All'Assise discutevasi una causa
capitale. Si trattava di un facchino che per gelosia aveva ucciso il suo
rivale, giovane dabbene e padre di famiglia. La folla inferocita voleva far
giustizia sommaria dell'assassino, pallido e lacero dalla lotta, che i
carabinieri menavano in prigione. La vedova dell'ucciso era venuta, come Maria
Maddalena, per chiedere giustizia a Dio e agli uomini, in lutto, scarmigliata,
coi suoi orfani attaccati alla gonnella, mentre l'usciere andava mostrando ai
signori giurati l'arma con cui era stato commesso l'omicidio: un coltelluccio
da tasca, poco più grande di un temperino, di quelli che servono a sbucciare i
fichidindia, ancora nero di sangue sino al manico. Il presidente domandò:
- Con questo avete ucciso Rosario
Testa? -
Tutti gli occhi si volsero alla
gabbia dov'era rinchiuso l'imputato, un vecchio alto e magro, dal viso color di
cenere, coi capelli irti e bianchi sulla fronte rugosa. Egli ascoltava l'accusa
senza dir verbo, col dorso curvo; e seguiva cogli occhi l'usciere, il quale
passava dinanzi al banco dei giurati col coltello in mano. Soltanto batteva le
palpebre, quasi la poca luce che lasciavano entrare le persiane chiuse fosse
ancora troppo viva per lui.
Alla domanda del presidente si
rizzò in piedi, diritto, col berretto ciondoloni fra le mani, e rispose:
- Sissignore, con quello -.
Corse un mormorio nell'uditorio.
Era una giornata calda di luglio, e i signori giurati si facevano vento col
giornale, accasciati dall'afa e dal brontolio sonnolento delle formule
criminali. Nell'aula c'era poca gente, amici e parenti dell'ucciso, venuti per
curiosità. La vedova, stralunata, si teneva sul viso il fazzoletto orlato di
nero, e faceva frequentemente un gesto macchinale, come per ravviare le folte
trecce allentate, colle mani bianche, levando in aria le braccia rotonde, con
un moto che sollevava il seno materno, orgoglio della sua bella giovinezza
vedovata. E fissava sitibonda sull'uccisore gli occhi arsi di lagrime.
Costui non sapeva risponder altro
che: - sissignore - a tutte le domande del presidente che gli stringevano il
capestro alla gola, guardando inquieto i movimenti d'indignazione dei giurati,
non avvezzi alla severa impassibilità della toga, con un'aria di bestia
sospettosa. Incominciò la sfilata dei testimoni, tutti a carico. - Gli amici
del morto, un buon diavolaccio, incapace di far male ad una mosca, - la vedova
piangeva. - I vicini che l'avevano visto barcollare, come preso dal vino, e
cadere balbettando: - Mamma mia! - Quelli che avevano gridato: - All'assassino!
- Il coraggioso che aveva afferrato pel petto l'omicida, prima che giungessero
le guardie, nella brusca e feroce lotta per lo scampo.
- Giustizia! giustizia! - gridava
nella folla la vedova, colla voce del sangue che chiedeva sangue, accompagnata
dal piagnisteo degli orfani, inteneriti dalla solennità.
Infine fu introdotto un testimonio
sinistro, l'amante che quei due uomini si erano disputata a colpi di coltello:
una creatura senza nome, senza età, quasi senza sesso, alta, nera, magra,
mangiata dagli stenti e dal vizio, che solo le era rimasto vivo negli occhi
arditi. - Destò un senso di ripugnanza al solo vederla. - Il pubblico
accusatore l'aveva fatta venire appunto per ciò.
Ella si piantò tranquillamente in
faccia al Cristo, alla legge, a tutti quei visi arcigni, colla sicurezza di chi
ha visto in maniche di camicia gli sbirri e i doganieri, e giurò, levando la
mano sudicia e nera verso il crocifisso d'avorio, come avrebbe fatto una
vergine dinanzi all'altare, baciando lo scapolare bisunto che trasse dal seno
cascante.
- Come vi chiamate?
- La Malerba -.
E siccome l'uditorio, nell'attesa
tragica, s'era messo a ridere, quasi per ripigliar fiato, ella soggiunse:
- Anche lui, gli dicevano
Malannata -.
E indicò l'imputato nel banco.
- Di chi siete figlia?
- Di nessuno.
- Quanti anni avete?
- Non lo so.
- Che professione fate? -
«Essa parve cercare la parola.»
- Donna di mondo, - disse infine.
Scoppiò un'altra risata
nell'uditorio. Il presidente impose silenzio scampanellando.
- Sì, donna di mondo, - ribatté
lei per spiegarsi meglio. - Ora con questo, e ora con quell'altro.
- Basta, abbiamo capito, -
interruppe il presidente.
- Conoscete da molto tempo
l'imputato?
- Sissignore. Questo qui me l'ha
fatto lui, tre anni sono -.
E indicò fieramente uno sfregio
che le segnava la guancia, dall'orecchio sinistro al labbro superiore.
- E non ve ne querelaste?
- No. Era segno che mi voleva
bene.
- Foste presente all'uccisione di
Rosario Testa?
- Sissignore. Fu alla Marina: il
giorno di tutti i Santi.
- E ne sapete il motivo?
- Il motivo fu che Malannata era
geloso...
- Geloso di Testa?
- Sissignore.
- E a ragione?
- Sissignore -.
Allora la vedova si celò il viso
fra le mani.
- Com'è possibile che Rosario
Testa, giovane, marito di una bella donna, gli desse ragione d'essere geloso...
per voi?
- Com'è vero Dio, questa è la
verità, - rispose la Malerba.
- Va bene, continuate.
- Avevo conosciuto quel
poveretto... il morto, prima di quest'altro cristiano, molto tempo prima, prima
ancora che si maritasse. Allora mi chiamavano la Mora dei Canali, Rosario Testa
faceva il fruttaiuolo, lì alla Peschiera. Era un libertino, buon'anima. Le
lavandaie dei Canali, le serve che venivano a far la spesa, con quella sua
galanteria di far regali, se le pigliava tutte. Ma per me specialmente ci aveva
il debole, ché una volta alla festa dell'Ognina gli ruppero la testa per via di
un marinaio ubriaco che mi voleva. Poi seppi che si maritava e mutava vita.
Andò a stare a San Placido col suo banchetto. Né visto né salutato. Io mi misi
con Malannata, sì, ch'erano i giorni del colèra.
Buon uomo anche lui, buono come il
pane, e se lo levava di bocca, quel poco che guadagnava, per darlo a me. Ma
geloso come il Gran Turco: «Dove sei stata? Cosa hai fatto?» E poi si picchiava
la testa con un sasso, pentito delle botte che mi dava. Quell'annata del
colèra, che tutti scappavano via e si moriva di fame davvero, egli voleva anche
mettersi a beccamorto, per non farmi fare la mala vita, col castigo di Dio che
si aveva addosso. Si lasciava morire di fame piuttosto che mangiare del mio
guadagno.
Sì, glielo dico in faccia, ora
che l'avete a condannare, perché questa è la verità dinanzi a Dio. Mi diceva,
poveretto: «No, non me ne importa. È che penso al come lo guadagni, questo
pane, e non posso mandarlo giù». Ma io che potevo farci? Poi lui lo sapeva che
cosa io ero. «Non importa», tornava a dire: «almeno non ci voglio pensare». Ma
aveva i suoi capricci anche lui, come una donna, e certuni non me li voleva
attorno. Allora diventava come un pazzo; si strappava i capelli e si rosicava
le mani, perché non era più giovane. Quando mi vedeva insieme al doganiere del
molo, che era un bell'uomo, colla montura lucida, mi diceva: «Vedi questo
quattrino arrotato, che io tengo in tasca apposta? con questo ti taglierò la
faccia, e dopo m'ammazzo io». E lo fece davvero. Io gli dissi: «Che serve? Ora
che m'avete sfregiata nessuno mi vorrà, e non sarete più geloso» -.
S'interruppe, con un orribile
sorriso di trionfo, guardando sfrontatamente in giro il presidente, i giurati,
i carabinieri, cinghiati di bianco, incrociando sul petto il vecchio scialle, con
un gesto vago.
- Ma non fu così, signor
presidente. Mi volevano ancora, per sua bontà. Già gli uomini, sono come i
gatti...
- E anche Rosario Testa? -
Ella chinò il capo, assentendo,
due o tre volte, con quel sorriso.
- Sissignore, anche lui! -
La vedova adesso la guardava
cogli occhi ardenti e feroci, le labbra pallide come le guance.
- V'ho detto ch'era un discolo,
buon'anima. E anch'io, al rivederlo, mi sentivo tutta fiacca, come m'avesse
fatto bere. Dicevo di no, perché Malannata era lì vicino, a scaricar zolfo nel
magazzino dietro la Villa, e tante volte mi aveva detto lui pure: «Bada che se
torni con Rosario, vi faccio la festa a tutti e due». Ma l'amore antico non si
scorda più, vossignoria!
- Basta. Dite come avvenne
l'omicidio.
- Così, come ve lo dico adesso,
signor presidente, col coltello dei fichidindia, quello lì.
- Testa era armato?
- Lui? povero ragazzo! Mi aveva
invitato a' fichidindia, una galanteria delle sue, lì, al banco di Pocaroba,
che ce li ha di quelli di Paternò, sino a Natale. Pocaroba dice: «Badate che
Malannata è in sospetto. L'ho visto che si affaccia ogni momento alla porta del
magazzino, e tien d'occhio compare Rosario». E Testa: «Lasciatelo guardare,
compare Pocaroba, che me ne rido di Malannata e del suo santo». Allora lasciai
stare i fichidindia, e cercavo di condurmi via l'altro; quand'ecco quel
cristiano lì correre dall'arco della ferrovia, tutto bianco di zolfo, e cogli
occhi come uno che ha bevuto, e in due salti ci fu addosso; afferrò il
coltello, dal banco dei fichidindia, prima di dire Gesù e Maria...
- Accusato, avete qualche cosa da
aggiungere?
- Nulla, signor presidente.
Questa è la verità sacrosanta -.
Allora sorse il pubblico
accusatore, togato e solenne, a malgrado della nota mondana dell'alto colletto
inamidato che gli usciva dal nero della toga; e fulminò il reo colla sua
implacabile requisitoria, facendo inorridire i giurati col quadro del vizio
abbietto che vive nel fango dei bassi strati sociali, per dar l'orrido fiore
del delitto, senza neppure la febbre della giovinezza, della passione o
dell'onore, senza nemmeno la scusa della tentazione o della gelosia. - Il vizio
che vive del disonore ed osa ribellarvisi col delitto -. E stendeva verso quel
grigio capo avvilito l'indice minaccioso, dall'unghia rosea e lucente.
Le signore, che dovevano alla sua
galanteria i posti riservati dell'aula, rianimavano la loro indignazione col
profumo della boccetta di sale inglese, soffocate dall'afa; e i larghi ventagli
si agitavano vivamente a scacciare il lezzo immondo della colpa, come farfalle
gigantesche. Poscia il magistrato si assise tranquillamente, ringraziando, con
un impercettibile sorriso, all'applauso discreto di quei ventagli che
s'inchinavano, ponendosi sul viso il fazzoletto di battista. Solo l'imputato
non aveva caldo, seduto sulla sua panchetta, col dorso curvo, il viso color di
terra rivolto verso tutte quelle infamie che gli rinfacciavano.
A sua volta prese a parlare
l'avvocato. Era un giovane di belle speranze, delegato d'ufficio dal presidente
a quella difesa senza compenso. Egli sfoderò gratuitamente tutte le sue
brillanti qualità oratorie. Esaminò lo stato psicologico e morale degli attori
del lugubre dramma; sciorinò le teorie più nove sul grado di responsabilità
umana; argomentò sottilmente intorno alle circostanze di fatto, per farne
risultare tutto ciò che occorreva a dimostrare la provocazione grave e
l'ingiuria. Qui veniva a taglio una pittura commoventissima di quella morbosa
gelosia senile, che doveva avere tutti gli strazi e le collere furibonde
dell'umiliazione e dell'abbandono. Sì, egli lo sapeva, non erano le coscienze
di uomini onesti, vissuti nel culto della famiglia, resi più sensibili dagli
agi, che avrebbero potuto scendere negli abissi di quei cuori tenebrosi e di
quelle infime esistenze per scoprire il movente di certe delittuose follie.
Forse soltanto il sentimento più delicato e immaginoso di quelle dame eleganti,
avrebbe potuto sorprendere il tenue filo per cui si legano i fatti più
mostruosi al sentimento più nobile in quegli animi rozzi. Egli seguì cotesta
fatale concatenazione che c'è fra tutti i sentimenti e le azioni umane con una
analisi così acuta, che più di un onesto padre di famiglia sentì turbata la sua
digestione dallo smarrimento della colpa, mentre era lì, seduto a giudicare,
pensando al ricolto del podere, o al fresco del terrazzino dove lo stava
aspettando la famigliuola. Per poco non si udirono degli applausi alla
perorazione dell'avvocato. Lo stesso presidente gli fece velatamente i
mirallegro.
- Accusato, avete nulla da dire a
vostra discolpa? - conchiuse il presidente.
L'accusato si alzò di nuovo,
colle braccia penzoloni, lungo la sua stecchita persona, e un gesto vago
dell'indice, come d'uomo persuaso di quel che dice.
- Signor presidente, ho ucciso
Rosario Testa, devo andare a morte anch'io, com'è scritto nella legge, e va
bene. La Malerba, poveretta, è quella che è, e anche ciò va bene. Ma quando me
la lasciavano sulla panchina del molo come una scarpa vecchia, chi andava a
dirle una buona parola ero io; e a chi ella diceva una buona parola quando
aveva il cuore grosso, ero io pure. Gli altri, pazienza, oggi questo, domani
quell'altro; le buttavano dei soldi e delle male parole, ed essa non ci pensava
più. Ma Testa, nossignore! Essa quando era stata con lui, mi ritornava a casa
tutta sossopra, cogli occhi che pareva ci avesse la luminaria dentro. Io glielo
aveva detto a Testa: «Guarda che a te non te ne importa. Tu ci hai moglie e
figliuoli; ma io non ho che questa qui, Testa!» -
Poi tornò a sedersi, accennando ancora
del capo, mentre la Corte si ritirava per deliberare. E rimase immobile,
nell'ombra, aspettando il suo destino. Era venuta la sera. La folla s'era
diradata, e nella sala accendevano il gas. Infine squillò di nuovo un
campanello, e comparvero di nuovo le stesse toghe nere, le stesse facce pallide
e stanche che guardavano l'imputato. Egli non capiva nulla delle frasi che
borbottavano in mezzo a quella folla, nell'ombra. Intese solo il presidente che
pronunziava la condanna: - A vita! -
E si alzò un'ultima volta,
barcollando sulle gambe, accennando sempre coll'indice quel gesto vago ch'era
tutta la sua eloquenza, e balbettò:
- Io glielo avevo detto a colui,
signor presidente -.
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