Matilde cercò cogli occhi la
Santina, entrando nella bottega della sarta. Indi le si mise accanto, e disse
piano: - Sai? Poldo piglia moglie -.
Santina avvampò in viso; poi si
fece smorta, e chinò la testa sul lavoro. Non disse nulla; non ci credeva; ma
il cuore le si gonfiava di certi presentimenti che adesso le tornavano dinanzi
agli occhi. Solo le tremava il labbro nel frenare le lagrime.
Appena poté inventare un pretesto
per uscire corse al Municipio, e lesse coi suoi occhi: «Leopoldo Bettoni con
Ernestina Mirelli, agiata». Tornando in bottega, cogli occhi gonfi, si buscò
una buona lavata di capo.
La sera volle parlargli ad ogni
costo. Da un pezzo egli le diceva: - Faccio tardi all'officina. C'è un lavoro
da terminare -. Il Renna, che lavorava da indoratore insieme con lui, s'era
messo a ridere. - Non dia retta, sora Santina. Le son storie da contare ai
morti -. La mamma, al vedere che tornava a uscire, stralunata, l'afferrava per
le vesti. - Dove corri? A quest'ora... - Ella non diceva altro: - Lasciatemi
andare. Lasciatemi andare... - cogli occhi fissi. Chi la incontrava così tardi,
al vederla correre sul marciapiedi con quella faccia, si fermava a sbirciarla
sotto il naso; oppure le buttava dietro un pissi pissi. Ma ella non vedeva e
non udiva. Finalmente scoprì Poldo in fondo al caffè delle Cinque Vie, seduto
in un crocchio, che guardava pensieroso il bicchiere. Quando uscì sulla strada
seguitava a guardarsi attorno come un ladro. Pareva che il cuore glielo
dicesse. Ella lo afferrò pel gomito, allo svolto della cantonata. - È vero che
prendi moglie? - Poldo giurava di no, colle braccia in croce. Infine disse: -
Senti, io non ho nulla. Tu neppure non hai nulla. Si farebbe un bel marrone
tutti e due -.
Cotesto non glielo aveva detto
prima, quando le stava attorno innamorato, e le sussurrava quelle parole
traditrici che le facevano squagliare il cuore dentro il petto. Con tali parole
s'era lasciata prendere in quella stanza dell'osteria di Gorla, col ritratto
del Re e di Garibaldi che le si erano stampati in mente. Ora egli se ne andava
passo passo per la sua strada, col dorso curvo.
Da principio sembrava che il
cuore le morisse dentro il petto. Poscia a poco a poco si rassegnò. Matilde le
diceva: - Sciocca, ne troverai cento altri, non dubitare -. Le compagne
cianciavano e ridevano tutto il giorno, e il sabato facevano dei progetti per
la festa. Dalla finestra si vedeva il sole di primavera, sui tetti rossi, nei
terrazzini pieni di fiori. Allora tornavano a gonfiarlesi in cuore piene di
lagrime le parole dolci di Poldo. La domenica per lei spuntava triste, in
quella malinconia di via Armorari, e pensava, pensava, coi gomiti appoggiati al
davanzale, guardando le botteghe tutte chiuse.
Il Renna, di sopra, stava alla
finestra per vedere la Santina affacciata a capo chino, che scopriva la nuca
bianca. Non usciva neppur lui. Poscia le buttava dei sassolini. Ella si
voltava, col viso in su, e rideva. Era l'unico suo sorriso. Una sera di luna
piena, mentre arrivava sin là la canzone della strada, il Renna scese al pian
disotto, e Santina uscì sul pianerottolo ad attinger l'acqua. Il giovanotto le
prese tutte e due le mani che reggevan la secchia, ed ella gliele lasciò
chinando il capo, nella luna piena che allagava il balcone.
Pure non voleva, no; perché a
poco a poco aveva preso a volergli bene come a quell'altro, e temeva del poi.
Ma il Renna sapeva che ella aveva avuto Poldo per amante, e glielo rinfacciava
a ogni momento. Allora Santina dovette piegare il capo anche a costui, per
provargli che gli voleva bene. Stavolta fu all'Isola Bella, dopo un desinare
che si sentiva la testa pesa come il piombo. Poscia guardava tutta sconfortata
gli orti e i prati che impallidivano al tramonto, mentre il Renna fumava alla
finestra, in maniche di camicia.
E le disse pure: - Abbiamo fatto
un bel marrone! - Sapeva che Beppe, il fratello della ragazza, era un
giovanotto schizzinoso, di quelli che non amano far ridere alle proprie spalle.
Motivo per cui a poco a poco andava raffreddandosi coll'amante. - Tu sei troppo
imprudente, cara mia! Fai le cose in modo da aprire gli occhi a un cieco -.
Santina taceva e si struggeva in silenzio. Poi il Renna la esaminava dalla
testa ai piedi con un'occhiata. - Cos'hai? Hai un certo viso! Il marrone?... -
Allora scoprì pure che egli sgomberava adagio adagio dalla stanza di sopra. Lo
sorprese per la scala con un baule sulle spalle. - Te ne vai? Mi pianti? -
Anch'egli negava, colle braccia in croce, come quell'altro. Infine gli scappò
la pazienza. - Ebbene, cosa vuoi? Già sai che non son stato il primo...
Ella voleva buttarsi dalla
finestra, se non fosse stata la paura. La maestra arriciava il naso appena la
vedeva entrare in bottega, accasciata, col viso gonfio e disfatto, con tanto di
pèsche agli occhi. La spogliava dalla testa ai piedi al pari del Renna, con
certe occhiate che le leggevano in faccia la vergogna. Infine, quando fu certa
di non ingannarsi, le diede il fatto suo, un sabato sera, dietro il banco -
cinque lire e ottanta centesimi. - A Santina le pareva di morire. Ma la padrona
con un risolino agro ripeteva: - È inutile piangere adesso. Dovevi pensarci
prima! - La mamma cacciandosi le mani nei capelli, balbettava: - Cosa hai
fatto? Cosa hai fatto? disgraziata! Se lo sapesse tuo fratello!... -
Costui appena venne in chiaro
della cosa andò a prendere il Renna per il collo, in via Camminadella. - Ti
voglio mangiare il fegato, traditore! - Dopo lo portarono a casa colla testa
rotta. - Non è nulla, - diceva. - Ma voglio lavarmi il disonore col sangue di
quella sciagurata! Se non va via di casa voglio ammazzare anche lei! - La
poveretta scappò come si trovava, la vigilia di Natale. Quel giorno Beppe,
contento e all'oscuro di tutto, aveva portato un panettone. La mamma di
nascosto le mandò qualche soldo nel fagottino della roba. Le sue compagne non
ne seppero più nulla. Dopo tre mesi all'improvviso Matilde se la vide capitare
in casa pelle e ossa, in cerca di lavoro. - Del lavoro?... è difficile, sai; la
maestra... - No! No lei! - Ma allora... Non saprei... Poverina, come sei
ridotta! Ora che farai? - Non so. - E lui, Poldo? - Non so. - Fàtti animo.
Tornerai bella come prima, vedrai! - Santina non aveva altro da dire, e se ne
andava a capo chino. Matilde la richiamò sull'andito. - Dove andrai? - Non so.
- Senti, se pigli un altro amante, apri bene gli occhi stavolta, che non sia
uno spiantato -.
Invece prese un bel giovanotto,
ricco come un principe, e buono come il Signore Iddio; tanto che alla poveretta
non le pareva vero, e non voleva crederci ogni volta che egli l'aspettava sotto
il portico di piazza Mercanti, mentre essa andava a riportare il lavoro di
cucito in via Broletto, e le si attaccava alla cintola. - Angelo! Biondina
d'oro! - No! Signore Iddio! Mi lasci andare pei fatti miei! - Una sera egli la
seguì per la scaletta di casa sua, in via del Pesce, innamorato sino agli
occhi. Voleva che lo mettesse alla prova se le voleva bene. Spese per lei dei
gran denari; le fece abbandonare la camiciaia di via Broletto; le prese in
affitto un bel quartierino in via Manara.
Spesso la conduceva al Fossati, e
in campagna. Le belle passeggiate nel Parco di Monza, tutto di verde e
d'azzurro, colle folte ombrìe dei grandi alberi dove dormivano le viole e i pan
porcini, e le stelle che filavano silenziose sul loro capo al ritorno, mentre
egli le posava la testa fine sulle ginocchia, cullati dalla carrozza! Le pareva
di sognare. Cercava di leggergli negli occhi cosa dovesse fare per meritarsi
quel paradiso. Anch'esso da qualche tempo sembrava che sognasse. La fissava
pensieroso. Rispondeva: - Nulla, non ci badare; ho delle seccature -. Un giorno
le disse ridendo che suo padre era furibondo contro di lei. Aveva il sorriso
pallido. In seguito perse anche quel sorriso. Sovente veniva tardi, di cattivo
umore. L'abbracciava in un certo modo per dirle: - Ti voglio tanto bene, sai! -
In un momento d'abbandono le confidò che era soprapensiero per certe cambiali;
i creditori non volevano aspettare più. Suo padre in collera protestava che non
gli avrebbe dato un soldo se non mutava via. Santina chinava il capo
tristemente, col martello di perdere il suo amore; giacché non le passava
neppure pel capo che potesse sposar lei. Egli dovette andare a Genova per due o
tre giorni onde aggiustare i suoi affari. Al momento di partire, sotto la
tettoia della stazione, le aveva detto: - Non dubitare, non dubitare! - colla
voce ancora innamorata. Le aveva promesso di scriverle ogni giorno. Ogni giorno
Santina andava alla posta a prendere le sue lettere, per tre mesi. Infine ne
arrivò un'ultima in cui egli scriveva: «Che posso farci? Mio padre vuole che
pigli moglie ad ogni costo». E le mandava un vaglia di mille lire. Un signore
che passava dovette afferrarla per il braccio onde non cadesse sotto l'omnibus
di Porta Romana.
Ora ella portava i cappelloni a
piume, e gli stivalini col tacco alto come la Matilde. La videro in brum chiuso
con un ufficiale di cavalleria. Al veglione del Dal Verme prese un premio; e
una volta di nascosto mandò cinquanta lire alla mamma. Il giorno dello Statuto
in piazza del Duomo le passò a lato Poldo, e la sbirciò dicendo qualche cosa
all'orecchio della moglie, una grassona la quale si mise a ridere scotendo il
ventre.
Però ebbe giorni di fortuna. Un
signore forestiero le pagò un mese di allegra vita e di vetture di rimessa.
Poscia fece le sue valigie anche lui, e le lasciò qualche migliaio di lire,
tutte in ori e fronzoli, che le mangiò un commesso viaggiatore. Un maestro di
musica, malato di petto, che moriva di fame e credeva d'attaccarsi alla vita
buttandole le braccia al collo, le promise di sposarla. Ella, quantunque non ci
credesse più, fece una vita da santa tutto il tempo che rimase con lui, in una
soffitta, a cavarsi gli occhi per comprargli le medicine. Stettero anche
quarantotto ore senza mangiare né lei né il suo amante, rannicchiati su uno
strapunto sotto l'abbaino. Infine l'accompagnò al cimitero di Porta Magenta,
lei sola, col cuore stretto da quella giornata trista di febbraio tutta bianca
di neve. La sera andò in una scuola di ballo per cercar da cena.
Poi scese giù nella strada; fece
la dolorosa via crucis della Galleria e di Via Santa Margherita,
nell'ora triste della caccia al pranzo, tremante di freddo sotto il mantello di
seta, col viso pallido di cipria, sorridendo a tutti colle labbra affamate,
scutrettolando coi piedi gonfi rasente agli uomini che la salutavano con
un'occhiata sprezzante; senza ripugnanze, senza simpatie, senza stanchezza,
senza sonno, senza lagrime, senza un briciolo della sua sciagurata bellezza che
le appartenesse più. Una notte di carnevale, in un'orgia, Poldo volle comprare
da lei un bacio coi denari della moglie, ed essa glielo diede, sulla bocca
avvinazzata.
La stagione era ancora rigida.
Lassù nella sua cameruccia sotto i tetti l'acqua gelava nel catino. Se entrava
in un caffè per riscaldarsi, il cameriere, in cravatta bianca, le sussurrava
qualche parola all'orecchio, ed ella tornava al alzarsi a capo chino. Di fuori,
alla luce appannata delle grandi invetriate, passavano delle ombre
impellicciate come lei sotto un cappellone piumato. Dietro, i questurini, passo
passo. Gli uomini camminavano frettolosi, col bavero rialzato e il sigaro in
bocca. Ella sorrideva, colle labbra riarse.
Piazza del Duomo tutta bianca di
neve, Santa Margherita colle vetrine scintillanti del Bocconi; lì delle lunghe
stazioni all'alito dei sotterranei riscaldati che veniva dalle finestre a
livello del marciapiede. La gente passava sogghignando. Indi piazza della
Scala, come un camposanto, il teatro sfavillante di lumi, i caffè nella nebbia
calda del gas, e di nuovo la Galleria, alta, sonora, coll'arco immenso
spalancato sull'altra piazza bianca di neve; e dietro sempre il passo sonoro
dei questurini che la scacciavano avanti, sempre avanti. Un vecchietto curvo la
sbirciò arricciandosi i baffi tinti. La poveretta sorrideva sempre inutilmente,
colle labbra pallide. Infine s'avvicinò a una di quelle ombre che al par di lei
passeggiavano eternamente sotto il cappellone piumato, e le disse qualche
parola sottovoce. L'altra si strinse nelle spalle. Un signore passava senza
darle retta. Poscia tornò indietro e le mise qualcosa nella mano. Allora,
chiusa nel suo mantello di seta, colle piume del cappellone sul viso
infarinato, andò a comprare del pane. E il garzone le sghignazzava dietro,
tornando a sedere dietro il banco accanto alla ragazza che leggeva il Secolo,
mentre l'altra si allontanava col pane sotto il mantello di seta, come una
regina.
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