Nella collina solitaria, irta di
croci sull'occidente imporporato, dove non odesi mai canto di vendemmia, né
belato d'armenti, c'è un'ora di festa, quando l'autunno muore sulle aiuole
infiorate, e i funebri rintocchi che commemorano i defunti dileguano verso il
sole che tramonta. Allora la folla si riversa chiassosa nei viali ombreggiati
di cipressi, e gli amanti si cercano dietro le tombe.
Ma laggiù, nella riviera nera
dove termina la città, c'era una chiesuola abbandonata, che racchiudeva altre
tombe, sulle quali nessuno andava a deporre dei fiori. Solo un istante i vetri
della sua finestra s'accendevano al tramonto, quasi un faro pei naviganti,
mentre la notte sorgeva dal precipizio, e la chiesuola era ancora bianca
nell'azzurro, appollaiata come un gabbiano in cima allo scoglio altissimo che
scendeva a picco sino al mare. Ai suoi piedi, nell'abisso già nero,
sprofondavasi una caverna sotterranea, battuta dalle onde, piena di rumori e di
bagliori sinistri, di cui il riflusso spalancava la bocca orlata di spuma nelle
tenebre.
Narrava la leggenda che la
caverna sotterranea, per un passaggio misterioso, fosse in comunicazione colla
sepoltura della chiesetta soprastante; e che ogni anno, il dì dei Morti -
nell'ora in cui le mamme vanno in punta di piedi a mettere dolci e giocattoli
nelle piccole scarpe dei loro bimbi, e questi sognano lunghe file di fantasmi
bianchi carichi di regali lucenti, e le ragazze provano sorridendo dinanzi allo
specchio gli orecchini o lo spillone che il fidanzato ha mandato in dono per i
morti - un prete sepolto da cent'anni nella chiesuola abbandonata, si levasse
dal cataletto, colla stola indosso, insieme a tutti gli altri che dormivano al
pari di lui nella medesima sepoltura, colle mani pallide in croce, e
scendessero a convito nella caverna sottostante, che chiamavasi per ciò «la
Camera del Prete». Dal largo, verso Agnone, i naviganti s'additavano
l'illuminazione paurosa del festino, come una luna rossa sorgente dalla tetra
riviera.
Tutto l'anno, i pescatori che
stavano di giorno al sole sugli scogli circostanti, colla lenza in mano, non
vedevano altro che lo spumeggiare della marea, quando s'internava muggendo
nella «Camera del Prete», e il chiarore verdognolo che ne usciva colla risacca;
ma non osavano gettarvi l'amo. Un palombaro che s'era arrischiato a penetrarvi,
nuotando sott'acqua, uno che non badava né a Dio né al diavolo, pel bisogno che
lo stringeva alla gola, e i figliuoli che aspettavano il pane, aveva visto il
chiarore ch'era lì dentro, azzurro e ondeggiante al pari di quei fuochi che
s'accendono da sé nei cimiteri, il pietrone liscio e piatto, come una
gigantesca tavola da pranzo, e i sedili di sasso tutt'intorno, rosi dall'acqua,
e bianchi quali ossa al sole. L'onda che s'ingolfava gorgogliando nella
caverna, scorreva lenta e livida nell'ombra, e non tornava mai indietro; come
non tornò più quel poveretto che s'era strascinato via. L'estate, nell'ora in
cui ogni piccola insenatura della riva risonava della gazzarra dei bagnanti,
l'onda calma scintillava, rotta dalle braccia di qualche ragazzo che nuotava
verso le sottane bianche, formicolanti come fantasmi sulla spiaggia. - Così
quel prete, un sant'uomo, aveva perso l'anima e la ragione dietro i fantasmi
delle terrene voluttà, il giorno in cui Lei - la tentazione - era venuta a
confessargli il suo peccato, nella chiesetta solitaria ridente al sole di
Pasqua, col seno ansante e il capo chino, su cui il riflesso dei vetri
scintillanti accendeva delle fiamme impure. Da cent'anni le sue ossa, consunte
dal peccato, posavano nella fossa, stringendosi sul petto la stola maculata.
Ivi non giungevano gli strilli provocanti delle ragazze sorprese nel bagno, né
il canto bramoso dei giovani, né le querele delle lavandaie, né il pianto dei
fanciulli abbandonati. La luna vi entrava tacita dallo spiraglio aperto nella roccia,
e andava a posarsi, uno dopo l'altro, su tutti quei cadaveri stesi in fila nei
cataletti, sino in fondo al sotterraneo tenebroso, dove faceva apparire per un
istante delle figure strane. L'alba vi cresceva in un chiarore smorto, che al
fuggire delle ombre sembrava far correre un ghigno sinistro sulle mascelle
sdentate. Il giorno lungo della canicola indugiava sotto le arcate verdognole,
con un brulichìo furtivo di esseri immondi in mezzo all'immobilità di quei
cadaveri.
Erano defunti d'ogni età e d'ogni
sesso: guance ancora azzurrognole, come se fossero state rase ieri l'ultima
volta, e bianche forme verginali coperte di fiori; mummie irrigidite nei
guardinfanti rigonfi, e toghe corrose che scoprivano tibie nerastre. Dallo
spiraglio aperto nell'azzurro entravano egualmente il soffio caldo dello
scirocco, e i gelati aquiloni che facevano svolazzare come farfalle di bruchi
le trine polverose e i riccioloni cadenti dai crani gialli. I fiori, già secchi
di lagrime, si agitavano pel sotterraneo, come vivi, e andavano a posarsi su
altre labbra rose dal tempo; e appena il vento sollevava i funebri lenzuoli,
stesi da mani smarrite d'angoscia su caste membra amate, occhi inquieti di
rettili immondi guardavano furtivi nelle ossa nude.
Poscia, nell'ore in cui il sole
moriva sull'orlo frastagliato dello spiraglio, il ghigno schernitore di tutte
le cose umane sembrava allargarsi sui teschi camusi, e le occhiaie vuote farsi
più nere e profonde, quasi il dito della morte vi avesse scavato fino alla
sorgente delle lagrime. Là non giungeva nemmeno il mormorio delle preci
recitate all'altare in suffragio dei defunti che dormivano sotto il pavimento
della chiesuola, e i singhiozzi dei parenti non passavano il marmo della
lapide. Le raffiche delle notti di fortuna scorrevano gemendo sulla casa dei
morti, senza lasciarvi un pensiero per coloro che in quell'ora erravano laggiù,
pel mare tempestoso, coi capelli irti d'orrore al sibilo del vento nel
sartiame; né un senso di pietà per le povere donne che aspettavano sulla riva,
sferzate dal vento e dalla pioggia; né un ricordo delle lagrime che videro
forse, nell'ora torbida dell'agonia, e che bagnarono quegli stessi fiori che
adesso vanno da una bara all'altra, come li porta il vento. - Così le lagrime
si asciugarono dietro il loro funebre convoglio; e le mani convulse che
composero nella bara le loro spoglie, si stesero ad altre carezze; e le bocche
che pareva non dovessero accostarsi ad altri baci, insegnano ora sorridendo a
balbettare i loro nomi ai bimbi inginocchiati ai piedi dello stesso letto,
colle piccole mani in croce, perché i buoni morti lascino dei buoni regali ai
loro piccoli parenti che non conobbero. - Tanto tempo è passato, insieme alle
bufere della notte, e al soffio d'aprile, colle ore che suonano uniformi e impassibili
anch'esse sul campanile della chiesuola, sino a quella del convito!
A quell'ora tutti gli scheletri
si levano ad uno ad uno dalle bare tarlate, coi legacci cascanti sulle tibie
spolpate, colla polvere del sepolcro nelle orbite vuote, e scendono in silenzio
nella «Camera del Prete», recando nelle falangi scricchiolanti le ghirlande
avvizzite, col ghigno beffardo di tutte le cose umane nelle bocche sdentate.
Più nulla! più nulla! - Né la tua
treccia bionda, che ti cade dal cranio nudo. - Né i tuoi occhi bramosi, pei
quali egli sfidò il disonore e la morte, onde portarti il bacio delle labbra
che non ha più. Ti rammenti, i baci insaziati che dovevano durare eterni? - E
neppure i morsi acuti della gelosia, il delirio sanguinoso che mise in mano a
quell'altro l'arma omicida. - Né le lagrime che si piangevano attorno a quel
letto, e quel morente voleva stamparsi negli occhi dilatati dall'agonia. - Né
le ansie delle notti vegliate in quella stanza già funebre, in quell'attesa già
disperata. - Né le carezze con cui il caro bimbo pagava il latte di quel seno e
i dolori di quella maternità. - E neppure le lotte in cui l'uno si è logorato.
- Né le speranze che hanno accompagnato l'altro sin là. - Né i fiori del campo
per cui si è tanto sudato. - Né i libri sui quali si è vissuto tanta e tanta
vita. - Né la bestemmia del marinaio che stringe ancora le alghe secche nelle
falangi contratte. - Né la preghiera del prete che implora il perdono dei falli
umani. - E non l'azzurro profondo del cielo tempestato di stelle; né il
tenebrore vivente del mare che batte allo scoglio. - L'onda che s'ingolfa
gorgogliando nella caverna sotterranea, e scorre lenta e livida sulla «Tavola
del Prete» si porta via per sempre le briciole del convito, e la memoria di
ogni cosa.
Ora nel costruire la diga del
molo nuovo, hanno demolito la chiesuola e scoperchiano la sepoltura. La
macchina a vapore vi fuma tutto il giorno nel cielo azzurro e limpido, e
l'argano vi geme in mezzo al baccano degli operai. Quando rimossero l'enorme
pietrone posato a piatto sul piedistallo di roccia come una tavola da pranzo,
un gran numero di granchi ne scappò via, e quanti conoscevano la leggenda,
andarono narrando che avevano visto lo spirito del palombaro ivi trattenuto
dall'incantesimo. Il mare spumeggiante sotto la catena dell'argano tornò a
distendersi calmo e color del cielo, e scancellò per sempre la leggenda della
«Camera del Prete».
Nel raccogliere le ossa del
sepolcreto per portarle al cimitero, fu una lunga processione di curiosi,
perché frugando fra quegli avanzi, avevano trovato una carta che parlava di
denari, e molti pretendevano di essere gli eredi. Infine, non potendo altro, ne
cavarono tre numeri pel lotto. Tutti li giocarono, ma nessuno ci prese un
soldo.
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