La donna dell'uovo glielo aveva
predetto alla sora Arlìa: - Sarai contenta, ma prima passerai dei guai -.
Chi l'avrebbe immaginato quando
sposò il Manica colla sua bella bottega di barbiere in via dei Fabbri, lei
pettinatora anch'essa, giovani e sani tutti e due! Solo don Calogero, suo zio,
non aveva voluto benedire quel matrimonio - per lavarsene le mani come Pilato -
diceva. Sapeva come fossero tutti tisici di padre in figlio a casa sua, ed era
riescito a mettere un po' di pancia collo scegliere la vita quieta del
prevosto.
- Il mondo è pieno di guai, -
predicava don Calogero. - Ed è meglio starsene alla larga -.
I guai infatti erano venuti a
poco a poco. Arlìa, sempre incinta da un anno all'altro, che le clienti stesse
disertavano per la malinconia di vederla arrivare col fiato ai denti, e quel
castigo di Dio della pancia grossa. Poi le mancava il tempo di stare in giorno
colla moda. Suo marito aveva sognato una gran bottega da parrucchiere nel
Corso, colle profumerie nella vetrina; ma aveva un bel radere barbe a tre soldi
l'una. I figliuoli si facevano tisici uno dopo l'altro, e prima d'andarsene al
camposanto si mangiavano colla propria carne il poco guadagno dell'annata.
Angiolino, che non voleva morire
così giovane, si lamentava nella febbre: - Mamma, perché m'avete messo al
mondo? - Tale e quale come gli altri suoi fratelli morti prima. La mamma,
allampanata, non sapeva che rispondere, dinanzi al letticciuolo. Avevano fatto
l'impossibile; s'erano mangiato il cotto e il crudo: brodi, medicine, pillole
piccine come capocchie di spilli. Arlìa aveva speso tre lire per una messa, ed
era andata ad ascoltarla ginocchioni in S. Lorenzo, picchiandosi il petto pei
suoi peccati. La Vergine nel quadro sembrava che ammiccasse di sì cogli occhi.
Ma il Manica, più giudizioso, si metteva a ridere colla bocca storta,
grattandosi la barba. Infine la povera madre afferrò il velo come una pazza, e
corse dalla donna dell'uovo. Una contessa che voleva tagliarsi i capelli dalla
disperazione dell'amante ci aveva trovata la consolazione.
- Sarai contenta, ma prima passerai
dei guai, - le rispose quella dell'uovo.
Lo zio prete aveva un bel dire: -
Tutte imposture di Satanasso! - Bisogna provare cosa sia avere il cuore nero
d'amarezza, mentre s'aspetta la sentenza, e quella vecchia vi legge il vostro
destino tutto in un bianco d'uovo! Dopo le pareva di trovare a casa il
figliuolo alzato, che le dicesse allegro: - Mamma, sono guarito -.
Invece il ragazzo se ne andava a
oncia a oncia, stecchito nel lettuccio, e quegli occhi se lo mangiavano. Don
Calogero, che di morti se ne intendeva, come veniva a vedere il nipote, si
chiamava poi in disparte la mamma, e le diceva: - Pei funerali me ne incarico
io. Non ci pensate -.
Però la sventurata sperava
sempre, accanto al capezzale. Alle volte, quando saliva anche Manica a sentire
del figliuolo, colla barba lunga di otto giorni e il dorso curvo, provava
compassione di lui che non ci credeva. Come doveva patirci il poveretto! Ella
almeno aveva in cuore le parole della donna dell'uovo, come un lume acceso,
sino al momento in cui lo zio prete s'assise ai piedi del letto colla stola.
Poi, quando si portarono via la sua speranza nella bara del figliuolo, le parve
che si facesse un gran buio dentro il suo petto. E balbettava dinanzi a quel
lettuccio vuoto: - O dunque cosa m'aveva promesso quella dell'uovo? -. Suo
marito dal crepacuore aveva preso il vizio di bere. Infine, adagio adagio, si
fece una gran calma nel suo cuore. Tale e quale come prima. Ora che i guai
l'erano caduti tutti sulle spalle sarebbe venuta la contentezza. Ai poveretti accade
spesso così.
Fortunata, l'ultima che le
restasse di tanti figli, si alzava la mattina pallida e colle pèsche color di
madreperla agli occhi, a simiglianza dei fratelli che eran morti tisici. Le
clienti stesse la lasciavano ad una ad una, i debiti crescevano, la bottega si
vuotava. Manica, suo marito, aspettava gli avventori tutto il giorno, col naso
contro la vetrina appannata. Lei chiedeva alla figliuola: - Ti dice di sì il
cuore per quello che ci ha promesso la sorte?
Fortunata non diceva nulla, cogli
occhi accerchiati di nero come i suoi fratelli, fissi in un punto che vedeva
lei. Un giorno sua madre la sorprese per le scale con un giovanotto che
sgattajolò in fretta al veder gente, e lasciò la ragazza tutta rossa.
- Oh, poveretta me!... Che fai tu
qui? -
Fortunata chinò il capo.
- Chi era quel giovanotto? che
voleva?
- Niente.
- Confidati con tua madre, col
sangue tuo. Se tuo padre sapesse!... -
Per tutta risposta la ragazza
alzò la fronte e le fissò in faccia gli occhi azzurri.
- Mamma, io non voglio morire
come gli altri! -
Il maggio fioriva, ma la
fanciulla s'era mutata in viso, ed era divenuta inquieta sotto gli occhi
ansiosi della madre. I vicini le cantavano: - Badi alla sua ragazza, sora Arlìa
-. Il marito istesso, colla cera lunga, un giorno l'aveva presa a quattr'occhi
nella botteguccia nera, per ripeterle:
- Bada a tua figlia, intendi? Che
almeno il sangue nostro sia onorato! -
La poveretta non osava
interrogare la figliuola al vederla tanto stralunata. Le fissava soltanto
addosso certi occhi che passavano il cuore. Una sera, dinanzi alla finestra
aperta, mentre dalla strada saliva la canzone di primavera, la ragazza le mise
il viso in seno, e confessò ogni cosa piangendo a calde lagrime.
La povera madre cadde su una
seggiola, come se le avessero stroncato le gambe. E tornava a balbettare, colle
labbra smorte: - Ah! Ora come faremo? -. Le pareva di vedere Manica nell'impeto
del vino, col cuore indurito dalle disgrazie. Ma il peggio erano gli occhi con
i quali la ragazza rispondeva:
- Vedete questa finestra,
mamma?... la vedete com'è alta?... -
Il giovane, un galantuomo, aveva
mandato dallo zio prete a tastare il terreno per sapere che pesci pigliare. -
Don Calogero s'era fatto prete apposta onde non sentir parlare dei guai del
mondo. Il Manica si sapeva che non era ricco. L'altro capì l'antifona e fece
sentire che gli dispiaceva tanto di non esser ricco lui per fare a meno della
dote.
Allora la Fortunata si allettò
davvero, e cominciò a tossire come i suoi fratelli. Parlava spesso all'orecchio
della mamma, col viso rosso, tenendola abbracciata, e ripeteva:
- Vedete com'è alta quella
finestra?... -
E la mamma doveva correre di qua
e di là a pettinare le signore pel teatro, sempre con lo spavento di quella
finestra dinanzi agli occhi se non trovava la dote per la figlia, o se il
marito s'accorgeva del marrone.
Di tanto in tanto le tornavano in
mente le parole di quella dell'uovo, come uno spiraglio di luce. Una sera che
tornava a casa stanca e scoraggiata, passando dinanzi alla vetrina di una
lotteria, le caddero sotto gli occhi i numeri stampati, e per la prima volta le
venne l'ispirazione di giuocare. Allora con quel fogliolino giallo in tasca le
pareva d'avere la salute della figliuola, la ricchezza del marito, e la pace
della casa. Pensava anche come una dolcezza all'Angiolino e agli altri
figliuoli da un pezzo sotterra nel cimitero di Porta Magenta. Era un venerdì,
il giorno degli afflitti, nel sereno crepuscolo di primavera.
Così ogni settimana. Si levava di
bocca i pochi soldi della giocata per vivere colla speranza di quella grande
gioia che doveva capitarle all'improvviso. L'anime sante dei suoi figliuoli ci
avrebbero pensato di lassù. Manica, un giorno che i fogliolini gialli saltarono
fuori dal cassetto, mentre cercava di nascosto qualche lira da passar mattana
all'osteria, montò in una collera maledetta.
- In tal modo se ne andavano
dunque i denari?... - Sua moglie non sapeva che rispondere, tutta tremante.
- Però, senti, se il Signore
mandasse i numeri?... Bisogna lasciare l'uscio aperto alla fortuna -.
E in cuor suo pensava alle parole
di quella dell'uovo.
- Se non hai altra speranza -
brontolò Manica con sorriso agro.
- E tu che speranza hai?
- Dammi due lire! - rispose lui
bruscamente.
- Due lire! o Madonna!... cosa
vuoi farne?
- Dammi una lira sola! - ripeté
Manica stravolto.
Era una giornata buia, la neve
dappertutto e l'umidità che bagnava le ossa. La sera Manica tornò a casa col
viso lustro d'allegria. Fortunata diceva invece:
- Per me sola non c'è conforto -.
Alle volte ella avrebbe voluto
essere come i suoi fratelli sotto l'erba del camposanto. Almeno quelli non
tribolavano più, ed anche i genitori ci avevano fatto il callo, poveretti.
- Oh! il Signore non ci
abbandonerà del tutto, - balbettava Arlìa. - Quella dell'uovo me l'ha detto. Ho
qui un'ispirazione -.
Il giorno di Natale
apparecchiarono la tavola coi fiori e la tovaglia di bucato, e quest'anno
invitarono lo zio prete ch'era la sola provvidenza che restasse. Il Manica si
fregava le mani e diceva:
- Oggi si ha a stare allegri -.
Pure il lume appeso al soffitto ciondolava malinconico.
Ci fu il manzo, il tacchino
arrosto, ed anche un panettone col Duomo di Milano. Alle frutta il povero zio,
vedendoli piangere, siffatta giornata, con un buon bicchiere in mano di barbera
anche lui, non seppe tener duro e dovette promettere la dote alla ragazza.
L'amante tornò a galla, Silvio Liotti, commesso di negozio con buone
informazioni, pronto a riparare il mal fatto. Manica col bicchiere in mano
diceva a don Calogero:
- Vedete, vossignoria; questo qui
ne aggiusta tante -.
Ma era destino che dove era
l'Arlìa la contentezza non durasse. Il genero, ragazzo d'oro, si mangiò la dote
della moglie, e dopo sei mesi Fortunata tornava a casa dai genitori a narrar
guai e a mostrar le lividure, affamata e colle busse. Ogni anno un figliuolo
anche lei come sua madre, e tutti sani come lasche che se la mangiavan viva.
Alla nonna sembrava che tornasse a far figliuoli, ché ognuno era un altro
guaio, senza morir tisico. Divenuta vecchia, doveva correre sino a Borgo degli
Ortolani, e in fondo a Porta Garibaldi, per buscarsi dalle bottegaie qualche
mesata da quattro lire. Suo marito anch'esso, che gli tremavano le mani, faceva
appena dieci lire al sabato, tutti tagli e tele di ragno per stagnare il sangue.
Il resto della settimana poi o dietro la vetrina sudicia ingrugnato, o
all'osteria col cappello a sghimbescio sull'orecchio. Anch'essa ora i denari
del terno li spendeva in tanta acquavite, di nascosto, sotto il grembiale, e il
suo conforto era di sentirsene il cuor caldo, senza pensare a nulla, seduta di
faccia alla finestra, guardando di fuori i tetti umidi che sgocciolavano.
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