La mattina, prima delle sette, si
vedeva passare il maestro dei ragazzi, mentre andava raccogliendo la scolaresca
di casa in casa: con la mazzettina in una mano, un bimbo restìo appeso
all'altra, e dietro una nidiata di marmocchi, che ad ogni fermata si buttava
sul marciapiede, come pecore stracche. Donna Mena, la merciaia, gli faceva
trovare il suo Aloardo, già bell'e ripulito, a furia di scapaccioni, e il
maestro, amorevole e paziente, si trascinava via il monello, che strillava e
tirava calci. Più tardi, prima del desinare, tornava rimorchiando Aloardino
tutto inzaccherato, lo lasciava sull'uscio del negozio, e ripigliava per mano
il bimbo con cui era venuto la mattina.
Così passava e ripassava quattro
volte al giorno, prima e dopo il mezzodì, sempre con un ragazzetto svogliato
per mano, gli altri sbandati dietro, d'ogni ceto, d'ogni colore, col vestitino
attillato alla moda, oppure strascicando delle scarpacce sfondate; però
tenendosi accosto invariabilmente le scolare che stava più vicino di casa,
sicché ogni mamma poteva credere che il suo figliuolo fosse il preferito.
Le mamme lo conoscevano tutte;
dacché erano al mondo l'avevano visto passare mattina e sera, col cappelluccio
stinto sull'orecchio, le scarpe sempre lucide, i baffetti come le scarpe, il
sorriso paziente e inalterabile nel viso disfatto di libro vecchio; senza altro
di stanco che il vestito mangiato dal sole e dalla spazzola, sulle spalle un
po' curve.
Sapevano pure che era un gran
cacciatore di donne; da circa quarant'anni, dacché andava su e giù per le
strade mattina e sera, al pari di una chioccia coi suoi pulcini, era sempre col
naso in aria, agitando la mazzettina a guisa di uno zimbello, come un vero
uccellatore, in cerca di un'innamorata - senza ombra di male - una che lo
guardasse ogni volta che passava, e tirasse fuori il fazzoletto quando egli si
soffiava il naso - niente di più; gli sarebbe bastato di sapere che in qualche
luogo, vicina o lontana, aveva un'anima sorella. Talché lungo la perenne via crucis
di tutti i giorni, egli aveva delle immaginarie stazioni consolatrici, delle
invetriate che soleva sbirciare dacché svoltava la cantonata, e che avevano
senso e parole soltanto per lui, alle quali aveva visto invecchiare dei visi
amati - o scomparirne per andare a maritarsi - egli solo sempre lo stesso,
portando una instancabile giovinezza dentro di sé, dedicando alle figliuole il
sentimento che aveva provato per le madri, mulinando avventure da Don Giovanni
nella sua vita da anacoreta.
Era come la conseguenza della sua
professione, l'incarnazione degli estri poetici che gli occupavano le ore
d'ozio, la sera, dinanzi al lume a petrolio, coi piedi indolenziti nelle
ciabatte di cimosa, ben coperto dal pastrano, mentre sua sorella Carolina
rattoppava le calze, dall'altro lato del tavolinetto, anch'essa con un libro
aperto dinanzi agli occhi. Faceva il maestro di scuola per vivere, ma il suo
vero stato erano le lettere, sonetti, odi, anacreontiche, acrostici
soprattutto, con tutte le sante del calendario a capoverso. Portava, sotto il
paletò spelato, da un capo all'altro della città, strascinandosi dietro la
scolaresca, la sacra fiamma dei versi, quella che fa cantare le giovinette al
chiaro di luna sul veroncello - e doveva farle pensare a lui. Sapeva già, come
se gliela avessero confidata, tutta la curiosità che doveva suscitare la sua
persona, i palpiti che destava una sua occhiata, le fantasie che si lasciava
dietro il suo passaggio. Troppo scrupoloso però per abusarne!
Un giorno, lo rammentava sempre
con una dolce confusione interna, una giovinetta alla quale andava a dare
lezioni di bello scrivere a domicilio, volle regalargli per la sua festa un bel
fiore ch'era in un vasetto della scrivania - rosa o garofano, non si rammentava
pel turbamento che gli aveva fatto velo alla vista - glielo presentava con un
atto gentile, e gli diceva, al vederlo timido e imbarazzato:
- L'ho tenuto lì per lei, signor
maestro.
- No... la prego... Mi
risparmi...
- Come? non lo vuole?
- Seguitiamo la lezione, di
grazia!... Queste non son cose...
- Ma perché? Che c'è di male...
- Tradire la fiducia dei suoi
parenti... sotto la veste di istitutore... -
Allora la ragazza era scoppiata
in una risata così matta, così impertinente, che gli squillava ancora nelle
orecchie al ripensarci, e ancora, dopo tanto tempo, gli metteva in capo un
dubbio, uno di quei lampi di luce che fanno cacciare il capo sotto il
guanciale, per non vederli, la notte.
Ah, quelle benedette ragazze, chi
arrivava a capirle, per quanto gli anni passassero! Esse gli ridevano dietro le
spalle. - Poi, dopo molto tempo, quand'egli passava a prendere i loro bimbi,
tirando in su i baffetti ostinatamente neri, si sentivano intenerire da una
certa commozione ripensando al passato, alle rosee fantasie della prima
giovinezza, che evocava la figura melanconica di quell'eterno cercatore di
amore.
- Entrate, don Peppino, il
ragazzo sta vestendosi.
- No, grazie, non importa.
- Volete aspettare al sole?
- Ho qui i ragazzi. Non posso
lasciarli.
- Quanti ne avete, santa
pazienza! Ce ne vorrà, da mattina a sera, tanto tempo che fate quel mestiere!
- Sì, un pezzo che ci conosciamo,
di vista almeno. Quando lei stava in via del Carmine, il terrazzino col
basilico. Si rammenta?
- Si diventa vecchi, don Peppino!
Ora abbiamo i capelli bianchi. Parlo per me, che ho già una figliuola da
marito.
- Giusto, avevo portato qui una
cosuccia per donna Lucietta. Oggi è la sua festa, mi pare.
- Cos'è? l'immagine di santa
Lucia? No, una poesia! Lucia, Lucia, vien qui, guarda cosa t'ha portato il
signor maestro.
- Piccolezze, donna Lucietta,
scuserà l'ardire.
- Bello, bello, grazie tante.
Guarda che bel foglio, mamma. Sembra un merletto.
- Son cose leggiere. Proprio un
ricamino in versi, come ci vogliono per una bella ragazza qual è lei.
Piccolezze, sa!
- Grazie, grazie. Ecco Bartolino.
È mezz'ora che il signor maestro t'aspetta, maleducato!
- Guarda mamma; ritagliando il
bordo della carta tutto in giro se ne può cavare un bel portamazzi, se oggi mi
vengono dei fiori -.
La scuola era un grande stanzone
imbiancato a calce, chiuso in fondo da un tramezzo che arrivava a metà
dell'altezza, e al di sopra lasciava un gran vano semicircolare e misterioso,
il quale dava lume a un bugigattolo che vi era dietro. Accanto all'uscio
vedevasi il tavolinetto del maestro, coperto da un tappetino ricamato a mano, e
sopra tanti altri lavori fatti di ritagli: nettapenne, sottolume, e un
mandarino di lana arancione, colle sue brave foglioline verdi, causa d'infinite
distrazioni agli scolari. L'altro ornamento della scuola, sulla larga parete
nuda dietro il tavolino, era una cornicetta di carta traforata, opera industre
della stessa mano, che conteneva due piccole fotografie ingiallite, i ritratti
del maestro e di sua sorella, somiglianti come due gocce d'acqua, malgrado i
baffetti incerati dell'uno, e la pettinatura grottesca dell'altra: gli stessi
pomelli scarni che sembravano sporgere fuori della cornice, la stessa linea
sottile delle labbra smunte, gli stessi occhi appannati, quasi stanchi di
guardare perennemente, dal fondo dell'orbita incavata, lo sbaraglio delle
seggiole scompagnate per la scuola; e tutt'in giro la tristezza delle pareti
bianche, macchiate in un canto dalla luce scialba della finestra polverosa che
dava nel cortiletto.
Di buon mattino, appena il
falegname accanto principiava a martellare, udivasi bispigliare due voci
sonnolente nel bugigattolo oscuro, e poi s'illuminava il vano al di sopra del
tramezzo. Il maestro andava a prendere una manata di trucioli, strascicando le
ciabatte, tutto raggomitolato in un pastrano spelato, e accendeva il fuoco per
fare il caffè. Allora, dietro la finestra appannata, vedevasi salire la fiamma
del focolare annidato sotto quattro tegole sporgenti dal muro, e il fumo denso
che stagnava nel cortiletto cieco. In fondo allo stanzino la sorella del
maestro intanto cominciava a tossire, dall'alba.
Egli andava a prendere le scarpe
appoggiate allo stipite dell'uscio, l'una accanto all'altra, coi tacchi in
alto, e si metteva a lustrarle amorosamente, mentre faceva bollire il caffè,
ritto innanzi al fuoco, col bavero del pastrano sino alle orecchie. In seguito
toglieva dal fuoco la caffettiera, sempre colla mano sinistra, per pigliare
colla destra la chicchera senza manico dall'asse inchiodata accanto al
fornello, la risciacquava nel catino fesso incastrato fra due sassi accanto al
pozzo, e portava finalmente il lume nel bugigattolo, diviso in due da una
vecchia tenda da finestra appesa a una funicella. La sorella si alzava a sedere
sul letto in fondo, stentatamente, tossendo, soffiandosi il naso, gemendo
sempre, colle trecce arruffate, il viso consunto, gli occhi già stanchi,
salutando il fratello con un sorriso triste d'incurabile.
- Come ti senti oggi, Carolina? -
le chiedeva il fratello.
- Meglio, - rispondeva lei
invariabilmente.
Intanto il sole sormontava il
tetto di faccia alla finestra, come una polvere d'oro, in mezzo a cui balenava
il volo dei passeri schiamazzanti. Dietro l'uscio passava lo scampanellare
delle capre.
- Vado pel latte -, diceva don
Peppino.
- Sì, - rispondeva lei collo
stesso moto stracco del capo.
E cominciava a vestirsi
lentamente, mentre il maestro, accoccolato col bicchiere in mano, leticava col
capraio che gli misurava il latte come fosse oro colato.
Carolina andava a rifare il
lettuccio piatto del fratello, dall'altra parte della cortina, rialzandola
tutta sulla funicella per dare aria alla stanza, come era solita dire; e si
dava a strascicare la scopa per la scuola, adagio adagio, movendo le seggiole
una dopo l'altra, appoggiandosi al bastone della scopa per tossire, in mezzo al
polverìo.
Il fratello tornava coi due soldi
di latte in fondo al bicchiere, e due panetti nelle tasche del pastrano.
Ripiegavano un lembo del tappetino, per non insudiciarlo, e sedevano a far
colazione in silenzio, l'uno di qua e l'altra di là del tavolino, tagliando ad
una ad una delle fette di pane sottili, masticando adagio, e come
soprapensieri. Soltanto, ogni volta che lei tossiva, il fratello rizzava il capo
a fissarla in aria inquieta, e tornava a chinare gli occhi sul piatto.
Alfine egli se ne andava colla
mazzettina sotto l'ascella, il cappelluccio sull'orecchio, i baffetti incerati,
tirando in su il colletto della camicia, infilandosi con precauzione i guanti
neri che puzzavano d'inchiostro, seguito passo passo dalla sorella che si
ostinava a passargli straccamente la spazzola addosso, covandolo con uno
sguardo quasi materno, accompagnandolo dalla soglia con un sorriso rassegnato
di zitellona, che credeva tutte le donne innamorate di suo fratello.
Anch'essa aveva avuto la sua
primavera scolorita di ragazza senza dote e senza bellezza, quando rimodernava,
ogni festa principale, lo stesso vestitino di lana e seta, e architettava
pettinature fantastiche dinanzi allo specchietto incrinato. Oh, le rosee
visioni che passarono su quella vesticciuola, mentre essa agucchiava le intere
notti! e gli sconforti amari che la tormentarono dinanzi a quello specchio, al
quale si affacciavano ogni volta inesorabilmente i pomelli ossuti ed il naso
troppo lungo! In mezzo al crocchio allegro e civettuolo delle altre ragazze
ella portava sempre come la visione dolorosa della sua figura grottesca, e se
ne stava in disparte - per vergogna, dicevano le une, - per orgoglio, dicevano
le altre. - Giacché passava anche lei per letterata. Nello squallore della loro
miseria decente le lettere avevano messo un conforto, una lusinga, come un
lusso delicato che li compensava della commiserazione mal dissimulata dei
vicini. Essa teneva gelosamente custoditi, in belle copie tutte a svolazzi e
maiuscole ornate, i versi del fratello; e quando egli si era lasciato vincere
alfine dall'indifferenza generale, dalla stanchezza dell'umile e faticoso
impiego che doveva fare delle lettere per guadagnarsi il pane, essa sola era
rimasta una gran leggitrice di romanzi e di versi: avventure epiche di cappa e
di spada, casi complicati e straordinari, amori eroici, delitti misteriosi,
epistolari di quattrocento pagine tutte piene di una sola parola, nenie belate
al chiaro di luna, dolori di anime in lutto prima di nascere, che piangevano
delusioni future. Tutta la sua giovinezza squallida s'era consunta in quelle
fantasie ardenti, che le popolavano le notti insonni di cavalieri piumati, di
poeti tisici e biondi, di avvenimenti bizzarri e romanzeschi, in mezzo ai quali
sognava di vivere anche mentre scopava la scuola o faceva cuocere il magro
desinare, nel cortiletto cieco che serviva da cucina. E sotto l'influenza di
tutto quel medio evo, la preoccupazione dolorosa della sua disavvenenza e della
sua povertà manifestavasi in modo grottesco, con ricciolini artificiosi sulla
fronte, trecce spioventi sulle spalle, sgonfi medioevali ai gomiti del vestito
e gorgiere inamidate.
- Che è l'ultimo figurino quello?
- avevale chiesto un giorno la più elegante e la più crudele delle sue
compagne.
Lui solo - tanto tempo addietro!
- adesso era impiegato alla Pretura Urbana - quanti palpiti! quanta dolcezza!
quanti sogni! Ed ora più nulla, allorché lo incontrava per caso, carico di
moglie e di figliuoli! Allora era un giovinetto smunto, con grandi occhi
pensosi che stavano a guardare i «vortici delle danze» dal vano di un uscio,
come dall'alto, da cento miglia lontano. Le ragazze lo canzonavano anche un po'
perché non ballava mai; lo chiamavano «il poeta». Egli da lontano inchiodava
uno sguardo fatale su quella ragazza, sola e dimenticata in un cantuccio al par
di lui. Una domenica infine le si fece presentare; le disse con una lunga frase
ingarbugliata che aveva ambito l'onore di far la sua conoscenza perché «nella
festa» era l'unica persona con cui si potesse scambiare due parole: lo sentiva,
gliel'avevano detto: sapeva anche che era una distinta cultrice delle
lettere...
«Le danze» giravano giravano
«vorticose» in un gran polverìo, sotto la lumiera a petrolio, ed essi sembrano
cento miglia lontani, proprio come nei romanzi, mezzo nascosti dietro la tenda
all'uncinetto, lui col cappello sull'anca, e l'arco della mente teso per ogni
parola che gli usciva di bocca; lei irradiata da quella prima lusinga che le
veniva da un uomo, con una nuova dolcezza negli occhi, attraverso i ricciolini.
- È un poema?
- No, un romanzo.
- Storico?
- Oibò signorina! Per chi mi
piglia? Sa il detto di quel tale: «Chi ci libererà dai Greci e dai Romani?...»
- Genere Manzoni allora?
- No, più moderno; stavo per dire
più fine; certo più nervoso... tutta la nervosità del secolo in cui viviamo...
- E il titolo? si può sapere
almeno?
- Lei sì! - Amore e morte!
- Bello! bello! bello! Ci ha
lavorato molto?
- Saran quattr'anni circa.
- Perché non lo fa stampare? -
Il giovanotto alzò le spalle con
un sorriso sdegnoso.
- Peccato!
Egli ebbe un lampo negli occhi,
per la risposta che gli balenava in mente pronta e azzeccata; un lampo che
illuse la poveretta:
- Mi basta questa parola sua,
guardi! -
La Carolina avvampò di gioia; e
chinò il capo, col petto che le scoppiava.
- Che dice?... Io!... Che dice
mai?... -
L'altro gonfiandosi nel soprabito
anche lui a quella prima lusinga che gli veniva da una donna, le lasciava cadere
sul capo chino, dall'alto del suo colletto inamidato, la confidenza che il
trionfo più ambito per uno scrittore è quello di una parola... una parola
sola... d'encomio... d'incoraggiamento... che venga da una persona...
- Pardon! - s'interruppe a un tratto
tirandosi bruscamente indietro.
- Gli è arrivata? - chiese
scusandosi il padrone di casa che girava coll'annaffiatoio. - Mi dispiace,
sa... Facevo perché si soffoca dalla polvere. Non le pare? -
Il poeta continuava dicendo che
era proprio una fortuna d'incontrarsi... in mezzo a tanta volgarità
invadente...
- Lei non balla? - domandò
infine.
- Io...
- Stia tranquilla. Non ballo
neppur io. Sa il detto di quel tale: «Non capisco perché cotesto lavoro non lo
facciano fare dai domestici!» Ed è vero infatti. Provi a tapparsi le orecchie,
per vedere l'impressione grottesca...
- È vero, è vero.
- Sentisse poi che discorsi! - Il
caldo, la folla, i lumi... Quando si arriva a parlar delle acconciature è già
un gran progresso. A proposito, lei è messa divinamente... No, no, mi lasci
dire, è diversa dalle altre; un buon gusto, un'originalità... -
Tese l'arco delle sopracciglia, e
le scoccò l'ultima frecciata:
- Insomma l'abito non fa il
monaco; ma il buon gusto dice la persona... -
Com'era bello il valzer che
sonavano in quel punto! come l'era rimasto in cuore tutta la notte! e come lo
canticchiava poi a mezzavoce, cogli occhi gonfi di lagrime deliziose, cucendo
nel cortiletto oscuro! Sul pilastrino del pozzo i garofani, che allungavano dal
vaso slabbrato gli steli tisici, s'agitavano lieve lieve al sole, e parevano
rinascere. Che pace ora con se stessa, quando si guardava nello specchio! che
dolcezza in certi toni della sua voce! che soavità nel raggio della luna che
baciava, in alto, il muro dirimpetto! e nell'oro del tramonto che scappava dal
comignolo del tetto, e scintillava sui vetri di quella finestra dove si vedeva
alle volte un fanciulletto biondo in una scranna a bracciuoli, immobile per
delle ore! Vivere, vivere, anche in quel cortiletto triste, fra quelle quattro
mura che avevano una melanconia intima e quasi affettuosa, nelle umili
occupazioni divenute care, con quell'altro mondo fantastico che le aprivano i
libri, sotto la carezza di quella voce fraterna, amorevole e protettrice; e in
fondo al cuore poi come un punto luminoso, come una fibra delicata che
trasaliva al menomo tocco, come una gran gioia che aveva bisogno di nascondersi
e le balzava alla gola ogni momento, come una fede, come una tenerezza nuova
per ogni cosa e ogni persona nota - e l'attesa di quella domenica, di quel
ballonzolo periodico in mezzo alla polvere e al puzzo di petrolio, dove sapeva
di rivedere colui che da otto giorni aveva preso tanta parte nel suo cuore e
nella sua vita!
Stavolta le venne incontro appena
la vide, con una stretta di mano che riannodava a un tratto la loro intimità
spirituale, e le si mise al fianco, dietro la tenda all'uncinetto, colla destra
nello sparato della sottoveste, parlandole sempre di sé, delle sue
inclinazioni, dei suoi gusti, delle sue ammirazioni, che erano poche e calde,
della sua ambizione, che toccava il cielo. Di tratto in tratto, quando gli
pareva che la ragazza chinasse il capo stanco sotto tutto quell'io implacabile,
le accoccava un complimento, come un cocchiere fa schioccare la frusta nelle
salite. La giovinetta però chinava il capo per la commozione, col cuore tutto
aperto a quelle confidenze che cercavano avidamente la simpatia di lei. Egli
pure, trascinato dalla sua foga, eccitato dalle sue frasi medesime, si
abbandonava, cominciava a sbottonarsi, a scendere fino ai suoi piccoli guai:
suo padre che lo contrariava nelle sue inclinazioni, nelle tendenze più
spiccate del suo ingegno... Nei due anni d'Università non aveva imparato nulla.
Aveva scritto soltanto dei versi sulle panche della cattedra di Diritto Civile.
- Un vero parricidio! - osservò
Carolina sorridendo.
Egli per la prima volta la baciò
con un'occhiata d'ineffabile tenerezza.
- Carolina! Carolina! - chiamava
il fratello. E sottovoce le disse all'orecchio: - Bada che tutti ti guardano;
sei sempre con colui. Chi è? -
Qua e là, dietro i ventagli, e
nei crocchi delle ragazze, balenavano infatti dei sorrisi mal dissimulati. Ma
Carolina, fiera, lo presentò al fratello:
- Il signor Angelo Monaco,
distinto poeta, l'autore di Amore e morte!
- So che anche il signore è un
chiaro cultore delle lettere! - disse il Monaco tendendogli la mano regalmente.
Il romanziere aveva «sollecitato
l'onore» di leggere il manoscritto del suo romanzo in casa del maestro «per
averne un giudizio illuminato e sincero». Una sera, dopo la scuola, lo
installarono dinanzi al tavolinetto dal tappetino ricamato, con due candele
accese dinanzi, come un giocatore di bussolotti, don Peppino col capo fra le
mani, tutto raccolto nel disegno di appioppargli alla sua volta la lettura dei
propri versi, che si sentiva rifiorire in petto gelosi a quell'avvenimento; la
sorella digià commossa dalla solennità dei preparativi, la porta chiusa, le
seggiole dei ragazzi schierate in fila, come per una folla di ascoltatori invisibili.
Il manoscritto era voluminoso,
circa mezza risma di carta a mano, raccolta in una custodia di marocchino col
titolo in oro sul dorso, e legata con nastri tricolori. L'autore leggeva con
convinzione, sottolineando ogni parola col gesto, colla voce, con certe
occhiate che andavano a ricercare l'ammirazione in volto alla Carolina,
pallidissima, e al fratello di lei, impenetrabile dietro il palmo delle mani;
si animava alle sue frasi istesse come un bàrbero allo scrosciare delle
vesciche che porta attaccate alla coda; senza un minuto di stanchezza, quasi
senza bisogno di voltar pagina. Le pagine volavano, volavano, con un fruscìo
quasi di foglie secche d'autunno, nel gran silenzio della notte. Tutti i rumori
della via erano cessati uno dopo l'altro. La luna alta si affacciava al
finestrino.
C'era un punto in cui il
protagonista del romanzo, disperato, forzava la consegna di uno stuolo di
domestici in gran livrea, schierati in anticamera, e andava a bere la morte
nell'alcova della sua bella appena tornata dal ballo, ancora in una nuvola di
merletti e di pizzi. Egli la bollava con parole di fuoco, voleva offrirle, dea
implacabile, l'olocausto del suo sangue, dei suoi sensi, del suo amore
immensurabile, lì ai piedi dell'altare istesso, su quel tappeto di Persia,
dinanzi a quel letto immacolato. E all'occhiata trionfante che faceva punto,
l'autore vide con gioia crudele la sua ascoltatrice che piangeva cheta cheta,
colla mano dinanzi agli occhi.
Ei le prese quella mano, e se la
tenne sulle labbra a lungo per godere del suo trionfo.
- Perdonatemi! - mormorò poscia.
Ella scosse il capo dolcemente, e
rispose con un filo di voce:
- No. Sono tanto felice! -
La luna dal finestrino baciava la
parete dirimpetto, tacita. Al silenzio improvviso il maestro si destò.
Angelo Monaco prese a frequentare
la casa del maestro, attratto dalla simpatia che vi trovava, lusingato da
quell'ammirazione fervida, da quell'amore timido e profondo di cui la sua
vanità era riconoscente in modo da simulare alle volte un ricambio dello stesso
sentimento.
Carolina aspettava, felice, tutta
piena di una vita nuova in mezzo alle solite modeste occupazioni, sorpresa da
batticuori improvvisi, da dolcezze inesplicabili, per un nulla, per taluni
avvenimenti consueti che prima non le avevano detto cosa alcuna, beandosi di
uno sguardo, di un sorriso, di una parola, di una stretta di mano di lui,
trepidante all'ora in cui egli soleva venire, commossa da una tenerezza
ineffabile quando vedeva il raggio della luna sul finestrino, ogni
quintadecima, al sentire la campana dell'avemaria, l'organetto che passava, la
voce del fratello che pronunziava il suo nome, turbata solo da un imbarazzo
insolito e da una nuova tenerezza per lui. Anch'egli le sembrava cambiato. Da
qualche tempo la trattava con una dolcezza affettuosa e quasi triste, con un
riserbo discreto e pietoso. Un giorno finalmente, al momento di uscire insieme
ai ragazzi, col cappelluccio in testa e la mazzettina in mano, la chiamò in
disparte, dietro la cortina rossa:
- ... Sai, Carolina... Sta per
ammogliarsi... No! senti! Coraggio, coraggio!... Guarda che io ho lì i
ragazzi... Perdonami se ti ho fatto dispiacere!... Toccava a me a dirtelo...
Sono tuo fratello, il tuo Peppino!... -
Ella uscì nello stanzone,
barcollante, come si sentisse soffocare, e balbettò dopo un momento:
- Come lo sai? Chi te l'ha detto?
- Masino, quel ragazzo, il figlio
del caffettiere. Oggi, come l'incontrammo per caso, e vide che lo salutavo, mi
ha detto che sposa sua sorella.
- Vai, vai, - disse la poveretta
respingendolo colle mani tremanti. - I ragazzi aspettano -.
E fu tutto. Ella non aggiunse una
parola, non gli mosse un lamento. L'ultima volta che la vide, Angelo la trovò
così afflitta, così chiusa nel suo dolore, che ne indovinò il motivo.
Sull'uscio del cortiletto, cogli occhi rivolti a quello spicchio di cielo e una
lagrima vera negli occhi, egli le disse addio, commosso dall'accento suo
stesso. Il giorno dopo le scrisse una lettera tutta fremente da un rigo
all'altro d'amore e di disperazione, la prima in cui le parlasse d'amore, per
dirle che il suo era fatale e doveva immolarlo sull'altare dell'obbedienza
filiale. «Siate felice! siate felice! lontana o vicina, in vita e in morte!...»
Fu la sola «missiva» d'amore che ella ricevesse, e la custodì gelosamente fra i
fiori secchi ch'ei le aveva donati, e i nastri scolorati che portava il giorno
in cui si erano incontrati per la prima volta.
Poi, stanca, aveva riversato sul
fratello le sue illusioni giovanili, rifacendo per lui i castelli in aria in
cui s'erano passati i sogni ardenti della sua vita claustrale, subendo, sotto
altra forma, le stesse calde allucinazioni che le erano rimaste di tante
bizzarre letture, nelle quali si era consunta la sua giovinezza, dietro il tramezzo
della scuola, com'era morto il geranio che aveva agonizzato dieci anni nel
cortiletto senza sole. Una volta era stata una rosa che essa aveva sorpreso nel
portapenne della scrivania, e s'era sfogliata senza che lei osasse toccarla,
lasciandole un grande sconforto a misura che le foglioline si sperdevano nella
polvere. Un'altra volta un bigliettino profumato, visto alla sfuggita sul
tappetino della scrivania, scomparso subito misteriosamente, che l'aveva fatta
almanaccare un mese, turbandola anche, mentre stava chiuso nel cassetto, col
suo odore sottile, finché le era caduto un'altra volta sotto gli occhi, fra le
cartacce inutili da buttare via nel cortiletto - la stessa corona dorata in
cima al foglio profumato, lo stesso carattere elegante con cui un ragazzo si
faceva scusare dalla mamma non so quale mancanza.
Un giorno infine il romanzo
sembrò disegnarsi, al giungere di una superba bionda che era venuta a prendere
un ragazzetto pallido in una carrozza signorile, riempiendo tutta la scuola del
fruscìo della sua veste, del profumo del suo fazzoletto, del suono armonioso
della sua voce fresca e ridente come un raggio di sole che avesse abbarbagliato
maestro e discepoli. La povera zitellona per molti giorni ancora, alla stessa
ora, aveva aspettata la bella seduttrice, nascosta dietro la tenda del
tramezzo, col cuore che le batteva forte, sconvolta sino alle viscere e come
violentata da un delizioso segreto, da un turbamento strano, in cui si
mescevano una tenerezza nuova pel fratello, un senso di vaga gelosia, e una
contentezza, un orgoglio segreto.
Erano reticenze discrete, silenzi
pudichi, imbarazzi scambievoli, per un cenno, per una parola, per un'allusione
lontana che cadesse nel discorso, mentre sedevano a tavola, l'uno di qua e
l'altra di là di un lembo del tappetino ripiegato, mentre rifacevano tutti i
giorni la stessa conversazione vuota e insignificante del giorno innanzi,
ripetendo le stesse frasi monotone che compendiavano la loro esistenza
scolorita ed uniforme, a voce bassa, con una certa timidezza vergognosa.
Egli chinava il capo arrossendo,
come sorpreso sul fatto; e giurava di no, facendo una scrollatina di spalle,
gongolando dentro di sé, con un sorrisetto di vanagloria che gli tremolava
sulle labbra.
Alle volte, in un'effusione
improvvisa di tenerezza riconoscente, le posava la destra sul capo, con quello
stesso sorrisetto discreto che pareva dicesse:
- Stai tranquilla, scioccherella!
-
Però, nella rettitudine istintiva
della sua coscienza, la zitellona sentiva nascere una ripugnanza, un'inquietudine
dolorosa per tutto ciò che doveva esserci di losco e di pericoloso in quel
romanzo clandestino. Allora correva a buttarsi ai piedi del confessore, nel
nuovo fervore religioso in cui si era rifugiata quando aveva provato il più
gran dolore della sua giovinezza, lo sconforto e l'abbandono d'ogni lusinga
terrena, e domandava perdono per la dolce colpa che lei non aveva commesso,
faceva la penitenza del peccato immaginario che era nella sua casa.
E calda ancora di quel fervore vi
attingeva il coraggio per esortare il fratello a rientrare nel retto sentiero
con delle allusioni velate, delle insinuazioni discrete, un'effusione di
tenerezza timida e quasi materna.
- Peppino! - gli disse infine, -
dovresti darmi una gran consolazione. Dovresti risolverti a prender moglie -.
Egli rizzò il capo, sorpreso
prima, e poscia lusingato dalla proposta che gli toglieva vent'anni d'addosso,
obbiettando col medesimo ingenuo entusiasmo della sua prima giovinezza che «il
matrimonio è la tomba dell'amore» per farsi pregare ancora.
- Dammi retta, Peppino!... Poi
quando non sarai più in tempo te ne pentirai!... -
Egli si ostinava a scrollare il
capo, lusingato internamente di poter rifiutare per la prima volta; senza
notare l'espressione dolorosa che c'era nell'accento della povera zitellona.
- No, non mi lascio pescare. Stai
tranquilla. Amo troppo la mia libertà! -
Ella provava un senso strano di
simpatia, di commiserazione, e di rancore per quel fanciulletto esile e pallido
che la dama bionda era venuta a cercare, e che supponeva fosse il complice
innocente della loro tresca. Lo covava cogli occhi da lontano, nascosta dietro
la tenda, quasi egli portasse alla scuola, nei sereni lineamenti infantili, un
riflesso delle seduzioni tentatrici della mamma, inquieta se lo scolaretto
mancava qualche volta, almanaccando tutto un romanzo domestico dai menomi atti
del ragazzo inconsapevole. Se lo chiamava vicino, quando poteva farlo da solo a
solo, lo accarezzava, lo interrogava, gli faceva qualche regaluccio
insignificante, attratta e ripugnante nello stesso tempo della sua grazia
infantile. Un giorno il fanciulletto, tutto contento, le disse:
- Dopo le vacanze non vengo più a
scuola -.
Ella gli chiese il perché,
balbettando.
- La mamma dice che ora son
grande. Andrò in collegio -.
Così terminò anche quel romanzo.
Ella ne sentì prima un gran sollievo; ma nello stesso tempo un dubbio, uno
sconforto amaro, vedendo dileguarsi anche le ultime illusioni, che aveva
collocate sul fratello.
Il male che la rodeva da anni e
anni la inchiodò infine nel letto. Il povero maestro non ebbe più un'ora di
pace: sempre in faccende anche nei brevi istanti che la scuola gli lasciava
liberi, scopando, accendendo il fuoco, rifacendo i letti, correndo dal medico e
dallo speziale, coi baffi stinti, le scarpe infangate, il viso più
incartapecorito ancora. Le vicine, mosse a compassione, venivano a dare una
mano: ora l'una ed ora l'altra: donna Mena, la vedova del merciaio, con tutti
gli ori addosso, come se andasse a nozze; e l'Agatina del falegname, lesta di mano
e sempre allegra, che riempiva della sua gaia giovinezza la povera casa triste;
talché il vecchio scapolo era tutto scombussolato da quelle gonnelle che gli si
aggiravano per casa, tentato, anche in mezzo alle sue angustie, quasi da un
ritorno di giovinezza, da sottili punture nel sangue e al cuore, che gli
cocevano come un rimorso, nelle ore nere.
- Meglio, meglio. Ha riposato -.
Il poveraccio, al trovare quella
buona notizia sulla soglia, le afferrò la mano tremante e la baciò.
- Oh, donna Mena. Che
consolazione! -
Essa gli fece segno di tacere e
lo condusse in punta di piedi a veder l'inferma, che riposava con una gran
dolcezza sul viso, già lambito da ombre funebri. E come se la dolcezza di
quell'istante di tregua gli si fosse comunicata, affranto dall'angoscia che
aveva trascinato insieme ai suoi ragazzi da un capo all'altro della città, egli
cadde a sedere sulla seggiola dietro la cortina, senza lasciare la mano di
donna Mena, che la svincolò adagio adagio. La stanza era già oscura, con un
senso di intimità misterioso e triste.
Ad un tratto la sorella
svegliandosi lo chiamò, indovinando ch'era lì, e per la prima volta egli
accendendo il lume si trovò imbarazzato dinanzi a lei insieme a un'altra donna.
Era stata una crisi terribile: la
prima lotta colla morte che già abbrancava la preda. L'inferma, tornata in sé,
guardava il lume, le pareti, il viso del fratello con certi occhi attoniti in
cui durava ancora la visione di terrori arcani, e lo accarezzava col sorriso,
col soffio della voce, colla mano tremante, in un ritorno di tenerezza
ineffabile, che si attaccava a lui come alla vita.
E allorché furono soli, gli disse
pure con quell'accento e quello sguardo singolari:
- No quella!... Quella no,
Peppino! -
Verso l'agosto sembrò che
cominciasse a stare alquanto meglio. Il sole giungeva fino al letto, dall'uscio
del cortile, e la sera entravano a far compagnia tutti i rumori del vicinato,
il chiacchierìo delle comari, lo stridere delle carrucole, nei pozzi tutto
intorno, la canzone nuova che passava, l'accordo della chitarra con cui il
barbiere dirimpetto ingannava l'attesa. La ragazza del falegname entrava con un
fiore nei capelli, con un sorriso allegro che portava la gioventù e la salute.
- No, no, non ve ne andate
ancora! Vedete il bene che fa a quella poveretta soltanto a vedervi!
- Si fa tardi, signor maestro. È
un'ora che son qui.
- No, non è tardi. A casa vostra
lo sanno che siete qui. Piuttosto dite che vi aspettano le compagne, lì
sull'uscio.
- No, no.
- O l'innamorato, eh? Sarà l'ora
in cui suole passare col sigaro in bocca...
- Oh... che dite mai,
vossignoria!...
- Sì, sì, una bella ragazza come
siete... è naturale. Chi non si innamorerebbe, al vedere quegli occhi... e quel
sorriso... e quel visetto furbo.
- Ma cosa gli salta in mente
adesso?... -
E un giorno s'arrischiò anche a
dirle, nel vano dell'uscio tutto illuminato dalla luna:
- Ah! foss'io quel tale!
- Lei, signor maestro!... Che
dice mai! -
L'emozione lo prendeva alla gola,
mentre la ragazza, per rispetto, non osava ritirare la mano che le aveva
afferrata. E traboccarono frasi sconnesse: L'amore che eguaglia: la poesia ch'è
profumo dell'anima: i tesori d'affetto che si cristallizzano nelle anime
timide: la divina voluttà di cercare il pensiero e il volto dell'amata nel
raggio della luna, a un'ora data. - La ragazza lo guardava quasi impaurita, con
grand'occhi spalancati, e tutta bianca nel raggio della luna.
- Non dimenticherò mai quest'ora
che mi avete concesso, Agata! Né questo nome! mai! Divisi, lontani... ma ricorderemo...
entrambi...
- Mi lasci andare, mi lasci
andare. Buona sera -.
L'inferma, appoggiata a un
mucchio di guanciali, chiacchierava sottovoce col fratello, seduto accanto al
letto, ancora col cappello in testa e la mazzettina fra le gambe. Pareva che
avesse a dirgli una cosa importante, dai silenzi improvvisi che le soffocavano
la parola in gola, dalle occhiate lunghe che posava su lui, dai rossori fugaci
che passavano sul pallore del viso disfatto. Infine, chinando il capo, gli
disse:
- Perché non ci pensi ad
accasarti?
- No, no! - rispose lui,
scrollando il capo.
- Sì, ora che sei in tempo...
Devi pensarci finché sei giovane... Poi, quando sarai vecchio... e solo... come
farai? -
Il fratello, sentendosi vincere
dalle lagrime, conchiuse, per tagliar corto:
- Non è tempo di parlarne adesso!
-
Però essa ritornava spesso sullo
stesso argomento.
- Se trovassi una bella
giovinetta, ricca, istruita, di buona famiglia, che facesse per te... -
E una sera che si sentiva peggio
torno a parlargliene ancora, coll'inquieto cicaleccio proprio del suo stato.
- No, lasciami dire, ora che ho
un po' di fiato. Non posso permettere che ti sacrifichi per tenermi
compagnia... tutta la tua giovinezza... Una buona dote non può mancarti. E se
lasci la scuola, tanto meglio. Vivremo tutti insieme; faremo una casa sola. Uno
stanzino mi basterà, purché sia molto arioso. Vorrei che fosse verso il
giardino. Della strada non so che farmene, oramai... Ho sempre desiderato di
vedere il cielo, stando in letto... e del verde, degli alberi... come, per
esempio, averci una finestra là dove c'è ora la cortina, una finestra che
guardasse nei campi... -
Si udiva la pioggia che
scrosciava nel cortiletto, una di quelle piogge che annunziano l'autunno, e la
pentola di latta, lasciata fuori, che risonava sotto la grondaia. Un gatto,
nella bufera, chiamava ai quattro venti, con voce umana.
Il maestro, che aveva seguìto il
vaneggiare della sorella verso il verde ed il sole, coll'allucinazione perenne
che era in lui, le chiese affettuosamente:
- Ora che viene l'autunno saresti
contenta d'andare in campagna?
- E la scuola? - ribatté lei con
un sorriso malinconico. - Se tu pigliassi una buona dote invece... con dei
poderi...
- Benedette donne! quando si
ficcano un chiodo in testa!... - rispose lui con un sorrisetto malizioso.
E pareva esitare a decidersi. Ma
dopo averci pensato su, finì col dire:
- Non mi vendo, no! -
E abbottonò il soprabito con
dignità.
- Se ho da fare una scelta... Se
mai... È inutile! - conchiuse finalmente. - Amo troppo la mia libertà! -.
Ella insisteva a dire che queste
cose si fanno finché uno è giovane, che se no si finisce in mano della serva o
di qualche intrigante.
Poi, siccome il fratello non
voleva arrendersi, la zitellona si lasciò scappare in un impeto di gelosia,
alludendo alle vicine:
- Vedi che già ti si ficcano in
casa, e cominciano a fare dei disegni su di te? -
E la poveretta morì col
crepacuore di lasciare il fratello esposto alle insidie di quelle intriganti.
Com'ella aveva fatto un gran
vuoto in quel bugigattolo, per quanto poco spazio vi avesse occupato in vita, e
il fratello vi si sentiva come perduto in una gran solitudine, in una gran
desolazione, nelle ore che i ragazzi gli lasciavano libere, prese ad andare dal
falegname, tutte le sere, attratto da una gratitudine dolce e malinconica verso
la ragazzona che aveva avuta tanta carità per la sua povera morta. Ma il
falegname, che certe cose non le intendeva, gli fece capire che in bottega del
maestro di scuola non sapeva che farsene, e gli facesse invece il piacere di
levarsi di quei trucioli.
Anche donna Mena, qualche tempo
dopo, quando vide che le visite del maestro si facevano troppo frequenti, col
pretesto dell'Aloardino, e non finiva mai di ringraziarla dell'assistenza che
aveva fatta alla sua povera sorella, per stringerle la mano e farle gli occhi
di triglia, gli disse sul mostaccio:
- Orsù, signor maestro, facciamo
a parlarci chiaro, ché il vicinato comincia a mormorare dei fatti nostri -.
Il poveraccio, colto alla
sprovvista, si confuse. Ma infine prese il suo coraggio a due mani:
- Or bene, donna Mena! Anche
quella poveretta l'aveva previsto. Non ho voluto decidermi mai a fare questo
passo, perché amavo troppo la mia libertà... Ma ora che vi ho conosciuta
meglio... se volete...
- Eh, non li avevate fatti male i
vostri conti, caro mio, poiché siete stanco d'andare attorno coi ragazzi! Ma il
fatto mio ce lo siamo lavorato io e la buon'anima di mio marito... E non per
farcelo mangiare a tradimento -.
Ogni giorno, mattina e sera,
tornava a passare il maestro dei ragazzi, con un fanciulletto restìo per mano,
gli altri sbandati dietro, il cappelluccio stinto sull'orecchio, le scarpe
sempre lucide, i baffetti color caffè, la faccia rimminchionita di uno ch'è
invecchiato insegnando il b-a-ba, e cercando sempre l'innamorata, col naso in
aria.
Soltanto, tornando a casa serrava
a chiave l'uscio, per scopare la scuola, rifare il letto, e tutte le altre
piccole faccenduole per le quali non aveva più nessuno che l'aiutasse. La
mattina, prima di giorno, accendeva il fuoco, si lustrava le scarpe, spazzolava
il vestito, sempre quello, e andava a bere il caffè nel cortiletto, seduto
sulla sponda del pozzo, tutto solo e malinconico, col bavero del pastrano sino
alle orecchie. Ed ora che la povera morta non ne aveva più bisogno, risparmiava
anche quei due soldi di latte.
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