia che conduce a
Sant'Anna.
- Posso anche partire stanotte.
La mia povera mamma non ha voluto costarmi molti giorni di riposo.
- Sai dove andare?
- Sì, poi mi informerò.
- Domanderai all'oste che sta
sulla strada maestra di Valverde, al di là del castagneto ch'è sulla sinistra
della via. Cercherai di massaro Vinirannu, e dirai che ti mando io.
- Ci andrò, - disse la povera
ragazza.
- Ho pensato che non avresti
avuto del pane per la settimana, - disse lo zio Giovanni cavando un grosso pan
nero dalla profonda tasca del suo vestito, e posandolo sul deschetto.
La Nedda si fece rossa, come se
facesse lei quella buona azione. Poi, dopo qualche istante riprese:
- Se il signor curato dicesse
domani la messa per la mamma, io gli farei due giornate di lavoro, alla
raccolta delle fave.
- La messa l'ho fatta dire - rispose
lo zio Giovanni.
- Oh! la povera morta pregherà
anche per voi! - mormorò la ragazza coi grossi lagrimoni agli occhi.
Infine, quando lo zio Giovanni se
ne andò, e udì perdersi in lontananza il rumore de suoi passi pesanti, chiuse
l'uscio, e accese la candela. Allora le parve di trovarsi sola al mondo, ed
ebbe paura di dormire in quel povero lettuccio ove soleva coricarsi accanto
alla sua mamma.
Le ragazze del villaggio
sparlarono di lei perché andò a lavorare subito il giorno dopo la morte della
sua vecchia, e perché non aveva messo il bruno; e il signor curato la sgridò
forte, quando la domenica successiva la vide sull'uscio del casolare, mentre si
cuciva il grembiule che aveva fatto tingere in nero, unico e povero segno di
lutto, e prese argomento da ciò per predicare in chiesa contro il mal uso di
non osservare le feste e le domeniche.
La povera fanciulla, per farsi
perdonare il suo grosso peccato, andò a lavorare due giorni nel campo del
curato, acciò dicesse la messa per la sua morta il primo lunedì del mese; e la
domenica, quando le fanciulle, vestite dei loro begli abiti da festa, si
tiravano in là sul banco, o ridevano di lei, e i giovanotti, all'uscire di
chiesa, le dicevano facezie grossolane, ella si stringeva nella sua mantellina
tutta lacera, e affrettava il passo, chinando gli occhi, senza che un pensiero
amaro venisse a turbare la serenità della sua preghiera - ovvero diceva a se
stessa a mo' di rimprovero che si fosse meritato: - Son così povera! - oppure,
guardando le sue due buone braccia: - Benedetto il Signore che me le ha date! -
e tirava via sorridendo.
Una sera - aveva spento da poco
il lume - udì nella viottola una nota voce che cantava a squarciagola, e con la
melanconica cadenza orientale delle canzoni contadinesche: Picca cci voli ca
la vaju' a viju. A la mi' amanti di l'arma mia!...
- È Janu! - disse sottovoce,
mentre il cuore le balzava dal petto come un uccello spaventato, e cacciò la
testa fra le coltri.
E il domani, quando aprì la finestra, vide Janu col suo bel
vestito nuovo di fustagno, nelle cui tasche cercavano entrare per forza le sue
grosse mani nere e incallite al lavoro, con un bel fazzoletto di seta nuova
fiammante che faceva capolino con civetteria dalla scarsella del farsetto, il
quale si godeva il bel sole d'aprile appoggiato al muricciolo dell'orto.
- Oh, Janu! - diss'ella, come se
non ne sapesse proprio nulla.
- Salutamu! - esclamò il
giovane col suo più grosso sorriso.
- O che fai qui?
- Torno dalla Piana -.
La fanciulla sorrise, e guardò le
lodole che saltellavano ancora sul verde per l'ora mattutina.
- Sei tornato colle lodole.
- Le lodole vanno dove trovano il
miglio, ed io dove c'è del pane.
- O come?
- Il padrone m'ha licenziato.
- O perché?
- Perché avevo preso le febbri
laggiù, e non potevo più lavorare che tre giorni per settimana.
- Si vede, povero Janu!
- Maledetta Piana! - imprecò Janu
stendendo il braccio verso la pianura.
- Sai, la mamma!... - disse
Nedda.
- Me l'ha detto lo zio Giovanni
-.
Ella non aggiunse altro, e guardò
l'orticello al di là del muricciolo. I sassi umidicci fumavano; le gocce di
rugiada luccicavano su di ogni filo d'erba; i mandorli fioriti sussurravano
lieve lieve e lasciavano cadere sul tettuccio del casolare i loro fiori bianchi
e rosei che imbalsamavano l'aria; una passera, petulante e sospettosa nel tempo
istesso, schiamazzava sulla gronda, e minacciava a suo modo Janu, che aveva
tutta l'aria, col suo viso sospetto, di insidiare al suo nido, del quale
spuntavano tra le tegole alcuni fili di paglia indiscreti. La campana della chiesuola
chiamava a messa.
- Come fa piacere a sentire la nostra
campana! - esclamò Janu.
- Io ho riconosciuto la tua voce
stanotte, - disse Nedda facendosi rossa, e zappando con un coccio la terra
della pentola che conteneva i suoi fiori.
Egli si volse in là, ed accese la
pipa, come deve fare un uomo.
- Addio, vado a messa! - disse
bruscamente la Nedda, tirandosi indietro dopo un lungo silenzio.
- Prendi, ti ho portato codesto
dalla città - le disse il giovane sciorinando il suo bel fazzoletto di seta.
- Oh! com'è bello! ma questo non
fa per me!
- O perché? se non ti costa
nulla! - rispose il giovanotto con logica contadinesca.
Ella si fece rossa, come se la
grossa spesa le avesse dato idea dei caldi sentimenti del giovane, gli lanciò,
sorridente, un'occhiata fra carezzevole e selvaggia, e scappò in casa; e
allorché udì i grossi scarponi di lui sui sassi della viottola, fece capolino
per accompagnarlo cogli occhi mentre se ne andava.
Alla messa le ragazze del
villaggio poterono vedere il bel fazzoletto di Nedda, dove c'erano stampate
delle rose che si sarebbero mangiate, e su cui il sole, scintillante
dalle invetriate della chiesuola, mandava i suoi raggi più allegri. E
quand'ella passò dinanzi a Janu, il quale stava presso il primo cipresso del
sacrato, colle spalle al muro e fumando nella sua pipa intagliata, ella sentì
gran caldo al viso, e il cuore che le faceva un gran battere in petto, e
sgusciò via alla lesta. Il giovane le tenne dietro fischiettando, e la guardava
a camminare svelta e senza voltarsi indietro, colla sua veste nuova di fustagno
che faceva delle belle pieghe pesanti, le sue brave scarpette, e la sua
mantellina fiammante. - La povera formica, or che la mamma stando in paradiso
non l'era più a carico, era riuscita a farsi un po' di corredo col suo lavoro.
- Fra tutte le miserie del povero c'e anche quella del sollievo che arrecano le
perdite più dolorose al cuore!
Nedda sentiva dietro di sé, con
gran piacere o gran sgomento (non sapeva davvero che cosa fosse delle due), il
passo pesante del giovanotto, e guardava sulla polvere biancastra dello
stradale, tutto diritto e inondato di sole, un'altra ombra, la quale di tanto
in tanto si distaccava dalla sua. Tutt'a un tratto, quando fu in vista della
sua casuccia, senza alcun motivo, si diede a correre come una cerbiatta
spaventata. Janu la raggiunse, ella si appoggiò all'uscio, tutta rossa e
sorridente, e gli allungò un pugno sul dorso. - To'! -
Egli ripicchiò con galanteria un
po' manesca.
- O quanto l'hai pagato il tuo
fazzoletto? - domandò Nedda togliendoselo dal capo per sciorinarlo al sole e
contemplarlo in aria festosa.
- Cinque lire, - rispose Janu un
po' pettoruto.
Ella sorrise senza guardarlo;
ripiegò accuratamente il fazzoletto, studiando i segni che avevano lasciato le
pieghe, e si mise a canticchiare una canzonetta che non soleva tornarle in
bocca da lungo tempo.
La pentola rotta, posta sul
davanzale, era ricca di garofani in boccio.
- Che peccato, - disse Nedda, -
che non ce ne siano di fioriti! - e spiccò il più grosso bocciolo e glielo
diede.
- Che vuoi che ne faccia se non è
sbocciato? - diss'egli senza comprenderla, e lo buttò via. Ella si volse in là.
- E adesso dovrai andare a
lavorare? - gli domandò dopo qualche secondo.
Egli alzò le spalle: - Dove
andrai tu domani!
- A Bongiardo.
- Del lavoro ne troverò; ma
bisognerebbe che non tornassero le febbri.
- Bisognerebbe non star fuori la
notte a cantare dietro gli usci! - gli diss'ella tutta rossa, dondolandosi
sullo stipite dell'uscio con certa aria civettuola.
- Non lo farò più, se tu non vuoi
-.
Ella gli diede un buffetto, e
scappò dentro.
- Ohé! Janu! - chiamò dalla
strada lo zio Giovanni
- Vengo! - gridò Janu; e alla
Nedda: - Verrò anch'io a Bongiardo, se mi vogliono.
- Ragazzo mio, - gli disse lo zio
Giovanni quando fu sulla strada, - la Nedda non ha più nessuno, e tu sei un
bravo giovinotto; ma insieme non ci state proprio bene. Hai inteso?
- Ho inteso, zio Giovanni; ma se
Dio vuole, dopo la messe, quando avrò da banda quel po' di quattrini che ci
vogliono, insieme ci staremo benissimo -.
Nedda, che aveva udito da dietro
il muricciolo, si fece rossa, sebbene nessuno la vedesse.
L'indomani, prima di giorno,
quand'ella si affacciò all'uscio per partire, trovò Janu, col suo fagotto
infilato al bastone.
- O dove vai? - gli domandò.
- Vengo anch'io a Bongiardo, a
cercar lavoro -.
I passerotti, che si erano
svegliati alle voci mattutine, cominciarono a pigolare dietro il nido. Janu
infilò al suo bastone anche il fagotto di Nedda, e s'avviarono alacremente, mentre
il cielo si tingeva all'orizzonte delle prime fiamme del giorno, e il
venticello diveniva frizzante.
A Bongiardo c'era proprio del
lavoro per chi ne voleva. Il prezzo del vino era salito, e un ricco
proprietario faceva dissodare un gran tratto di chiuse da mettere a
vigneti. Le chiuse rendevano 1200 lire all'anno in lupini ed olio; messe
a vigneto avrebbero dato, fra cinque anni, 12 o 13 mila lire, impiegandovene
solo 10 o 12 mila; il taglio degli ulivi avrebbe coperto metà della spesa. Era
un'eccellente speculazione, come si vede, e il proprietario pagava, di buon
grado, una gran giornata ai contadini che lavoravano al dissodamento, 30 soldi
agli uomini, e 20 alle donne, senza minestra; è vero che il lavoro era un po'
faticoso, e che ci si rimettevano anche quei pochi cenci che formavano il
vestito dei giorni di lavoro; ma Nedda non era abituata a guadagnar 20 soldi
tutti i giorni.
Il soprastante s'accorse che
Janu, riempiendo i corbelli di sassi, lasciava sempre il più leggiero per
Nedda, e minacciò di cacciarlo via. Il povero diavolo, tanto per non perdere il
pane, dovette accontentarsi di discendere dai 30 ai 20 soldi.
Il male era che quei poderi quasi
incolti mancavano di fattoria, e la notte uomini e donne dovevano dormire alla
rinfusa nell'unico casolare senza porta, e sì che le notti erano piuttosto
fredde. Janu diceva d'aver sempre caldo, e dava a Nedda la sua casacca di
fustagno perché si coprisse per bene. La domenica poi tutta la brigata si
metteva in cammino per vie diverse.
Janu e Nedda avevano preso le
scorciatoie, e andavano attraverso il castagneto chiacchierando, ridendo,
cantando a riprese, e facendo risuonare nelle tasche i grossi soldoni. Il sole
era caldo come in giugno; i prati lontani cominciavano ad ingiallire, le ombre
degli alberi avevano qualche cosa di festevole, e l'erba che vi cresceva era
ancora verde e rugiadosa.
Verso il mezzogiorno sedettero al
rezzo, per mangiare il loro pan nero e le loro cipolle bianche. Janu aveva
anche del vino, del buon vino di Mascali che regalava a Nedda senza risparmio,
e la povera ragazza, la quale non c'era avvezza, si sentiva la lingua grossa, e
la testa assai pesante. Di tratto in tratto si guardavano e ridevano senza
saper perché.
- Se fossimo marito e moglie si
potrebbe tutti i giorni mangiare il pane e bere il vino insieme; - disse Janu
con la bocca piena, e Nedda chinò gli occhi, perché egli la guardava in un
certo modo.
Regnava il profondo silenzio del
meriggio; le più piccole foglie erano immobili; le ombre erano rade; c'era per
l'aria una calma, un tepore, un ronzio di insetti che pesava voluttuosamente
sulle palpebre. Ad un tratto una corrente d'aria fresca, che veniva dal mare,
fece sussurrare le cime più alte de' castagni.
- L'annata sarà buona pel povero
e pel ricco, - disse Janu, - e se Dio vuole alla messe un po' di quattrini
metterò da banda... e se tu mi volessi bene!... - e le porse il fiasco.
- No, non voglio più bere. -
disse ella colle guance tutte rosse.
- O perché ti fai rossa? -
diss'egli ridendo.
- Non te lo voglio dire.
- Perché hai bevuto!
- No!
- Perché mi vuoi bene? -
Ella gli diede un pugno
sull'omero e si mise a ridere.
Da lontano si udì il raglio di un
asino che sentiva l'erba fresca. - Sai perché ragliano gli asini? - domandò
Janu.
- Dillo tu che lo sai.
- Sì che lo so; ragliano perché
sono innamorati, - disse egli con un riso grossolano, e la guardò fiso.
Ella chinò gli occhi come se ci
vedesse delle fiamme, e le sembrò che tutto il vino che aveva bevuto le
montasse alla testa, e tutto l'ardore di quel cielo di metallo le penetrasse
nelle vene.
- Andiamo via! - esclamò
corrucciata, scuotendo la testa pesante.
- Che hai?
- Non lo so, ma andiamo via!
- Mi vuoi bene? -
Nedda chinò il capo.
- Vuoi essere mia moglie? -
Ella lo guardò serenamente, e gli
strinse forte la mano callosa nelle sue mani brune, ma si alzò sui ginocchi che
le tremavano per andarsene. Egli la trattenne per le vesti, tutto stravolto, e
balbettando parole sconnesse, come non sapendo quel che si facesse.
Allorché si udì nella fattoria
vicina il gallo che cantava, Nedda balzò in piedi di soprassalto, e si guardò
attorno spaurita.
- Andiamo via! Andiamo via! -
disse tutta rossa e frettolosa.
Quando fu per svoltare l'angolo
della sua casuccia si fermò un momento trepidante, quasi temesse di trovare la
sua vecchiarella sull'uscio deserto da sei mesi.
Venne la Pasqua, la gaia festa
dei campi coi suoi falò giganteschi, colle sue allegre processioni fra i prati
verdeggianti e sotto gli alberi carichi di fiori, colla chiesuola parata a
festa, gli usci delle casipole incoronati di festoni, e le ragazze colle belle
vesti nuove d'estate. Nedda fu vista allontanarsi piangendo dal confessionario,
e non comparve fra le fanciulle inginocchiate dinanzi al coro che aspettavano
la comunione. Da quel giorno nessuna ragazza onesta le rivolse più la parola, e
quando andava a messa non trovava posto al solito banco, e bisognava che stesse
tutto il tempo ginocchioni: - se la vedevano piangere, pensavano a chissà che
peccatacci, e le volgevano le spalle inorridite: - e quelle che le davano da
lavorare, ne approfittavano per scemarle il prezzo della giornata.
Ella aspettava il suo fidanzato
che era andato a mietere alla Piana, raggruzzolare i quattrini che ci volevano
a mettere su un po' di casa, e a pagare il signor curato.
Una sera, mentre filava, udì
fermarsi all'imboccatura della viottola un carro da buoi, e si vide comparir
dinanzi Janu pallido e contraffatto.
- Che hai? - gli disse.
- Son stato ammalato. Le febbri
mi ripresero laggiù, in quella maledetta Piana; ho perso più di una settimana
di lavoro, ed ho mangiato quei pochi soldi che avevo fatto -.
Ella rientrò in fretta, scucì il
pagliericcio, e volle dargli quel piccolo gruzzolo che aveva legato in fondo ad
una calza.
- No, - diss'egli. - Domani andrò
a Mascalucia per la rimondatura degli ulivi, e non avrò bisogno di nulla. Dopo
la rimondatura ci sposeremo -.
Egli aveva l'aria triste
facendole questa promessa, e stava appoggiato allo stipite, col fazzoletto
avvolto attorno al capo, e guardandola con certi occhi luccicanti.
- Ma tu hai la febbre! - gli
disse Nedda.
- Sì, ma ora che son qui mi
lascerà; ad ogni modo non mi coglie che ogni tre giorni -.
Ella lo guardava senza parlare, e
sentiva stringersi il cuore, vedendolo così pallido e dimagrato. - E potrai
reggerti sui rami alti? - gli domandò.
- Dio ci penserà! - rispose Janu.
- Addio, non posso far aspettare il carrettiere che mi ha dato un posto sul suo
carro dalla Piana sin qui. A rivederci presto! - e non si moveva. Quando
finalmente se ne andò, ella lo accompagnò sino alla strada maestra, e lo vide
allontanarsi, senza una lagrima, sebbene le sembrasse che stesse a vederlo
partire per sempre; il cuore ebbe un'altra strizzatina, come una spugna non
spremuta abbastanza - nulla più, ed egli la salutò per nome alla svolta della
via.
Tre giorni dopo udì un gran
cicaleccio per la strada. Si affacciò al muricciolo, e vide in mezzo ad un
crocchio di contadini e di comari Janu disteso su di una scala a piuoli,
pallido come un cencio lavato, e colla testa fasciata da un fazzoletto tutto
sporco di sangue. Lungo la via dolorosa, prima di giungere al suo casolare,
egli, tenendola per mano, le narrò come, trovandosi così debole per le febbri,
era caduto da un'alta cima, e s'era concio in quel modo. - Il cuore te lo
diceva: - mormorava con un triste sorriso. Ella l'ascoltava coi suoi
grand'occhi spalancati, pallida come lui e tenendolo per mano. Il domani egli
morì.
Allora Nedda, sentendo muoversi
dentro di sé qualcosa che quel morto le lasciava come un triste ricordo, volle
correre in chiesa a pregare per lui la Vergine Santa. Sul sacrato incontrò il
prete che sapeva la sua vergogna, si nascose il viso nella mantellina e tornò
indietro derelitta.
Adesso, quando cercava del
lavoro, le ridevano in faccia, non per schernire la ragazza colpevole, ma
perché la povera madre non poteva più lavorare come prima. Dopo i primi
rifiuti, e le prime risate, ella non osò cercare più oltre, e si chiuse nella
sua casipola, al pari di un uccelletto ferito che va a rannicchiarsi nel suo
nido. Quei pochi soldi raccolti in fondo alla calza se ne andarono l'un dopo
l'altro, e dietro ai soldi la bella veste nuova, e il bel fazzoletto di seta.
Lo zio Giovanni la soccorreva per quel poco che poteva, con quella carità
indulgente e riparatrice senza la quale la morale del curato è ingiusta e
sterile, e le impedì così di morire di fame. Ella diede alla luce una bambina
rachitica e stenta; quando le dissero che non era un maschio pianse come aveva
pianto la sera in cui aveva chiuso l'uscio del casolare dietro al cataletto che
se ne andava, e s'era trovata senza la mamma; ma non volle che la buttassero
alla Ruota.
- Povera bambina! Che incominci a
soffrire almeno il più tardi che sia possibile! - disse.
Le comari la chiamavano
sfacciata, perché non era stata ipocrita, e perché non era snaturata. Alla
povera bambina mancava il latte, giacché alla madre scarseggiava il pane. Ella
deperì rapidamente, e invano Nedda tentò spremere fra i labbruzzi affamati il
sangue del suo seno. Una sera d'inverno, sul tramonto, mentre la neve fioccava
sul tetto, e il vento scuoteva l'uscio mal chiuso, la povera bambina, tutta
fredda, livida, colle manine contratte, fissò gli occhi vitrei su quelli
ardenti della madre, diede un guizzo, e non si mosse più.
Nedda la scosse, se la strinse al
seno con impeto selvaggio, tentò di scaldarla coll'alito e coi baci, e quando
s'accorse che era proprio morta, la depose sul letto dove aveva dormito sua
madre, e le s'inginocchiò davanti, cogli occhi asciutti e spalancati fuor di
misura.
- Oh! benedette voi che siete
morte! - esclamò. - Oh! benedetta voi, Vergine Santa! che mi avete tolto la mia
creatura per non farla soffrire come me! -
|