E' vi par di toccarla colle mani
- come dalla terra grassa che fumi, là, dappertutto, torno torno alle montagne
che la chiudono, da Agnone al Mongibello incappucciato di neve - stagnante
nella pianura, a guisa dell'afa pesante di luglio. Vi nasce e vi muore il sole
di brace, e la luna smorta, e la Puddara, che sembra navigare in un mare che
svapori, e gli uccelli e le margherite bianche della primavera, e l'estate
arsa, e vi passano in lunghe file nere le anitre nel nuvolo dell'autunno, e il
fiume che luccica quasi fosse di metallo, fra le rive larghe e abbandonate,
bianche, slabbrate, sparse di ciottoli; e in fondo il lago di Lentini, come uno
stagno, colle sponde piatte, senza una barca, senza un albero sulla riva,
liscio ed immobile. Sul greto pascolano svogliatamente i buoi, rari, infangati
sino al petto, col pelo irsuto. Quando risuona il campanaccio della mandra, nel
gran silenzio, volan via le cutrettole, silenziose, e il pastore istesso,
giallo di febbre, e bianco di polvere anche lui, schiude un istante le palpebre
gonfie, levando il capo all'ombra dei giunchi secchi.
È che la malaria v'entra nelle
ossa col pane che mangiate, e se aprite bocca per parlare, mentre camminate
lungo le strade soffocanti di polvere e di sole, e vi sentite mancar le
ginocchia, o vi accasciate sul basto della mula che va all'ambio, colla testa
bassa. Invano Lentini, e Francofonte, e Paternò, cercano di arrampicarsi come
pecore sbrancate sulle prime colline che scappano dalla pianura, e si
circondano di aranceti, di vigne, di orti sempre verdi; la malaria acchiappa
gli abitanti per le vie spopolate, e li inchioda dinanzi agli usci delle case
scalcinate dal sole, tremanti di febbre sotto il pastrano, e con tutte le
coperte del letto sulle spalle.
Laggiù, nella pianura, le case
sono rare e di aspetto malinconico, lungo le strade mangiate dal sole, fra due
mucchi di concime fumante, appoggiate alle tettoie crollanti, dove aspettano
coll'occhio spento, legati alla mangiatoia vuota, i cavalli di ricambio. - O
sulla sponda del lago, colla frasca decrepita dell'osteria appesa all'uscio, le
grandi stanzucce vuote, e l'oste che sonnecchia accoccolato sul limitare, colla
testa stretta nel fazzoletto, spiando ad ogni svegliarsi, nella campagna
deserta, se arriva un passeggiero assetato. - Oppure come cassette di legno
bianco, impennacchiate da quattro eucalipti magri e grigi, lungo la ferrovia
che taglia in due la pianura come un colpo d'accetta, dove vola la macchina
fischiando al pari di un vento d'autunno, e la notte corruscano scintille
infuocate. - O infine qua e là, sul limite dei poderi segnato da un pilastrino
appena squadrato, coi tetti appuntellati dal di fuori, colle imposte
sconquassate, dinanzi all'aia screpolata, all'ombra delle alte biche di paglia
dove dormono le galline colla testa sotto l'ala, e l'asino lascia cascare il
capo, colla bocca ancora piena di paglia, e il cane si rizza sospettoso, e
abbaia roco al sasso che si stacca dall'intonaco, alla lucertola che striscia,
alla foglia che si muove nella campagna inerte.
La sera, appena cade il sole, si
affacciano sull'uscio uomini arsi dal sole, sotto il cappellaccio di paglia e
colle larghe mutande di tela, sbadigliando e stirandosi le braccia; e donne
seminude, colle spalle nere, allattando dei bambini già pallidi e disfatti, che
non si sa come si faranno grandi e neri, e come ruzzeranno sull'erba quando tornerà
l'inverno, e l'aia diverrà verde un'altra volta, e il cielo azzurro e
tutt'intorno la campagna ridera al sole. E non si sa neppure dove stia e perché
ci stia tutta quella gente che alla domenica corre per la messa alle chiesuole
solitarie, circondate dalle siepi dei fichidindia, a dieci miglia in giro, sin
dove si ode squillare la campanella fessa nella pianura che non finisce mai.
Però dov'è la malaria è terra
benedetta da Dio. In giugno le spighe si coricano dal peso, e i solchi fumano
quasi avessero sangue nelle vene appena c'entra il vomero in novembre. Allora
bisogna pure che chi semina e chi raccoglie caschi come una spiga matura,
perché il Signore ha detto: «Il pane che si mangia bisogna sudarlo». Come il
sudore della febbre lascia qualcheduno stecchito sul pagliericcio di
granoturco, e non c'è più bisogno di solfato né di decotto d'eucalipto, lo si
carica sulla carretta del fieno, o attraverso il basto dell'asino, o su di una
scala, come si può, con un sacco sulla faccia, e si va a deporlo alla chiesuola
solitaria, sotto i fichidindia spinosi di cui nessuno perciò mangia i frutti.
Le donne piangono in crocchio, e gli uomini stanno a guardare, fumando.
Così s'erano portato il camparo
di Valsavoia, che si chiamava massaro Croce, ed erano trent'anni che
inghiottiva solfato e decotto d'eucalipto. In primavera stava meglio, ma
d'autunno, come ripassavano le anitre, egli si metteva il fazzoletto in testa,
e non si faceva più vedere sull'uscio che ogni due giorni; tanto che si era
ridotto pelle ed ossa, e aveva una pancia grossa come un tamburo, che lo
chiamavano il Rospo anche pel suo fare rozzo e selvatico, e perché gli
erano diventati gli occhi smorti e a fior di testa. Egli diceva sempre prima di
morire: - Non temete, che pei miei figli il padrone ci penserà! - E con quegli
occhiacci attoniti guardava in faccia ad uno ad uno coloro che gli stavano
attorno al letto, l'ultima sera, e gli mettevano la candela sotto il naso. Lo
zio Menico, il capraio, che se ne intendeva, disse che doveva avere il fegato duro
come un sasso e pesante un rotolo e mezzo. Qualcuno aggiungeva pure:
- Adesso se ne impipa! ché s'é
ingrassato e fatto ricco a spese del padrone, e i suoi figli non hanno bisogno
di nessuno! Credete che l'abbia preso soltanto pei begli occhi del padrone tutto
quel solfato e tutta quella malaria per trent'anni? -
Compare Carmine, l'oste del lago,
aveva persi allo stesso modo i suoi figliuoli tutt'e cinque, l'un dopo l'altro,
tre maschi e due femmine. Pazienza le femmine! Ma i maschi morivano appunto
quando erano grandi, nell'età di guadagnarsi il pane. Oramai egli lo sapeva; e
come le febbri vincevano il ragazzo, dopo averlo travagliato due o tre anni,
non spendeva più un soldo, né per solfato né per decotti, spillava del buon
vino e si metteva ad ammanire tutti gli intingoli di pesce che sapeva, onde
stuzzicare l'appetito al malato. Andava apposta colla barca a pescare la
mattina, tornava carico di cefali, di anguille grosse come il braccio, e poi
diceva al figliuolo, ritto dinanzi al letto e colle lagrime agli occhi: - Tè!
mangia! - Il resto lo pigliava Nanni, il carrettiere per andare a venderlo in
città. - Il lago vi dà e il lago vi piglia! - Gli diceva Nanni, vedendo
piangere di nascosto compare Carmine. - Che volete farci, fratel mio? - Il lago
gli aveva dato dei bei guadagni. E a Natale, quando le anguille si vendono
bene, nella casa in riva al lago, cenavano allegramente dinanzi al fuoco,
maccheroni, salsiccia e ogni ben di Dio, mentre il vento urlava di fuori come
un lupo che abbia fame e freddo. In tal modo coloro che restavano si
consolavano dei morti. Ma a poco a poco andavano assottigliandosi così che la
madre divenne curva come un gancio dai crepacuori, e il padre che era grosso e
grasso, stava sempre sull'uscio, onde non vedere quelle stanzacce vuote, dove
prima cantavano e lavoravano i suoi ragazzi. L'ultimo rimasto non voleva morire
assolutamente, e piangeva e si disperava allorché lo coglieva la febbre, e
persino andò a buttarsi nel lago dalla paura della morte. Ma il padre che
sapeva nuotare lo ripescò, e lo sgridava che quel bagno freddo gli avrebbe
fatto tornare la febbre peggio di prima. - Ah! - singhiozzava il giovanetto
colle mani nei capelli, - per me non c'è più speranza! per me non c'è più
speranza! - Tutto sua sorella Agata, che non voleva morire perché era sposa! -
osservava compare Carmine di faccia a sua moglie, seduta accanto al letto; e
lei, che non piangeva più da un pezzo, confermava col capo, curva al pari di un
gancio.
Lei, ridotta a quel modo, e suo
marito grasso e grosso avevano il cuoio duro, e rimasero soli a guardar la
casa. La malaria non ce l'ha contro di tutti. Alle volte uno vi campa
cent'anni, come Cirino lo scimunito, il quale non aveva né re né regno, né arte
né parte, né padre né madre, né casa per dormire, né pane da mangiare, e tutti
lo conoscevano a quaranta miglia intorno, siccome andava da una fattoria
all'altra, aiutando a governare i buoi, a trasportare il concime, a scorticare
le bestie morte, a fare gli uffici vili; e pigliava delle pedate e un tozzo di
pane; dormiva nei fossati, sul ciglione dei campi, a ridosso delle siepi, sotto
le tettoie degli stallazzi; e viveva di carità, errando come un cane senza
padrone, scamiciato e scalzo, con due lembi di mutande tenuti insieme da una
funicella sulle gambe magre e nere; e andava cantando a squarciagola sotto il
sole che gli martellava sulla testa nuda, giallo come lo zafferano. Egli non
prendeva più né solfato, né medicine, né pigliava le febbri. Cento volte
l'avevano raccolto disteso, quasi fosse morto, attraverso la strada; infine la
malaria l'aveva lasciato, perché non sapeva più che farsene di lui. Dopo che
gli aveva mangiato il cervello e la polpa delle gambe, e gli era entrata tutta
nella pancia gonfia come un otre, l'aveva lasciato contento come una pasqua, a
cantare al sole meglio di un grillo. Di preferenza lo scimunito soleva stare
dinanzi lo stallatico di Valsavoia, perché ci passava della gente, ed egli
correva loro dietro per delle miglia, gridando, uuh! uuh! finché gli buttavano
due centesimi. L'oste gli prendeva i centesimi e lo teneva a dormire sotto la
tettoria, sullo strame dei cavalli, che quando si tiravano dei calci, Cirino
correva a svegliare il padrone gridando uuh! e la mattina li strigliava e li
governava.
Più tardi era stato attratto
dalla ferrovia che costrussero lì vicino. I vetturali e i viandanti erano
diventati più rari sulla strada, e lo scimunito non sapeva che pensare,
guardando in aria delle ore le rondini che volavano, e batteva le palpebre al
sole per capacitarsene. La prima volta, al vedere tutta quella gente insaccata
nei carrozzoni che passavano dalla stazione, parve che indovinasse. E d'allora
in poi ogni giorno aspettava il treno, senza sbagliare di un minuto, quasi
avesse l'orologio in testa; e mentre gli fuggiva dinanzi, gettandogli contro la
faccia il fumo e lo strepito, egli si dava a corrergli dietro, colle braccia in
aria, urlando in tuono di collera e di minaccia: uuh! uuh!...
L'oste, anche lui, ogni volta che
da lontano vedeva passare il treno sbuffante nella malaria, non diceva nulla,
ma gli sputava contro il fatto suo scrollando il capo, davanti alla tettoia
deserta e ai boccali vuoti. Prima gli affari andavano così bene che egli aveva
preso quattro mogli, l'una dopo l'altra, tanto che lo chiamavano «Ammazzamogli»
e dicevano che ci aveva fatto il callo, e tirava a pigliarsi la quinta, se la
figlia di massaro Turi Oricchiazza non gli faceva rispondere: - Dio ne liberi!
nemmeno se fosse d'oro, quel cristiano! Ei si mangia il prossimo suo come un
coccodrillo! - Ma non era vero che ci avesse fatto il callo, perché quando gli
era morta comare Santa, ed era la terza, egli sino all'ora di colazione non ci
aveva messo un boccone di pane in bocca, né un sorso d'acqua, e piangeva per
davvero dietro il banco dell'osteria. - Stavolta voglio pigliarmi una che è
avvezza alla malaria - aveva detto dopo quel fatto. - Non voglio più soffrirne
di questi dispiaceri -.
Le mogli gliele ammazzava la
malaria, ad una ad una, ma lui lo lasciava tal quale, vecchio e grinzoso, che
non avreste immaginato come quell'uomo lì ci avesse anche lui il suo bravo
omicidio sulle spalle, quantunque tirasse a prendere la quarta moglie. Pure la
moglie ogni volta la cercava giovane e appetitosa, ché senza moglie l'osteria
non può andare, e per questo gli avventori s'erano diradati. Ora non restava
altri che compare Mommu, il cantoniere della ferrovia lì vicino, un uomo che
non parlava mai, e veniva a bere il suo bicchiere fra un treno e l'altro,
mettendosi a sedere sulla panchetta accanto all'uscio, colle scarpe in mano,
per lasciare riposare i piedi. - Questi qui non li coglie la malaria! - pensava
«Ammazzamogli» senza aprir bocca nemmeno lui, ché se la malaria li avesse fatti
cadere come le mosche non ci sarebbe stato chi facesse andare quella ferrovia
là. Il poveraccio, dacché s'era levato dinanzi agli occhi il solo uomo che gli
avvelenava l'esistenza, non ci aveva più che due nemici al mondo: la ferrovia
che gli rubava gli avventori, e la malaria che gli portava via le mogli. Tutti
gli altri nella pianura, sin dove arrivavano gli occhi, provavano un momento di
contentezza, anche se nel lettuccio ci avevano qualcuno che se ne andava a poco
a poco, o se la febbre li abbatteva sull'uscio, col fazzoletto in testa e il
tabarro addosso. Si ricreavano guardando il seminato che veniva su prosperoso e
verde come il velluto, o le biade che ondeggiavano al par di un mare, e
ascoltavano la cantilena lunga dei mietitori, distesi come una fila di soldati,
e in ogni viottolo si udiva la cornamusa, dietro la quale arrivavano dalla
Calabria degli sciami di contadini per la messe, polverosi, curvi sotto la
bisaccia pesante, gli uomini avanti e le donne in coda, zoppicanti e guardando
la strada che si allungava con la faccia arsa e stanca. E sull'orlo di ogni
fossato, dietro ogni macchia d'aloe, nell'ora in cui cala la sera come un velo
grigio, fischiava lo zufolo del guardiano, in mezzo alle spighe mature che
tacevano, immobili al cascare del vento, invase anch'esse dal silenzio della
notte. - Ecco! - pensava «Ammazzamogli». - Tutta quella gente là se fa tanto di
non lasciarci la pelle e di tornare a casa, ci torna con dei denari in tasca -.
Ma lui no! lui non aspettava né
la raccolta né altro, e non aveva animo di cantare. La sera calava tanto
triste, nello stallazzo vuoto e nell'osteria buia. A quell'ora il treno passava
da lontano fischiando, e compare Mommu stava accanto al suo casotto colla
bandieruola in mano; ma fin lassù, dopo che il treno era svanito nelle tenebre,
si udiva Cirino lo scimunito che gli correva dietro urlando, uuh!... E
«Ammazzamogli» sulla porta dell'osteria buia e deserta pensava che per quelli
lì la malaria non ci era.
Infine quando non poté pagar più
l'affitto dell'osteria e dello stallazzo, il padrone lo mandò via dopo 57 anni
che c'era stato, e «Ammazzamogli» si ridusse a cercar impiego nella ferrovia
anche lui, e a tenere in mano la bandieruola quando passava il treno.
Allora stanco di correre tutto il
giorno su e giù lungo le rotaie, rifinito dagli anni e dai malanni, vedeva
passare due volte al giorno la lunga fila dei carrozzoni stipati di gente; le
allegre brigate di cacciatori che si sparpagliavano per la pianura; alle volte
un contadinello che suonava l'organetto a capo chino, rincantucciato su di una
panchetta di terza classe; le belle signore che affacciavano allo sportello il
capo avvolto nel velo; l'argento e l'acciaio brunito dei sacchi e delle borse
da viaggio che luccicavano sotto i lampioni smerigliati; le alte spalliere
imbottite e coperte di trina. Ah, come si doveva viaggiar bene lì dentro,
schiacciando un sonnellino! Sembrava che un pezzo di città sfilasse lì davanti,
colla luminaria delle strade, e le botteghe sfavillanti. Poi il treno si
perdeva nella vasta nebbia della sera, e il poveraccio, cavandosi un momento le
scarpe, seduto sulla panchina, borbottava: - Ah! per questi qui non c'è proprio
la malaria! -
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