Sciorinarono dal campanile un
fazzoletto a tre colori, suonarono le campane a stormo, e cominciarono a
gridare in piazza: - Viva la libertà! -
Come il mare in tempesta. La
folla spumeggiava e ondeggiava davanti al casino dei galantuomini,
davanti al Municipio, sugli scalini della chiesa: un mare di berrette bianche;
le scuri e le falci che luccicavano. Poi irruppe in una stradicciuola.
- A te prima, barone! che hai
fatto nerbare la gente dai tuoi campieri! - Innanzi a tutti gli altri una
strega, coi vecchi capelli irti sul capo, armata soltanto delle unghie. - A te,
prete del diavolo! che ci hai succhiato l'anima! - A te, ricco epulone, che non
puoi scappare nemmeno, tanto sei grasso del sangue del povero! - A te, sbirro!
che hai fatto la giustizia solo per chi non aveva niente! - A te, guardaboschi!
che hai venduto la tua carne e la carne del prossimo per due tarì al giorno! -
E il sangue che fumava ed
ubbriacava. Le falci, le mani, i cenci, i sassi, tutto rosso di sangue! - Ai galantuomini!
Ai cappelli! Ammazza! ammazza! Addosso ai cappelli! -
Don Antonio sgattaiolava a casa
per le scorciatoie. Il primo colpo lo fece cascare colla faccia insanguinata
contro il marciapiede. - Perché? perché mi ammazzate? - Anche tu! al diavolo! -
Un monello sciancato raccattò il cappello bisunto e ci sputò dentro. - Abbasso
i cappelli! Viva la libertà! - Te'! tu pure! - Al reverendo che predicava
l'inferno per chi rubava il pane. Egli tornava dal dir messa, coll'ostia
consacrata nel pancione. - Non mi ammazzate, ché sono in peccato mortale! - La
gnà Lucia, il peccato mortale; la gnà Lucia che il padre gli aveva venduta a 14
anni, l'inverno della fame, e rimpieva la Ruota e le strade di monelli
affamati. Se quella carne di cane fosse valsa a qualche cosa, ora avrebbero
potuto satollarsi, mentre la sbrandellavano sugli usci delle case e sui
ciottoli della strada a colpi di scure. Anche il lupo allorché capita affamato
in una mandra, non pensa a riempirsi il ventre, e sgozza dalla rabbia. - Il
figliuolo della Signora, che era accorso per vedere cosa fosse - lo speziale,
nel mentre chiudeva in fretta e in furia - don Paolo, il quale tornava dalla
vigna a cavallo del somarello, colle bisacce magre in groppa. Pure teneva in
capo un berrettino vecchio che la sua ragazza gli aveva ricamato tempo fa,
quando il male non aveva ancora colpito la vigna. Sua moglie lo vide cadere
dinanzi al portone, mentre aspettava coi cinque figliuoli la scarsa minestra
che era nelle bisacce del marito. - Paolo! Paolo! - Il primo lo colse nella
spalla con un colpo di scure. Un altro gli fu addosso colla falce, e lo sventrò
mentre si attaccava col braccio sanguinante al martello.
Ma il peggio avvenne appena cadde
il figliolo del notaio, un ragazzo di undici anni, biondo come l'oro, non si sa
come, travolto nella folla. Suo padre si era rialzato due o tre volte prima di
strascinarsi a finire nel mondezzaio, gridandogli: - Neddu! Neddu! - Neddu
fuggiva, dal terrore, cogli occhi e la bocca spalancati senza poter gridare. Lo
rovesciarono; si rizzò anch'esso su di un ginocchio come suo padre; il torrente
gli passò di sopra; uno gli aveva messo lo scarpone sulla guancia e glie
l'aveva sfracellata; nonostante il ragazzo chiedeva ancora grazia colle mani. -
Non voleva morire, no, come aveva visto ammazzare suo padre; - strappava il
cuore! - Il taglialegna, dalla pietà, gli menò un gran colpo di scure colle due
mani, quasi avesse dovuto abbattere un rovere di cinquant'anni - e tremava come
una foglia. - Un altro gridò: - Bah! egli sarebbe stato notaio, anche lui! -
Non importa! Ora che si avevano
le mani rosse di quel sangue, bisognava versare tutto il resto. Tutti! tutti i cappelli!
- Non era più la fame, le bastonate, le soperchierie che facevano ribollire la
collera. Era il sangue innocente. Le donne più feroci ancora, agitando le
braccia scarne, strillando l'ira in falsetto, colle carni tenere sotto i
brindelli delle vesti. - Tu che venivi a pregare il buon Dio colla veste di
seta! - Tu che avevi a schifo d'inginocchiarti accanto alla povera gente! -
Te'! Te'! - Nelle case, su per le scale, dentro le alcove, lacerando la seta e
la tela fine. Quanti orecchini su delle facce insanguinate! e quanti anelli
d'oro nelle mani che cercavano di parare i colpi di scure!
La baronessa aveva fatto
barricare il portone: travi, carri di campagna, botti piene, dietro; e i
campieri che sparavano dalle finestre per vender cara la pelle. La folla
chinava il capo alle schiopettate, perché non aveva armi da rispondere. Prima
c'era la pena di morte chi tenesse armi da fuoco. - Viva la libertà! - E
sfondarono il portone. Poi nella corte, sulla gradinata, scavalcando i feriti.
Lasciarono stare i campieri. - I campieri dopo! - I campieri dopo! - Prima
volevano le carni della baronessa, le carni fatte di pernici e di vin buono.
Ella correva di stanza in stanza col lattante al seno, scarmigliata - e le
stanze erano molte. Si udiva la folla urlare per quegli andirivieni,
avvicinandosi come la piena di un fiume. Il figlio maggiore, di 16 anni, ancora
colle carni bianche anch'esso, puntellava l'uscio colle sue mani tremanti,
gridando: - Mamà! mamà! - Al primo urto gli rovesciarono l'uscio addosso. Egli
si afferrava alle gambe che lo capestavano. Non gridava più. Sua madre s'era
rifugiata nel balcone, tenendo avvinghiato il bambino, chiudendogli la bocca
colla mano perché non gridasse, pazza. L'altro figliolo voleva difenderla col
suo corpo, stralunato, quasi avesse avuto cento mani, afferrando pel taglio
tutte quelle scuri. Li separarono in un lampo. Uno abbrancò lei pei capelli, un
altro per i fianchi, un altro per le vesti, sollevandola al di sopra della
ringhiera. Il carbonaio le strappò dalle braccia il bambino lattante. L'altro
fratello non vide niente; non vedeva altro che nero e rosso. Lo calpestavano,
gli macinavano le ossa a colpi di tacchi ferrati; egli aveva addentato una mano
che lo stringeva alla gola e non la lasciava più. Le scuri non potevano colpire
nel mucchio e luccicavano in aria.
E in quel carnevale furibondo del
mese di luglio, in mezzo agli urli briachi della folla digiuna, continuava a
suonare a stormo la campana di Dio, fino a sera, senza mezzogiorno, senza
avemaria, come in paese di turchi. Cominciavano a sbandarsi, stanchi della
carneficina, mogi, mogi, ciascuno fuggendo il compagno. Prima di notte tutti
gli usci erano chiusi, paurosi, e in ogni casa vegliava il lume. Per le
stradicciuole non si udivano altro che i cani, frugando per i canti, con un
rosicchiare secco di ossa, nel chiaro di luna che lavava ogni cosa, e mostrava
spalancati i portoni e le finestre delle case deserte.
Aggiornava; una domenica senza
gente in piazza né messa che suonasse. Il sagrestano s'era rintanato; di preti
non se ne trovavano più. I primi che cominciarono a far capannello sul sagrato
si guardavano in faccia sospettosi; ciascuno ripensando a quel che doveva avere
sulla coscienza il vicino. Poi, quando furono in molti, si diedero a mormorare.
- Senza messa non potevano starci, un giorno di domenica, come i cani! - Il
casino dei galantuomini era sbarrato, e non si sapeva dove andare a
prendere gli ordini dei padroni per la settimana. Dal campanile penzolava
sempre il fazzoletto tricolore, floscio, nella caldura gialla di luglio.
E come l'ombra s'impiccioliva
lentamente sul sagrato, la folla si ammassava tutta in un canto. Fra due
casucce della piazza, in fondo ad una stradicciola che scendeva a precipizio,
si vedevano i campi giallastri nella pianura, i boschi cupi sui fianchi
dell'Etna. Ora dovevano spartirsi quei boschi e quei campi. Ciascuno fra sé
calcolava colle dita quello che gli sarebbe toccato di sua parte, e guardava in
cagnesco il vicino. - Libertà voleva dire che doveva essercene per tutti! -
Quel Nino Bestia, e quel Ramurazzo, avrebbero preteso di continuare le
prepotenze dei cappelli! - Se non c'era più il perito per misurare la
terra, e il notaio per metterla sulla carta, ognuno avrebbe fatto a riffa e a
raffa! - E se tu ti mangi la tua parte all'osteria, dopo bisogna tornare a
spartire da capo? - Ladro tu e ladro io -. Ora che c'era la libertà, chi voleva
mangiare per due avrebbe avuto la sua festa come quella dei galantuomini!
- Il taglialegna brandiva in aria la mano quasi ci avesse ancora la scure.
Il giorno dopo si udì che veniva a
far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le
camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il
paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per schiacciarli
tutti. Ma nessuno si mosse. Le donne strillavano e si strappavano i capelli.
Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra
le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile
arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a
tutti, solo.
Il generale fece portare della
paglia nella chiesa, e mise a dormire i suoi ragazzi come un padre. La mattina,
prima dell'alba, se non si levavano al suono della tromba, egli entrava nella
chiesa a cavallo, sacramentando come un turco. Questo era l'uomo. E subito
ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i
primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso
al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva
dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono
dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli
usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.
Dopo arrivarono i giudici per
davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal
viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli
accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo
- ahi! - ogni volta che mutavano lato. Un processo lungo che non finiva più. I
colpevoli li condussero in città, a piedi, incatenati a coppia, fra due file di
soldati col moschetto pronto. Le loro donne li seguivano correndo per le lunghe
strade di campagna, in mezzo ai solchi, in mezzo ai fichidindia, in mezzo alle
vigne, in mezzo alle biade color d'oro, trafelate, zoppicando, chiamandoli a
nome ogni volta che la strada faceva gomito, e si potevano vedere in faccia i
prigionieri. Alla città li chiusero nel gran carcere alto e vasto come un
convento, tutto bucherellato da finestre colle inferriate; e se le donne
volevano vedere i loro uomini, soltanto il lunedì, in presenza dei guardiani,
dietro il cancello di ferro. E i poveretti divenivano sempre più gialli in
quell'ombra perenne, senza scorgere mai il sole. Ogni lunedì erano più
taciturni, rispondevano appena, si lagnavano meno. Gli altri giorni, se le
donne ronzavano per la piazza attorno alla prigione, le sentinelle minacciavano
col fucile. Poi non sapere che fare, dove trovare lavoro nella città, né come
buscarsi il pane. Il letto nello stallazzo costava due soldi; il pane bianco si
mangiava in un boccone e non riempiva lo stomaco; se si accoccolavano a passare
una notte sull'uscio di una chiesa, le guardie le arrestavano. A poco a poco
rimpatriarono, prima le mogli, poi le mamme. Un bel pezzo di giovinetta si
perdette nella città e non se ne seppe più nulla. Tutti gli altri in paese
erano tornati a fare quello che facevano prima. I galantuomini non
potevano lavorare le loro terre colle proprie mani, e la povera gente non
poteva vivere senza i galantuomini. Fecero la pace. L'orfano dello
speziale rubò la moglie a Neli Pirru, e gli parve una bella cosa, per
vendicarsi di lui che gli aveva ammazzato il padre. Alla donna che aveva di
tanto in tanto certe ubbie, e temeva che suo marito le tagliasse la faccia,
all'uscire dal carcere, egli ripeteva: - Sta tranquilla che non ne esce più -.
Ormai nessuno ci pensava; solamente qualche madre, qualche vecchiarello, se gli
correvano gli occhi verso la pianura, dove era la città, o la domenica, al
vedere gli altri che parlavano tranquillamente dei loro affari coi galantuomini,
dinanzi al casino di conversazione, col berretto in mano, e si persuadevano che
all'aria ci vanno i cenci.
Il processo durò tre anni,
nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati
parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati
al tribunale. Tutti quelli che potevano erano accorsi dal villaggio: testimoni,
parenti, curiosi, come a una festa, per vedere i compaesani, dopo tanto tempo,
stipati nella capponaia - ché capponi davvero si diventava là dentro! e Neli
Pirru doveva vedersi sul mostaccio quello dello speziale, che s'era imparentato
a tradimento con lui! Li facevano alzare in piedi ad uno ad uno. - Voi come vi
chiamate? - E ciascuno si sentiva dire la sua, nome e cognome e quel che aveva
fatto. Gli avvocati armeggiavano, fra le chiacchiere, coi larghi maniconi
pendenti, e si scalmanavano, facevano la schiuma alla bocca, asciugandosela
subito col fazzoletto bianco, tirandoci su una presa di tabacco. I giudici
sonnecchiavano, dietro le lenti dei loro occhiali, che agghiacciavano il cuore.
Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati,
che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo
si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di
quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti
cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di
loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell'uscio
chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla
pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: - Sul mio onore e
sulla mia coscienza!...
Il carbonaio, mentre tornavano a
mettergli le manette, balbettava: - Dove mi conducete? - In galera? - O perché?
Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la
liberta!... -
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