Le comari filavano al sole, e le
galline razzolavano nel pattume, davanti agli usci, allorché successe un
gridìo, un fuggi fuggi per tutta la stradicciuola, che si vide comparire da
lontano lo zio Masi, l'acchiappaporci, col laccio in mano; e il pollame
scappava schiamazzando, come se lo conoscesse. Lo zio Masi si buscava dal
municipio 50 centesimi per le galline, e 3 lire per ogni maiale che sorprendeva
in contravvenzione. Egli preferiva i maiali. E come vide la porcellina di
comare Santa, stesa tranquillamente col muso nel brago, di contro all'uscio,
gli gittò al collo il nodo scorsoio.
- Ah! Madonna santissima! Cosa
fate, zio Masi! - gridava la zia Santa, pallida come una morta. Per carità, zio
Masi, non mi acchiappate la multa, che mi rovinate! -
Lo zio Masi, il traditore, per
pigliarsi il tempo di caricarsi la maialina sulle spalle, le sballava di belle
parole: - Sorella mia, che posso farvi? Questo è l'ordine del sindaco. Maiali
per le strade non ne vuole più. Se vi lascio la porcellina perdo il pane -.
La zia Santa gli correva dietro
come una pazza, colle mani nei capelli, strillando sempre: - Ah! zio Masi! non
lo sapete che mi è costata 14 tarì a San Giovanni, e la tengo come la pupilla
degli occhi miei! Lasciatemi la maialina, zio Masi, per l'anima dei vostri
morti! Che all'anno nuovo, coll'aiuto di Dio, vale due onze! -
Lo zio Masi, zitto, a capo chino,
col cuore più duro di un sasso, badava solo dove metteva i piedi, per non
isdrucciolare nella mota, colla maialina di traverso sulle spalle, che grugniva
rivolta al cielo. Allora la zia Santa, disperata, per salvare la porcellina,
gli assestò un solenne calcio nella schiena, e lo fece andare ruzzoloni.
Le comari, appena videro
l'acchiappaporci in mezzo al fango, gli furono addosso colle rocche e colle
ciabatte, e volevano fargli la festa per tutti i porci e le galline che aveva
sulla coscienza. Ma in questa accorse don Licciu Papa, colla tracolla dello
sciabolotto attraverso la pancia, gridando da lontano come un ossesso, fuori
tiro delle rocche: - largo alla Giustizia! largo alla Giustizia! -
La Giustizia condannò comare
Santa alla multa ed alle spese, e per ischivare la prigione dovettero anche
ricorrere alla protezione del barone, il quale aveva la finestra di cucina lì di
faccia nella stradicciuola, e la salvò per miracolo, facendo vedere alla
Giustizia che non era il caso di ribellione, perché l'acchiappaporci quel
giorno non aveva il berretto col gallone del municipio.
Vedete! - esclamarono in coro le
donne. - Ci vogliono i santi per entrare in Paradiso! Questa del berretto
nessuno la sapeva! -
Però il barone aggiunse il
predicozzo: - Quei porci e quelle galline bisognava spazzarli via dal vicinato;
il sindaco aveva ragione, ché sembrava un porcile -. D'allora in poi, ogni
volta che il servo del barone buttava la spazzatura sul capo alle vicine,
nessuna mormorava. Soltanto si dolevano che le galline chiuse in casa, per
scansare la multa, non fossero più buone chiocce, e i maiali, legati per un
piede accanto al letto, parevano tante anime del purgatorio. - Almeno prima la
spazzavano loro la stradicciuola.
- Tutto quel concime sarebbe
tant'oro per la chiusa dei Grilli! - sospirava massaro Vito. - Se avessi ancora
la mula baia, spazzerei la strada colle mie mani -.
Anche qui c'entrava don Licciu
Papa. Egli era venuto a pignorare la mula coll'usciere, che dall'usciere solo
massaro Vito non se la sarebbe lasciata portar via dalla stalla, nemmen se
l'ammazzavano, e gli avrebbe piuttosto mangiato il naso come il pane. Lì, davanti
al giudice, seduto al tavolino, che pareva Ponzio Pilato, quando massaro
Venerando l'aveva citato per riscuotere il credito della mezzeria, non seppe
che rispondere. La chiusa dei Grilli era buona soltanto per far grilli; il
minchione era lui, se era tornato dalla mèsse a mani vuote, e massaro Venerando
aveva ragione di voler esser pagato, senza tante chiacchiere e tante dilazioni,
perciò aveva portato l'avvocato, che parlava per lui. Ma com'ebbe finito, e
massaro Venerando se ne andava lieto, dondolandosi dentro gli stivaloni come
un'anitra ingrassata, non poté stare di domandare al cancelliere se era vero
che gli vendevano la mula.
- Silenzio! - interruppe il
giudice che si soffiava il naso, prima di passare a un altro affare.
Don Licciu Papa si sveglò di
soprassalto sulla panchetta, e gridò: - Silenzio!
- Se foste venuto coll'avvocato,
vi lasciavano parlare ancora, - gli disse compare Orazio per confortarlo.
Sulla piazza, dinanzi agli
scalini del municipio, il banditore gli vendeva la mula. - Quindici onze la
mula dicompare Vito Gnirri! Quindici onze una bella mula baia! Quindici onze! -
Compare Vito, seduto sugli
scalini, col mento fra le mani, non voleva dir nulla che la mula era vecchia,
ed era più di 16 anni che gli lavorava. Essa stava lì contenta come una sposa,
colla cavezza nuova. Ma appena gliela portaron via davvero, ei perse la testa,
pensando che quell'usuraio di massaro Venerando gli acchiappava 15 onze per una
sola annata di mezzeria, che tanto non ci valeva la chiusa dei Grilli, e senza
la mula ormai non poteva più lavorare la chiusa, e all'anno nuovo si sarebbe
trovato di nuovo col debito sulle spalle. Ei si mise a gridare come un
disperato sul naso a massaro Venerando. - Cosa mi farete pignorare, quando non
avrò più nulla? anticristo che siete! - E voleva levargli il battesimo dalla
testa, se non fosse stato per don Licciu Papa lì presente, collo sciabolotto e
il berretto gallonato, il quale si mise a gridare tirandosi indietro: - Fermo
alla Giustizia! - Fermo alla Giustizia!
- Che Giustizia! - strillava
compare Vito tornando a casa colla cavezza in mano. - La Giustizia è fatta per
quelli che hanno da spendere -.
Questo lo sapeva anche curatolo
Arcangelo, che quando era stato in causa col Reverendo per via della casuccia,
perché il Reverendo voleva comprargliela per forza, tutti gli dicevano: - Che
siete matto a pigliarvela col Reverendo? È la storia della brocca contro il
sasso! Il Reverendo coi suoi denari si affitta la meglio lingua d'avvocato, e
vi riduce povero e pazzo -.
Il Reverendo, dacché s'era fatto
ricco, aveva ingrandito la casuccia paterna, di qua e di là, come fa il
porcospino che si gonfia per scacciare i vicini dalla tana. Ora aveva slargata
la finestra che dava sul tetto di curatolo Arcangelo, e diceva che gli
bisognava la casa di lui per fabbricarvi sopra la cucina e mutare la finestra
in uscio. - Vedete, compare Arcangelo mio, senza cucina non ci posso stare!
Bisogna che siate ragionevole -.
Compare Arcangelo non lo era
punto, e si ostinava a pretendere di voler morire nella casa dove era nato.
Tanto, non ci veniva che una volta al sabato; ma quei sassi lo conoscevano, e
se pensava al paese, nei pascoli del Carramone, non lo vedeva altrimenti che
sotto forma di quell'usciolo rattoppato, e di quella finestra senza vetri. - Va
bene, va bene, - rispondeva fra di sé il Reverendo. - Teste di villani! Bisogna
farci entrare la ragione per forza -.
E dalla finestra del Reverendo
piovevano sul tetto di curatolo Arcangelo cocci di stoviglie, sassi, acqua
sporca; e riducevano il cantuccio dov'era il letto peggio di un porcile. Se
curatolo Arcangelo gridava, il Reverendo si metteva a gridare sul tetto, più
forte di lui. - Che non poteva più tenerci un vaso di basilico sul davanzale?
Non era padrone d'inaffiare i suoi fiori?
Curatolo Arcangelo aveva la testa
dura peggio dei suoi montoni, e ricorse alla Giustizia. Vennero il giudice, il
cancelliere, e don Licciu Papa, a vedere se il Reverendo era padrone
d'inaffiare i suoi fiori, che quel giorno non ci erano più alla finestra, e il
Reverendo aveva il solo disturbo di levarli ogni volta che doveva venire la
Giustizia, e rimetterli al loro posto appena voltava le spalle. Il giudice
stesso non poteva passare il tempo a far la guardia al tetto di curatolo
Arcangelo, o ad andare e venire dalla straduccia; ogni sua visita costava cara.
Restava la quistione di sapere se
la finestra del Reverendo doveva essere coll'inferriata o senza inferriata, e
il giudice, e il cancelliere, e tutti, guardavano cogli occhiali sul naso, e
pigliavano misure che pareva un tetto di barone, quel tettuccio piatto e
ammuffato.
E il Reverendo tirò pure fuori
certi diritti vecchi per la finestra senza inferriata, e per alcune tegole che
sporgevano sul tetto, che non ci si capiva più nulla, e il povero curatolo
Arcangelo guardava in aria anche lui, per capacitarsi che colpa avesse il suo
tetto. Ei ci perse il sonno della notte e il riso della bocca; si dissanguava a
spese, e doveva lasciare la mandra in custodia del ragazzo per correre dietro
al giudice e all'usciere. Per giunta le pecore gli morivano come le mosche, ai
primi freddi dell'inverno, ché il Signore lo castigava perché se la pigliava
colla Chiesa, dicevano.
- E voi pigliatevi la casa, -
disse infine al Reverendo, che dopo tante liti e tante spese non gliene
avanzava il danaro da comprarsi la corda per impiccarsi a un travicello. Voleva
mettersi in collo la sua bisaccia e andarsene colla figliola a stare colle
pecore, ché quella maledetta casa non voleva vederla più, finché era al mondo.
Ma allora uscì in campo il
barone, l'altro vicino, il quale ci aveva anche lui delle finestre e delle
tegole sul tetto di curatolo Arcangelo, e giacché il Reverendo voleva
fabbricarsi la cucina, egli aveva pure bisogno di allargare la dispensa, sicché
il povero capraio non sapeva più di chi fosse la sua casa. Ma il Reverendo
trovò il modo di aggiustare la lite col barone, dividendosi da buoni amici fra
di loro la casa di curatolo Arcangelo, e poiché costui ci aveva anche
quest'altra servitù, gli ridusse il prezzo di un buon quarto.
Nina, la figlia di curatolo
Arcangelo, come dovevano lasciare la casa e andarsene via dal paese, non finiva
di piangere, quasi ci avesse avuto il cuore attaccato a quei muri e a quei
chiodi delle pareti. Suo padre, poveraccio, tentava di consolarla come meglio
poteva, dicendole che laggiù, nelle grotte del Carramone, ci si stava da
principi, senza vicini e senza acchiappaporci. Ma le comari, che sapevano tutta
la storia, si strizzavano l'occhio fra di loro borbottando:
- Al Carramone il signorino
non potrà più andarla a trovare, di sera, quando compare Arcangelo è colle sue
pecore. Per questo la Nina piange come una fontana -.
Come lo seppe compare Arcangelo
cominciò a bestemmiare e a gridare: - Scellerata! adesso con chi vuoi che ti
mariti? -
Ma la Nina non pensava a
maritarsi. Voleva soltanto continuare a stare dov'era il signorino, che
lo vedeva tutti i giorni alla finestra, appena si alzava, e gli faceva segno se
poteva andare a trovarla la sera. In tal modo la Nina c'era cascata, col veder
tutti i giorni alla finestra il signorino, che dapprincipio le rideva, e
le mandava i baci e il fumo della pipa, e le vicine schiattavano d'invidia.
Poscia a poco a poco era venuto l'amore, talché adesso la ragazza non ci vedeva
più dagli occhi, e aveva detto chiaro e tondo a suo padre:
- Voi andatevene dove volete, che
io me ne sto qui dove sono -. E il signorino le aveva promesso che la
campava lui.
Curatolo Arcangelo di quel pane
non ne mangiava, e voleva chiamare don Licciu Papa per condur via a forza la
figliuola. - Almeno quando saremo via di qui, nessuno saprà le nostre
disgrazie, - diceva. Ma il giudice gli rispose che la Nina aveva già gli anni
del giudizio, ed era padrona di fare quel che gli pareva e piaceva.
- Ah! È padrona? - borbottava
curatolo Arcangelo. - Anch'io son padrone! - E appena incontrò il signorino,
che gli fumava sul naso, gli spaccò la testa come una noce con una legnata.
Dopo che l'ebbero legato ben
bene, accorse don Licciu Papa, gridando: - Largo alla Giustizia! largo alla
Giustizia! -
Davanti alla Giustizia gli
diedero anche un avvocato, per difendersi. - Almeno stavolta la Giustizia non
mi costa nulla; - diceva compare Arcangelo. E fu meglio per lui. L'avvocato
riuscì a provare come quattro e quattro fanno otto, che curatolo Arcangelo non
l'aveva fatto apposta, di cercare d'ammazzare il signorino, con un
randello di pero selvatico, ch'era del suo mestiere, e se ne serviva per darlo
sulle corna ai montoni quando non volevano intender ragione.
Così fu condannato soltanto a 5
anni, la Nina rimase col signorino, il barone allargò la sua dispensa, e
il Reverendo fabbricò una bella casa nuova su quella vecchia di curatolo
Arcangelo, con un balcone e due finestre verdi.
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