C'era andato a portare un paniere
di bottiglie, di quelle col collo inargentato, nel palco della contessa, e
s'era fermato col pretesto di aspettare che le vuotassero; tanto, in cinque
com'erano nel palchetto, non potevano asciugarle tutte, e qualcosa sarebbe
rimasta anche in fondo ai piatti. Sicché alle sue donne aveva detto: -
Aspettatemi alla porta del teatro, in mezzo alla gente che sta a veder passare
i signori -.
Lì, sull'uscio del palchetto, i
servitori lo guardavano in cagnesco, coi loro faccioni da prete, ché i padroni
stessi, là dentro il palco, come li aveva visti da una sbirciatina attraverso
il cristallo, non stavano così impalati e superbiosi come quei servitori nelle
loro livree nuove fiammanti.
Nel palco era un va e vieni di
signori colla cravatta bianca, e il fiore alla bottoniera, come i lacchè delle
carrozze di gala, che pareva un porto di mare. E ogni volta che l'uscio si
apriva arrivava come uno sbuffo di musica e d'allegria, una luminaria di tutti
i palchetti di faccia, e una folla di colori rossi, bianchi, turchini, di
spalle e di braccia nude, e di petti di camicia bianchi. Anche la contessa
aveva le spalle nude e le voltava al teatro, per far vedere che non gliene
importava nulla. Un signore che le stava dietro, col naso proprio sulle spalle,
le parlava serio serio, e non si muoveva più di lì, che doveva sentir di buono
quel posto. L'altra amica, una bella bionda, badava invece a rosicarsi il
ventaglio, guardando di qua e di là fuori del palco, come se cercasse un terno
al lotto, e si voltava ogni momento verso l'uscio del corridoio, con quei suoi
occhi celesti e quel bel musino color di rosa, tanto che il povero Pinella si
faceva rosso in viso, come c'entrasse per qualcosa anche lui.
Ah, la Luisina che era lì fuori,
nella folla, non gli era sembrata fatta di quella pasta nemmeno quando
l'aspettava alla porta dei padroni, via S. Antonio, la domenica, che s'erano
picchiati col servitore del pian di sotto, il quale pretendeva che la Luisina
desse retta a lui, perché ci aveva il soprabitone coi bottoni inargentati.
Quest'altro, quel faccione da
prete, impalato dietro l'uscio, gli disse: - E lei? Cosa sta ad aspettare qui?
- Aspetto le bottiglie, - rispose
Pinella.
- Le bottiglie? Gliele daremo
poi, le bottiglie; dopo cena. C'è tempo, c'è tempo.
- Fossi matto! - pensava Pinella
sgattaiolando pel corridoio. - Di qui non mi muovo! -
Egli aveva visto che il suo
padrone di casa per entrare in teatro aveva pagato 10 lire, sbuffando,
ansimando pel grasso, rosso come un tacchino dentro il suo zimarrone di
pelliccia, tastando i biglietti nel portafogli colle dita corte. Fortuna che
non aveva scorto Pinella, se no gli chiedeva lì stesso i denari della pigione.
Egli era già salito due volte
sino al quinto piano, soffiando, per riscuoterli. Ma la Luisina aveva
acchiappato un reuma alla gamba, collo star di notte a vendere il caffè sotto
l'arco della Galleria, e quei pochi soldi che buscava la Carlotta vendendo
paralumi per le strade e nei caffè, se n'erano andati tutti in quel mese che la
mamma era stata in letto.
Per le scale, e nei corridoi,
c'era folla anche là. Mascherine che strillavano e si rincorrevano; signore
incappucciate, giovanotti col cappello sotto il braccio che le appostavano a
chiacchierare sottovoce in un cantuccio all'oscuro. Pinella riuscì a ficcarsi
in un andito, fra le assi del palcoscenico, dietro una gran tela dipinta, dove
c'erano degli strappi che parevano fatti apposta per mettervi un occhio. Là si
stava da papa. Sembrava una lanterna magica. Vedevasi tutto il teatro, pieno
zeppo, dappertutto fin sulle pareti, per cinque piani. Lumi, pietre preziose,
cravatte bianche, vesti di seta, ricami d'oro, braccia nude, gambe nude, gente
tutta nera, strilli, colpi di gran cassa, squilli di tromba, stappare di bottiglie,
un brulichio, una baraonda.
- Bello! eh? - gli soffiò dietro
le orecchie un ragazzone che era entrato di straforo come lui.
- Eccome! - esclamò Pinella - E'
si divertono per 10 lire! - Lì davanti, su di una panca a ridosso della scena,
erano sedute due mascherine, e cercavano di esser sole anche loro, perché
avevano un mondo di cose da dirsi. Lui, il giovanotto, gliele lasciava cascare
sul collo, che la ragazza aveva bianco e delicato, così che quei ricciolini
sulla nuca tremavano come avessero freddo, e le spalle pure trasalivano, e si
facevano rosse mentre ella chinava il capo, non ricordandosi neppure che ci
aveva la maschera sul viso.
- La ci casca! La casca! -
gongolava il vicino di Pinella. Ma il povero Pinella in quel momento osservava
che la ragazza era magrolina e aveva i capelli castagni come la Carlotta. E
l'altro insisteva, insisteva, col fiato caldo sul collo di lei, che avvampava
quasi ci si scaldasse, e ritirava pian piano gli stivalini di raso sotto la
panca, come per nascondere le gambe nude, nella maglia color di rosa, che
luccicava qua e là, e sembrava arrossire anch'essa.
Ah, la Carlotta aspettava di
fuori, al freddo, è vero; ma Pinella era più contento così. - La ci va! La ci
va! - continuava il suo vicino. La ragazza s'era levata, per forza, col mento
sul petto, e il seno che si contraeva come un mantice, sotto i ricami d'oro
falso. L'altro le aveva preso il braccio, e la tirava, la tirava. Ella si
lasciava tirare, passo passo, colle gambe nude che esitavano l'una dietro
l'altra. - Tombola! - urlò loro dietro il ragazzaccio. E sparvero nella folla.
Pinella se ne andò anche lui col
cuore grosso, pensando che una volta aveva sorpreso la Carlotta in piazza della
Rosa, a chiacchierare con un giovanotto, proprio come quest'altro, colle guance
rosse e il mento sul petto. Ella aveva trovato il pretesto che il giovanotto
era un avventore il quale aveva bisogno di una dozzina di paralumi, a casa sua.
A cavalcioni sul parapetto di un
palco in prima fila si vedeva una ragazza, vestita all'incirca tal quale
l'aveva messa al mondo sua madre, e a viso scoperto, che era bello come il
sole, e non aveva bisogno di nasconder nulla. Colle gambe che lasciava
spenzolare fuori del palco, minacciava tutti quelli che le venivano a tiro,
giovani, vecchi, signori, quel che fossero, e se uno non chinava il capo nel
passare dinanzi a lei, glielo faceva chinare per forza. Né ci era da aversela a
male, tanto era bella e allegra col bicchiere in mano e le braccia bianche
levate in alto; e conosceva tutti, e li chiamava col tu per nome a uno ad uno.
Ad un bel giovane che le sorrideva sotto il palco, ritto e fiero ella gli vuotò
sul capo il bicchiere di sciampagna.
- Questo qui, - disse uno nella
folla, - s'è maritato che non è un mese, e la sposa è lì che guarda, in seconda
fila -.
La sposa in seconda fila, tutta
bianca e col viso di ragazza, stava a vedere, seria seria, e con grand'occhi
intenti.
- Adesso, - pensò Pinella, l'è
ora di andare dalla contessa, per le bottiglie -.
Nel palco colle cortine rosse
calate, dopo l'allegria di prima, s'erano fatti tutti seri e taciturni, che non
vedevano l'ora di andarsene, e posavano i gomiti sulla tavola, carica di lumi e
d'argenterie, coi mazzi di fiori da cento lire buttati in un canto.
Nello stanzino dirimpetto i
servitori mangiavano in fretta, mentre sparecchiavano, imboccando le bottiglie
a guisa di trombetta, appena fuori del palco, cacciando i guanti nelle salse e
nei dolciumi, lustri e allegri come mascheroni di fontana. Quello del faccione,
il superbioso, appena vide arrivare Pinella, cominciò a sclamare: - Corpo!... -
e voleva mandarlo via. Ma un vecchietto tutto bianco e raggricchiato in una
livrea color marrone, disse:
- No! No! lasciatelo stare. Ce
n'è per tutti. È carnevale, allegria! allegria! -
Anzi gli tagliò una bella fetta
di pasticcio, e un altro, colla bocca piena, bofonchiò:
- E' costa cento lire -.
Il vecchiotto, rizzando su la
personcina, aggiunse: - Quando stavo col duca, nel palco, a ogni veglione, si
stappavano delle bottiglie per più di 1000 lire -.
- Presto! presto! - venne a dire
il faccione, forbendosi il mento in furia con una tovaglia sudicia. - I padroni
hanno ordinato le carrozze -.
A Pinella, sembrava invece che
andavano via sul più bello, e mentre raccoglieva le bottiglie non sapeva
capacitarsi perché si sciupassero tanti denari e tanti pasticci da 100 lire se
ci si annoiava così presto. Ora che aveva bevuto si sentiva anch'egli il caldo
e la smania dell'allegria. I palchi cominciavano a vuotarsi, e dagli usci
spalancati intanto si vedeva la folla irrompere di nuovo in platea come un
fiume, coi volti accesi, i capelli arruffati, le vesti discinte, le maglie
cascanti, le cravatte per traverso, i cappelli ammaccati, strillando,
annaspando, pigiandosi, urlando, in mezzo al suono disperato dei tromboni, ai
colpi di gran cassa; e un tanfo, una caldura, una frenesia che saliva da ogni
parte, un polverìo che velava ogni cosa, denso, come una nebbia, sulla galoppa
che girava in fondo a guisa di un turbine, e da un canto, in mezzo a un cerchio
di signori in cravatta bianca, pallidi, intenti, ansiosi, che facevano largo
per vedere, una coppia più sfrenata delle altre, cogli occhi schizzanti fuori
della maschera come pezzi di carbone acceso, i denti bianchi, ghignando, il
viso smorto, la testa accovacciata, gli omeri che scappavano dal busto, le
gambe nude che s'intrecciavano, con molli contorcimenti dei fianchi. E in
seconda fila lassù, la bella sposina dal viso di ragazza, tutta bianca, ritta
dinanzi al parapetto, che spalancava gli occhi curiosi, indugiando, mentre suo
marito le poneva la mantiglia sulle spalle, e trasaliva al contatto dei guanti
di lui.
La Luisina e la Carlotta
aspettavano alla porta del teatro, nella piazza bianca di neve, col viso rosso,
battendo i piedi e soffiando sulle dita in mezzo alla folla che spalancava gli
occhi per veder passare le belle dame imbacuccate nelle pellicce bianche,
dietro i vetri scintillanti delle carrozze. E ad ogni modesto legno di piazza
che si avanzava barcollando, la Carlotta guardava le coppie misteriose che vi
montavano, accompagnava le gambe in maglia color di rosa cogli stessi grandi
occhi avidi e curiosi della sposina tutta bianca, che era in seconda fila.
|