Sanno scrivere - qui sta il
guaio. La brinata dell'alba scura, e il sollione della messe, se li pigliano
come tutti gli altri poveri diavoli, giacché son fatti di carne e d'ossa come
il prossimo, per andare a sorvegliare che il prossimo non rubi loro il tempo e
il denaro della giornata. Ma se avete a far con essi, vi uncinano nome e
cognome, e chi vi ha fatto, col beccuccio di quella penna, e non ve ne
districate più dai loro libracci, inchiodati nel debito.
- Tu devi ancora due tumoli di
grano dell'anno scorso.
- Signore, la raccolta fu scarsa!
- È colpa mia se non piovve?
Dovevo forse abbeverare i seminati col bicchiere?
- Signore, gli ho dato il sangue
mio alla vostra terra!
- Per questo ti pago, birbante!
Ti pago a sangue d'uomo! Io mi dissanguo in spese di cultura, e poi se viene la
malannata, mi piantate la mezzeria, e ve ne andate colla falce sotto l'ascella!
-
E dicono pure: - Val più un
pezzente di un potente -; che non si può cavargli la pelle pel suo debito. Per
ciò chi non ha nulla deve pagar la terra più cara degli altri, - il padrone ci
arrischia di più - e se la raccolta viene magra, il mezzadro è certo di non
perder nulla, e andarsene via con la falce sotto l'ascella. Ma l'andarsene in
tal modo è anche una brutta cosa, dopo un anno di fatiche, e colla prospettiva
dell'inverno lungo senza pane.
È che la malannata caccia ad
ognuno il diavolo in corpo. Una volta, alla messe, che pareva scomunicata da
Dio, il frate della cerca arrivò verso mezzogiorno nel podere di don Piddu,
spronando cogli zoccoli nella pancia della bella mula baia, e gridando da
lontano: - Viva Gesù e Maria! -
Don Piddu era seduto su di un
cestone sfondato, guardando tristamente l'aia magra, in mezzo alle stoppie
riarse, sotto quel cielo di fuoco che non lo sentiva nemmeno sul capo nudo,
dalla disperazione.
- Oh! la bella mula che avete,
fra Giuseppe! La val meglio di quelle quattro rozze magre, che non hanno nulla
da trebbiare né da mangiare!
- È la mula della questua -
rispose fra Giuseppe. - Sia lodata la carità del prossimo. Vengo per la cerca.
- Beato voi che senza seminare
raccogliete, e al tocco di campana scendete in refettorio, e vi mangiate la
carità del prossimo! Io ho cinque figli, e devo pensare al pane per tutti loro.
Guardate che bella raccolta! L'anno scorso mi avete acchiappato mezza salma di grano
perché S. Francesco mi mandasse la buonannata, e in compenso da tre mesi non
piovve dal cielo altro che fuoco -.
Fra Giuseppe si asciugava il
sudore anche lui col fazzoletto da naso. - Avete caldo, fra Giuseppe? Ora vi
faccio dare un rinfresco! -
E glielo fece dare per forza da
quattro contadini arrabbiati come lui, che gli arrovesciarono il saio sul capo,
e gli buttavano addosso a secchi l'acqua verdastra del guazzatoio.
- Santo diavolone! - gridava don
Piddu. - Poiché non giova nemmeno far la limosina a Cristo, voglio farla al
diavolo un'altra volta! -
E d'allora non volle più
cappuccini per l'aia, e si contentò che per la questua venissero piuttosto
quelli di San Francesco di Paola.
Fra Giuseppe se la legò al dito.
- Ah! avete voluto veder le mie mutande, don Piddu? Io vi ridurrò senza mutande
e senza camicia! -
Era un pezzo di fratacchione con
tanto di barba, e la collottola nera e larga come un bue di Modica, perciò nei
vicoli e in tutti i cortili era l'oracolo delle comari e dei contadini.
- Con don Piddu non dovete averci
che fare. Guardate che è scomunicato da Dio, e la sua terra ha la maledizione
addosso! -
Quando venivano i missionari,
negli ultimi giorni di carnevale, per gli esercizi spirituali della quaresima,
e se c'era un peccatore o una mala femmina, od anche gente allegra, andavano a
predicargli dietro l'uscio, in processione e colla disciplina al collo pei
peccati altrui, fra Giuseppe additava la casa di don Piddu, che non gliene
andava bene più una: le malannate, la mortalità nel bestiame, la moglie
inferma, le figliuole da maritare, tutte già belle e pronte. Donna Saridda, la
maggiore, aveva quasi trent'anni, e si chiamava ancora donna Saridda perché non
crescesse tanto presto. Al festino del sindaco, il martedì grasso, aveva
acchiappato finalmente uno sposo, ché Pietro Macca dal tinello li aveva visti
stringersi la mano con don Giovannino, mentre andavano annaspando nella
contraddanza. Don Piddu s'era levato il pan di bocca per condurre la figliuola
al festino colla veste di seta aperta a cuore sul petto. Chissà mai! In quella
i missionari predicavano contro le tentazioni davanti il portone del sindaco,
per tutti quei peccati che si facevano là dentro, e dal sindaco dovettero
chiudere le finestre, se no la gente dalla strada rompeva a sassate tutti i
vetri.
Donna Saridda se ne tornò a casa
tutta contenta, come se ci avesse in tasca il terno al lotto; e non dormì
quella notte, pensando a don Giovannino, senza sapere che fra Giuseppe avesse a
dirgli:
- Siete pazzo, vossignoria, ad
entrare nella casata di don Piddu, che fra poco ci fanno il pignoramento? -
Don Giovannino non badava alla
dote. Ma il disonore del pignoramento poi era un altro par di maniche! La gente
si affollava dinanzi al portone di don Piddu, a vedergli portar via gli armadi
e i cassettoni, che lasciavano il segno bianco nel muro dove erano stati tanto
tempo, e le figliuole, pallide come cera, avevano un gran da fare per
nascondere alla mamma, in fondo a un letto, quel che succedeva. Lei, poveretta,
fingeva di non accorgersene. Prima era andata col marito a pregare, a
scongiurare, dal notaio, dal giudice: - Pagheremo domani - pagheremo doman
l'altro -. E tornavano a casa rasente al muro, lei colla faccia nascosta dentro
il manto - ed era sangue di baroni! Il dì del pignoramento donna Saridda, colle
lagrime agli occhi, era andata a chiudere tutte le finestre, perché quelli che
son nati col don vanno soggetti anche alla vergogna. Don Piddu, quando
per carità l'avevano preso sorvegliante alle chiuse del Fiumegrande, nel tempo
delle messe, che la malaria si mangiava i cristiani, non gli rincresceva della
malaria; gli doleva solo che i contadini, allorché questionavano con lui,
mettevano da parte il don, e lo trattavano a tu per tu.
Almeno un povero diavolo, sinché
ha le braccia e la salute, trova da buscarsi il pane. - Quello che diceva don
Marcantonio Malerba, quando cadde in povertà, carico di figliuoli, la moglie
sempre gravida, che doveva fare il pane, preparare la minestra, la biancheria e
scopar le stanze. I galantuomini hanno bisogno di tante altre cose, e sono
avvezzi in altro modo. I ragazzi di don Marcantonio, quando stavano a ventre
vuoto tutto un giorno, non dicevano nulla, ed il più grandicello, se il babbo
lo mandava a comprare un pane a credenza, o un fascio di lattughe, ci andava di
sera, a viso basso, nascondendolo sotto il mantello rattoppato.
Il papà si dava le mani attorno
per buscare qualche cosa, pigliando un pezzo di terra in affitto, o a mezzeria.
Tornava a piedi dalla campagna, più tardi di ogni altro, con quello straccio di
scialle di sua moglie che chiamava pled, e la sua brava giornata di
zappare se la faceva anche lui, quando nella viottola non passava nessuno.
Poi la domenica andava a fare il
galantuomo insieme agli altri nel casino di conversazione, ciaramellando in
crocchio fra di loro, colle mani in tasca e il naso dentro il bavero del
cappotto; o giuocavano a tressette colla mazza fra le gambe e il cappello in
testa. Al tocco di mezzogiorno sgattaiolavano in furia chi di qua chi di là, ed
egli se ne andava a casa, come se ci avesse sempre pronto il desinare anche
lui. - Che posso farci? - diceva. - A giornata non posso andarci coi miei
figli! - Anche i ragazzi, allorché il padre li mandava a chiedere in prestito
mezza salma di farro per la semina, o qualche tumulo di fave per la minestra,
dallo zio Masi, o da massaro Pinu, si facevano rossi, e balbettavano come
fossero già grandi.
Quando venne il fuoco da
Mongibello, e distrusse vigne e oliveti, chi aveva braccia da lavorare almeno
non moriva di fame. Ma i galantuomini che possedevano le loro terre da quelle
parti, sarebbe stato meglio che la lava li avesse seppelliti coi poderi, loro,
i figliuoli e ogni cosa. La gente che non ci aveva interesse andava a vedere il
fuoco fuori del paese, colle mani in tasca. - Oggi aveva preso la vigna del
tale, domani sarebbe entrato nel campo del tal altro; ora minacciava il ponte
della strada, più tardi circondava la casetta a mano destra. Chi non stava a
guardare si affaccendava a levar tegole, imposte, mobili, a sgombrar le camere,
e salvar quello che si poteva, perdendo la testa nella fretta e nella
disperazione, come un formicaio in scompiglio.
A don Marco gli portarono la
notizia mentre era a tavola colla famiglia, dinanzi al piatto dei maccheroni. -
Signor don Marco, la lava ha deviato dalla vostra parte, e più tardi avrete il
fuoco nella vostra vigna -. Allo sventurato gli cadde di mano la forchetta. Il
custode della vigna stava portando via gli attrezzi del palmento, le doghe
delle botti, tutto quello che si poteva salvare, e sua moglie andava a piantare
al limite della vigna le cannucce colle immagini dei santi che dovevano
proteggerla, biascicando avemarie.
Don Marco arrivò trafelato,
cacciandosi innanzi l'asinello, in mezzo al nuvolone scuro che pioveva cenere.
Dal cortiletto davanti al palmento si vedeva la montagna nera che si
accatastava attorno alla vigna, fumando, franando qua e là, con un acciottolìo
come se si fracassasse un monte di stoviglie, spaccandosi per lasciar vedere il
fuoco rosso che bolliva dentro. Da lontano, prima ancora che fossero raggiunti,
gli alberi più alti s'agitavano e stormivano nell'aria queta; poi fumavano e
scricchiolavano; ad un tratto avvampavano e facevano una fiammata sola.
Sembravano delle torce che s'accendessero ad una ad una nel tenebrore della
campagna silenziosa, lungo il corso della lava. La moglie del custode della
vigna andava sostituendo più in qua le cannucce colle immagini benedette, man
mano che s'accendevano come fiammiferi; e piangeva, spaventata, davanti a
quella rovina, pensando che il padrone non aveva più bisogno di custode, e li
avrebbe licenziati. E il cane di guardia uggiolava anch'esso dinanzi alla vigna
che bruciava. Il palmento, spalancato, senza tetto, con tutta quella roba
buttata nel cortile, in mezzo alla campagna spaventata, sembrava tremasse di
paura, mentre lo spogliavano prima di abbandonarlo.
- Che cosa state facendo? -
chiese don Marco al custode che voleva salvare le botti e gli attrezzi del
palmento. - Lasciate stare. Ormai non ho più nulla, e non ho che metterci nelle
botti -.
Baciò il rastrello della vigna
un'ultima volta prima di abbandonarla e se ne tornò indietro, tirandosi per la
cavezza l'asinello.
Al nome di Dio! Anche i
galantuomini hanno i loro guai, e son fatti di carne e di ossa come il prossimo.
Prova donna Marina, l'altra figlia di don Piddu che s'era buttata al ragazzo
della stalla, dacché aveva persa la speranza di maritarsi, e stavano in
campagna pel bisogno, fra i guai; i genitori la tenevano priva di uno straccio
di veste nuova, senza un cane che gli abbaiasse dietro. Nel meriggio di una
calda giornata di luglio, mentre i mosconi ronzavano nell'aia deserta, e i
genitori cercavano di dormire col naso contro il muro, andò a trovare dietro il
pagliaio il ragazzo, il quale si faceva rosso e balbettava ogni volta che ella
gli ficcava gli occhi addosso, e l'afferrò pei capelli onde farsi dare un
bacio.
Don Piddu sarebbe morto di
vergogna. Dopo il pignoramento, dopo la miseria, non avrebbe creduto di poter
cascare più giù. La povera madre lo seppe nel comunicarsi a Pasqua. Una santa,
colei! Don Piddu era chiuso, insieme a tutti gli altri galantuomini, nel
convento dei cappuccini per fare gli esercizi spirituali. I galantuomini si
riunivano coi loro contadini a confessarsi e sentir le prediche; anzi, faceva
loro le spese del mantenimento, nella speranza che i garzoni si convertissero,
se avevano rubato, e restituissero il mal tolto. Quegli otto giorni degli
esercizi spirituali, galantuomini e villani tornavano fratelli come al tempo di
Adamo ed Eva; e i padroni per umiltà servivano a tavola i garzoni colle loro
mani, ché a costoro quella grazia di Dio andava giù di traverso per la
soggezione; e nel refettorio, al rumore di tutte quelle mascelle in moto,
sembrava che ci fosse una stalla di bestiame, mentre i missionari predicavano
l'inferno e il purgatorio. Quell'anno don Piddu non avrebbe voluto andarci,
perché non aveva di che pagare la sua parte, e poi non potevano rubargli più
nulla i suoi garzoni. Ma lo fece chiamare il giudice, e lo mandò a farsi santo
per forza, onde non desse il cattivo esempio. Quegli otto giorni erano una
manna per chi ci avesse da fare nella casa di un povero diavolo, senza timore
che il marito arrivasse improvviso di campagna a guastar la festa. La porta del
convento era chiusa per tutti, ma i giovanotti che avevano da spendere, appena
era notte, sgusciavano fuori e non tornavano prima dell'alba.
Ora don Piddu, dopo che gli
giunsero all'orecchio certe chiacchiere che s'era lasciato scappare fra
Giuseppe, una notte sgattaiolò fuori di nascosto, come se avesse avuto
vent'anni, o l'innamorata che l'aspettasse, e non si sa quel che andò a
sorprendere a casa sua. Certo quando rincasò prima dell'alba era pallido come
un morto, e sembrava invecchiato di cent'anni. Questa volta il contrabbando era
stato sorpreso, e come i donnaiuoli tornavano in convento, trovavano il padre
missionario inginocchiato dietro l'uscio, a pregare pei peccati che gli altri
erano andati a fare. Don Piddu si buttò ginocchioni anche lui, per confessarsi
all'orecchio del missionario, piangendo tutte le lagrime che ci aveva negli
occhi.
Ah! quel che aveva trovato! lì, a
casa sua! in quel camerino di sua figlia che nemmeno c'entrava il sole!... Il
ragazzo di stalla, che scappava dalla finestra; e Marina pallida come una morta
che pure osava guardarlo in faccia, e si afferrava colle braccia disperate allo
stipite dell'uscio per difendere l'amante. Allora gli passarono dinanzi agli
occhi le altre figliuole, e la moglie inferma, e i giudici e i gendarmi, in un mare
di sangue. - Tu! tu! - balbettava. Ella tremava tutta, la scellerata, ma non
rispondeva. Poi cadde sui ginocchi, colle mani giunte come se gli leggesse in
faccia il parricidio. Allora egli fuggì via colle mani nei capelli.
Ma il confessore che gli consigliava
di offrire a Dio quell'angustia, avrebbe dovuto dirgli:
- Vedete, vossignoria, anche gli
altri poveretti, quando gli succede la stessa disgrazia... stanno zitti perché
son poveri, e non sanno di lettera, e non sanno sfogarsi altrimenti che
coll'andare in galera! -
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