Su tutte le cantonate immensi
cartelloni a tre colori annunziavano:
CAFFÈ-CONCERTO NAZIONALE
QUESTA SERA
DEBUTTO DI MADAMIGELLA EDVIGE
GRAN SUCCESSO DEL GIORNO
SENZA AUMENTO SUL PREZZO DELLE
CONSUMAZIONI
I pochi avventori mattutini del
«Caffè-Concerto Nazionale», già avvezzi ai grandi successi, non degnavano
neppure di un'occhiata il lenzuolo bianco, verde e rosso, sciorinato dietro il
banco, sul capo della padrona, la quale stava discutendo con una ragazza alta e
magra, che la supplicava a voce bassa, in atteggiamento umile, infagottata
nella cappa lisa. In un canto il lavapiatti sbracciato scopava un tavolone che
la sera faceva da palco, parato a drappelloni bianchi, verdi e rossi; ornato di
corone d'alloro di carta, che pendevano malinconiche.
La padrona scrollava il capo
ostinatamente, stringendosi nelle spalle. L'altra insisteva sempre a mani
giunte, facendosi rossa, quasi piangendo. Infine, come entrò un forestiero
stracco a bere un moka da venti centesimi, col naso sul giornale del giorno
innanzi, la ragazza si rassegnò ad intascare i pochi soldi che la padrona le
contava ad uno ad uno sul marmo, con un fare d'elemosina.
Alle otto in punto di sera,
accesi i lumi del pianoforte, il maestro, un giovanotto allampanato sotto una
gran barba e uno zazzerone che se lo mangiavano, dopo un grande inchino alla
sala quasi vuota, incominciò timidamente una ouverture di propria fabbrica,
mentre il «Caffè-Concerto Nazionale» andavasi popolando a poco a poco. Dopo montò
sul tavolone un pezzo d'uomo, vestito tutto di rosso come un gambero cotto, con
due enormi sopracciglia alla chinese, per darsi un'aria satanica, e dei
cornetti inargentati. Egli si mise ad urlare «la canzone dell'oro» come un
ossesso, allargando le gambe sul tavolato, stendendo gli artigli minacciosi
verso l'uditorio, con certi occhi terribili e certe boccacce sardoniche che
volevano incutere terrore. Al «dio dell'oro» mescolavasi l'acciottolìo dei
piattini, lo sbattere dell'usciale e la voce dei tavoleggianti, i quali
gridavano: - Panna e cioccolata! - oppure: - Tazza Vienna! - Mefistofele salutò
lo scarso pubblico, che non gli badava, e scese adagio adagio la scaletta col
mantelletto ad ali di pipistrello che gli sventolava dietro.
- Stasera avremo il gran debutto,
- osservò un avventore che centellava da tre quarti d'ora una chicchera di
levante.
- Il successo del giorno! -
grugnì il vicino, ch'era sempre lì a quell'ora, colla coppa di Vienna vuota
dinanzi, un mucchio di giornali sotto la mano, e la moglie addormentata
accanto.
Infatti, dopo il pezzo con
variazioni per pianoforte sulla Stella confidente venne il duetto dell'Ernani,
e comparve un'altra volta dalla cucina il baritono vestito alla spagnuola, con
un medaglione d'ottone che gli ballava sul ventre, e un cappello piumato in
testa, facendo largo a madamigella Edvige, tutta di bianco come un fantasma,
sotto la polvere d'amido e la veste di raso del rigattiere.
- Che braccia magre! - osservò un
dilettante, fiutandole quasi sotto i guanti lunghi e duri di benzina.
Carlo V offrì cavallerescamente
la mano ad Elvira per montare sul palco malfermo, e lì, nella gran sala piena
di fumo, il duetto incominciò. Ahimé! una vera delusione pel pubblico e pel
Caffettiere. Madamigella Edvige aveva una voce stridente che faceva voltare
arrabbiati anche i tranquilli lettori di giornali; e la poveretta, pallida come
una morta, aveva un bell'annaspare colle mani, e dimenare i fianchi, rizzandosi
sulla punta delle scarpette di raso troppo larghe, per acchiappare le note. Una
voce, dal fondo della sala gridò: - Presto! un bicchier d'acqua! - E tutto
l'uditorio scoppiò a ridere. Carlo V invece se la cavava magnificamente, avendo
le signore dalla sua, pei suoi effetti di polpa, sotto le maglie di colore
incerto, e le sue note alte che assordavano perfino i camerieri, e facevano
tintinnare le gocciole delle lumiere. La debuttante scese dal palco più morta
che viva, incespicando, colle sottane in mano, fra gli spintoni dei
tavoleggianti che correvano di qua e di là, portando i vassoi in aria.
Il dilettante di prima osservò
pure:
- Che piedi! -
Seduta in un cantuccio della
cucina, fra i lazzi degli sguatteri, e il fumo delle casseruole, la debuttante
aspettava scorata la sua sentenza, ed anche la cena, ch'era compresa nell'onorario,
alla tavola comune, insieme al cuoco, il baritono, i camerieri ed il maestro,
ancora in cravatta bianca. Quest'ultimo, un gran buon diavolo, malgrado la sua
barbona, cercava di confortarla come poteva: - La sala era tanto sorda! Chissà,
una seconda volta, quando fosse stata più sicura dei suoi mezzi... - La
poveretta rispondeva di tanto in tanto con un'occhiata umile e riconoscente a
quelle buone parole. Il baritono intanto, con un pastrano peloso gettato sul
giustacuore di Carlo V, e un tovagliuolo al collo, divorava in silenzio. -
Artisti bisogna nascere! - osservò infine a bocca piena.
La padrona, chiuso il libro e
spenti i lumi del Caffè, era scesa in cucina a dare un'occhiata. Alla povera
ragazza, che aspettava col viso ansioso, disse bruscamente:
- Cara mia, me ne dispiace, ma
non ne facciamo nulla. Avete visto che fiasco? -
L'altra rimaneva a capo chino,
coi fiori di carta nei capelli, e le spalle infarinate. - Mangiate, mangiate
pure! - ripigliava la padrona, una buona donna. - Che diamine! Non voglio che
la gente vada via a pancia vuota da casa mia -. Il maestro, che pensava al poi,
le spingeva il piatto sotto il naso. Ma la poveretta non aveva più fame; si
sentiva la gola come stretta dai singhiozzi; andava riponendo adagio adagio
nella borsetta i guanti lavati, i fiori di carta, e le scarpette di raso; senza
però potersi risolvere ad andarsene. Due ragazzacci, che parlavano forse di
tutt'altro, si misero a sghignazzare. Allora essa salutò umilmente tutti, e
s'avviò.
Sulla porta un cameriere in giubba
stava spengendo i lumi, e staccava il cartellone del Concerto, canticchiando: -
Gran successo del giorno! -
Per la via buia e deserta da
stringere il cuore, correvano le prime raffiche d'autunno. Il maestro, mosso a
compassione, le era corso dietro.
- Vuol essere accompagnata a
casa?... Senza complimenti.
- No, grazie, sto lontano assai.
- Diamine! diamine! Anch'io sono
aspettato a casa... Ma non posso lasciarla andare sola come un cane... Vuol
dire che affretteremo il passo.
- Davvero... Non vorrei abusare.
- No, no, spicciamoci piuttosto!
Anche per me è tardi... Ci ha qualcuno che l'aspetti?
- Nossignore, nessuno.
- Almeno ci avrà qualche
conoscente qui?
- Neppure, signore; sono arrivata
la settimana scorsa, con una lettera pel Caffè Nazionale: una corista, mia
compagna che vi era stata questa primavera, mi disse che ci avrei trovato
qualche cosa, non molto, è vero, ma nella stagione morta, sa bene... Laggiù,
alla piazza, erano rimaste cinquanta persone sulla strada, dopo la fuga
dell'impresario. Dicono che anche lui, poveraccio, ci abbia perso tutto il
suo... -
Il maestro pensava intanto a quei
giorni terribili in cui una notizia simile era arrivata come un fulmine al
Caffè, sulla faccia stravolta di un artista, e s'erano trovati tutti, raccolti
dallo stesso terrore, davanti alla porta chiusa del teatro. Poi erano corsi in
folla all'agenzia, come pazzi, in paese straniero, in mezzo a gente di cui non
conoscevano la lingua, e che si fermava sorridendo al passaggio di quella turba
affamata. E le lunghe ore dei giorni interminabili, passate al Caffè, il solo
rifugio, con una tazza di birra dinanzi, le notti terribili d'inverno, le
camicie portate tre settimane, il mozzicone di sigaro raccattato di nascosto.
Sentiva perciò una grande simpatia per quell'altra derelitta, e le andava
dicendo:
- Coraggio! coraggio! Bisogna
farsi animo! L'aiuterò anch'io, come posso... È vero che non posso far molto...
Son forestiero come lei... E non sono stato sempre fortunato... Ma vedrà che il
buon tempo giungerà anche per lei... Diavolo! diavolo! Dov'è andata a scovarlo
quest'albergo, così lontano?
- Me lo indicarono laggiù...
perché spendessi meno... Mi rincresce per lei!...
- No, no... È che m'aspettano a
casa... Sanno l'ora, press'a poco... Mi toccherà inventare qualche storiella...
Ma lei non pensi a questo... Deve aver altro in testa, lei, poveretta! Ci dorma
su, si faccia animo, che quanto potrò lo farò ben volentieri per lei.
- Oh, signore!... Com'è buono!...
- Niente, niente, una mano lava
l'altra. Se non ci aiutiamo fra di noi! Il male è che non posso far molto!...
Infine ella disse:
- È qui -. Picchiò all'uscio di
un albergaccio d'infima classe, e gli strinse la mano colle lagrime agli occhi.
Aveva la faccia tanto buona, colla barba lunga, e il misero paletò che il vento
gli incollava addosso come fosse di lustrino. Dalla finestra una vociaccia
assonnata rispose brontolando:
- Vengo! vengo! Bell'ora di
tornare a casa! -
Anche lui, in quel momento, la
guardò negli occhi, le strinse forte la mano due o tre volte, mosse le labbra,
per dire qualche cosa, infine proruppe: - Me ne vado, sono aspettato. Buona
notte! Buona notte! - E partì correndo.
La stanzuccia, che pigliava lume
da un finestruolo sulla scala, costava cinquantacinque centesimi al giorno, tre
soldi di pane e latte la mattina, trentacinque centesimi il desinare. La sera
poi doveva spendere altri sei soldi per andare al Caffè Nazionale, dove era
quasi certa di vedere il maestro, la sola persona che conoscesse nella città.
Negli intermezzi, quando poteva, egli andava a salutarla; da lontano, prima di
parlare, gli si vedeva in viso la stessa notizia scoraggiante: - Nulla ancora!
- Poi, al vederla così triste e rassegnata, colla chicchera di Caffè vuota sul
tavolino, voleva pagar lui. Ma essa non permetteva, arrossendo fino ai capelli.
- No, signore, un'altra volta! - Egli non osava insistere, ma avrebbe voluto
che lei lo considerasse come un vero amico, come un fratello. Le confidava i
suoi piccoli guai, anche lui, per incoraggiarla. Le narrò a poco a poco tutta la
sua vita, proprio come a una sorella, oggi una cosa, domani l'altra: il
fallimento dello zio che s'era preso cura di lui orfano, la vocazione strozzata
dal bisogno, il pane trovato con mille stenti qua e là, tutta la sua giovinezza
scolorita, scoraggiata, senza gioie, senza fede, senza amore. Essa allora
sorrideva, scotendo il capo con una grazia giovanile che la faceva tornar
bella. - No, no! Ve lo giuro! Mai! - Allora chinavano il viso, malinconici. Una
volta i loro occhi s'incontrarono, e si fecero rossi tutti e due.
Ma spesso egli giungeva
accompagnato da un donnone coi baffi come un uomo d'arme, la quale aveva il
colorito acceso, con un gran cappellone di felpa ornato di piume rosse, ed era
serrata in una veste di seta grigia che pareva dovesse scoppiare a ogni
momento. Quelle volte il maestro non osava muoversi neppure; il donnone, dal
suo posto, non lo perdeva di vista un momento, sotto le piume rosse del
cappellone. - È la mia padrona di casa, una buona donna, - le aveva detto lui.
- Ma quando ci vede insieme faccia finta di niente, per carità! -
Fu come una fitta al cuore. Il
baritono che l'incontrò per la strada, tutta sottosopra, le propose di
accompagnarla. - Permettereste voi, mia bella damigella, d'offrirvi il braccio
mio, per far la strada insieme? - Ella ricusava. Andava molto lontano... Non
voleva abusare... - Ma che! ma che! Bagattelle! D'altronde son ben coperto. Con
questa pelliccia qui, potrei andare sino al Polo! Senta! senta! Un regalo dei
miei amici di Odessa. Tutta volpe di Siberia; una bestia che vende cara la sua
pelle a quello che dicono!... Eh! eh! Comincia presto l'inverno quest'anno! Non
c'è male, n'è vero?... Buona notte, maestro! -
Questi passava rattrappito nel
suo paletò, dando il braccio alla sua compagna, di cui la veste grigia
luccicava come un'armatura sotto il lampione. - È la fiamma del maestro, -
aggiunse il baritono. - Una pira, come vede! Però un buon diavolaccio anche
lui! Un po' timido, un po' bagnato, come diciam noi, ma il mestiere lo conosce,
ve lo dico io! Quando vi siete mangiate quelle note della cabaletta, la sera
del vostro debutto, vi rammentate? do, sol, do, nessuno se n'è accorto. Peccato
che non riempiano lo stomaco le note che si mangiano, eh! eh! eh! Capisco,
capisco, l'emozione, la paura... Ma bisogna aver la faccia tosta, mia cara; e
sputar fuori le vostre note pensando che quanti stanno ad ascoltarvi sono tutti
una manica di cretini, se no non si fa nulla! Però vorrei sapere chi è quel
boia che vi ha messo in questo mestiere, senza voce come siete!
- La voce ce l'avevo. Fui
ammalata tanto tempo e d'allora in poi, in principio dell'inverno ci ho sempre
come una spina qui...
- Ah! ah! Peccato! Alle volte,
vedete, succedono di queste cose che si farebbe scendere gli dei del cielo!...
-
In fondo, del cuore ce ne aveva
anche lui, sotto la pelliccia, e sapendo che era a spasso cercava di consolarla
come poteva.
- Bisogna farsi animo, mia cara
amica. Cent'anni di malinconia non ci danno una sola giornata buona. E poi son
cose che abbiamo passate tutti quanti. La va così, per noi altri artisti. Oggi
fame, domani fama! Non parlo per me, ché non posso lagnarmi, grazie a Dio!
M'hanno sempre voluto bene da per tutto! Guardate questo anello di brillanti! E
queste catenelle d'oro, oro di ventiquattro carati, garantito! Ma ogni santo ha
la sua festa. Vedrete che verrà la vostra festa, anche per voi! -
Chiacchierava, chiacchierava, con
una certa bonomia che gli veniva in quel momento dallo stomaco pieno, dalla
pelliccia calda, dal bicchierino di cognac, e anche dalla vicinanza di quella
giovane simpatica, che sentiva tremare di freddo sotto il suo braccio, nella
via deserta. - Vedrete che verrà la vostra festa. Bisogna tentare un'altra
volta; in un'altra piazza, ben inteso! Peccato che non abbiate voce! Avete
provato se vi vanno le canzonette allegre? Per quelle si fa anche a meno della
voce. Ma occorrono altri requisiti: del tupé, l'occhio ardito, i fianchi
sciolti... e un po' più di polpa, che diavolo! È vero che questa può venire...
siete giovane!... -
Così dicendo l'esaminava dalla
testa ai piedi, ogni volta che passavano sotto un lampione, col fare allegro e
senza cerimonie di buon camerata. - E non bisogna fare tante smorfie, cara mia.
Colle smorfie non si mangia. E non aver neppure dei grilli in capo. Io, come mi
vedete, ho fatto i primi teatri del mondo; potete dimandare a chi volete di
Arturo Gennaroni; eppure quando vennero ad offrirmi la scrittura pel Concerto
del Caffè Nazionale non mi feci tirar le orecchi. Si piglia quel che capita.
Oggi qui, domani là. Come? ci siamo di già? Avrei fatto altri due passi, per
avere il piacere di stare con voi ancora. Il tempo passa presto. Che bella
serata, in così buona compagnia eh? Un freddo secco che fa bene allo stomaco. È
quello il vostro albergo? Hum! hum! Quasi quasi v'offrivo ospitalità in casa
mia! -
E com'essa si stringeva
all'uscio: - Eh, non abbiate paura! Che non voglio mica mangiarvi per forza.
Non volete? Buona notte! -
Il maestro le aveva procurato due
o tre indirizzi d'agenti teatrali ai quali l'aveva raccomandata. La presentò ad
un impresario che montava un'operetta. Tutti rispondevano: - Pel momento non
c'è nulla -. L'impresario soggiunge: - Bisogna vedere se vi è rimasta qualche
altra cosa di bello, figliuola mia, perché la voce se n'è andata. Be', be', se
avete di questi scrupoli non ne parliamo più! -
Ella tornava indietro così
avvilita che il maestro si fece animo per dirle: - Sentite... È un pezzo che
volevo dirvelo... Se avete bisogno di denaro... forestiera come siete... senza
amici... senza aver altri conoscenti... Non son ricco, è vero... Ma quel poco
che ho. No! no! non vi offendete. In imprestito, vedete! Come tra fratello e
sorella!... -
Ella scoppiò a piangere.
- Dio mio! Vi ho forse offesa?
Non intendevo offendervi, vi giuro. Se mi volete un po' di bene anche voi!...
Io ve ne voglio tanto!... Basta, basta, perdonatemi! Sia per non detto! Ma
promettetemi almeno che se mai... il giorno in cui... Pensate che vi voglio
bene... come un fratello... E vorrei che anche voi... -
Ella gli stringeva le mani, colle
lagrime agli occhi, per dirgli di sì... che anche lei... che gli prometteva...
Ma piuttosto sarebbe morta. Da
tutti, da tutti, prima che da lui! Glien'era riconoscente, sì! Avrebbe voluto
anzi dirgli tante cose, per provarglielo, che non ci aveva più nessun altro in
cuore... che quell'altro a poco a poco se n'era andato via, com'era andato
lontano; e domandargli della donna che spesso veniva con lui al Caffè, e le
dava una stretta al cuore... Delle sciocchezze, via! ma non sapeva da che parte
incominciare. Egli sembrava sulle spine, ogni volta che erano insieme, guardava
intorno, con aria inquieta; evitando d'incontrarla, nelle vie frequentate,
scappando subito con un pretesto se c'era gente.
Uno dopo l'altro aveva prima
impegnato i pochi oggetti che avessero qualche valore: gli orecchini, il
braccialetto d'argento dorato, la poca roba d'estate, fino il baule dove la
teneva. Tanto non poteva più andarsene. Poscia vendette le polizze dei pegni.
Alla posta, l'ultima speranza degli sventurati in paese straniero, le
rispondevano invariabilmente, due volte al giorno:
- Nulla! -
Una sera che ne usciva
barcollante, incontrò il baritono, Arturo Gennaroni, sempre impellicciato, che
le fece un gran saluto cerimonioso, levando in alto il cappello come se volesse
dire evviva! Giusto voleva presentarle l'amico che era con lui - Temistocle
Marangoni, il primo basso del mondo! - un uomo di mezza età, tutto capelli e
barba, con un cappellone a cono, drappeggiato in un mantello grigio, e che
sembrava che parlasse di sottoterra. - E dove corre, signora Edvige? Voleva
sfuggirmi? Non è mica in collera con me, spero! -
Ella si scusava di non aver udito
perché credeva che non dicesse a lei: - Io mi chiamo Assunta. Ma sul cartellone
la padrona del Caffè pretendeva che quel nome non facesse...
- È vero, è vero. Anche il mio è
un nome di guerra, per riguardi di famiglia, sa bene. Mio padre è il primo
negoziante di Napoli. Laggiù hanno ancora dei pregiudizi... Sa bene... Veniamo
con lei, se non le dispiace -.
Strada facendo aggiunse che era
libero quella sera, perché la padrona del Caffè Nazionale l'aveva licenziato -
una cabala che gli avevano inventato contro per gelosia di donne. Temistocle,
lì, poteva dirlo. - Il basso agitava il barbone per attestarlo. Anche a lui
avevano rubato la scrittura, quell'animale di Gigi Lotti, una scrittura di
seimila franchi, viaggio intero pagato, col pretesto che la conferma al
telegramma non era venuta. Ma gli voleva rompere il muso, la prima volta che
l'incontrava alla birreria! Gennaroni, intanto che il suo amico si sfogava,
chiedeva ad Assunta cosa avrebbe fatto della sua serata. - Si voleva andare al
Concerto del Caffè Nazionale? Sentirebbero che porcherie! Lui se le sarebbe
godute mezzo mondo, e si sarebbe fregate le mani magari se quella carogna della
padrona fosse venuta ginocchioni a supplicarlo e ad offrirgli doppia paga. -
Andiamo, andiamo. Pago io, Temistocle! Dei soldi, grazie a Dio, ce n'è sempre
qui. Veniteci anche voi, bella Assuntina. Chissà che non troverete il fatto
vostro? -
Sul tavolato, in mezzo al gran
fumo della sala, una donna cogli occhi neri come avesse il colèra, e i pomelli
color cinabro, nuda fino allo stomaco, strillava con voce rauca delle
canzonette che facevano andare in visibilio l'uditorio, schioccando le dita, e
con una mossa dei fianchi che faceva svolazzare la sua gonnella corta sino ai
legaccioli. Un vecchiotto, seduto in prima fila, col mento sul pomo
dell'ombrello, si crogiolava dal piacere, ammiccando ai vicini, ridendo nella
bazza, applaudendo anche col cranio calvo sino alle orecchie. Una modesta
famigliuola, padre, madre e figliuoli in abbondanza, era venuta a solennizzare
la festa al Caffè, ridendo saporitamente; solo la maggiore, una ragazzina magra
e nera come un tizzone, dimenticava persino il sorbetto per ascoltare la
cantatrice, sgranando degli occhi enormi, seria seria. Altri, nella sala,
vociavano, picchiavano colle mazze ed i pugni sui tavolini, facevano un chiasso
indiavolato, accompagnando il ritornello, interrompendolo con esclamazioni da
trivio. Gennaroni ripeteva: - Ditemi poi se questa è arte! Ditemi se non è vera
porcheria! - Tutt'a un tratto si vide la gente affollarsi davanti al palco,
intorno a un omettino in tuba il quale gesticolava colle mani in aria. La donna
invece si ostinava, col viso sfacciato, cercando cogli occhi nella folla i suoi
protettori. Un tale, vestito da operaio, coi baffi grossi e la faccia dura, si
arrampicò sul tavolato in mezzo ai fischi che assordavano, e prese la cantante
per le spalle, spingendola verso due questurini in uniforme che s'erano fatti
largo a furia di spintoni, e agitavano le braccia. Il gruppo scomparve nella
folla, verso la cucina, fra un uragano di fischi, d'urli e di risate. Il
baritono si dimenava come un ossesso, smanacciando, gridando: - Bravo! bis! -
poi corse a stringere la mano al maestro, ancora sbalordito dinanzi al
pianoforte.
- Che cagnara, eh! Ma la colpa
non è tua, poveretto! Ci ho gusto per quella carogna della padrona, la quale
pretendeva di averne le tasche piene di musica seria, lei e il suo pubblico.
Come se non glielo avessimo fatto noi questo pubblico. E non le avessi fatto
guadagnare più quattrini che non abbia capelli nella parrucca, quella strega! -
Intanto si sbracciava per farsi
scorgere, gesticolando, gridando forte, calcandosi ogni momento la tuba
sull'orecchio, posando di tre quarti, col bavero della pelliccia rialzato sino
alle orecchie, malgrado il gran caldo, e un fazzoletto di seta al collo, come
avesse avuto un tesoro da custodirvi.
- Dovresti farle intendere
ragione, a quella stupida. Dovresti metterti in mezzo. S'è quistione di soldi,
si può aggiustarsi. Non ho mai fatto questione di quattrini per l'arte. Ma
bisogna concludere subito. Sì o no! Ho delle offerte magnifiche per l'estero.
Domattina devo dare una risposta -.
Poi tornò al suo posto
trionfante, facendosi largo nella folla. - Ah! ah! ve lo dicevo io! Ora tornano
a pregarmi! Mi hanno offerto carta bianca. Hanno bisogno di me per fare andare
la baracca! -
Il basso gongolava, come se si
fosse trattato di lui, picchiava sul tavolino per ordinare altra birra. - Ogni
conoscente che entrava nel Caffè lo invitava a prendere qualche cosa, facendo
segno coll'ombrello, chiamando ad alta voce. - Tienti sulla tua, sai,
Gennaroni! Fatti tirar le orecchie, prima di dir di sì! - L'altro scrollava il
capo, minaccioso, come a dire: - Vedrete! vedrete! - Poi si alzava in piedi e
faceva le presentazioni in regola: - Romolo Silvani, primo ballerino. - Augusto
Baracconi, primo tenore assoluto, e suo fratello. - Ernesto Lupi, distinto
pittore. - Fiasco completo, amici miei! Peccato che siate venuti tardi! - Essi,
per cortesia, tornavano a pregarlo che narrasse. Ma Baracconi fratello stava
col naso nel bicchiere, tutto intento a godersi il trattamento; Lupi disegnava
delle caricature sul marmo del tavolino; il tenore diceva roba da chiodi di un
collega sottovoce con Marangoni, e Silvani, dall'altro lato, domandava se
quella bella giovane appartenesse all'amico Gennaroni, lisciandosi i baffettini
neri come la pece, accarezzando la chioma inanellata, componendo la faccetta
incartapecorita a un risolino seduttore. Tutti quanti però, a ogni pezzo nuovo,
quando Gennaroni atteggiava il viso a una boccaccia di disgusto, facevano coro
per sdebitarsi coll'amico, battendo in terra coi tacchi e coi bastoni, vociando
- basta! basta! - mettendosi a sghignazzare. Il baritono infine, vedendo che il
maestro non osava prendere le sue parti, quasi fosse inchiodato al pianoforte,
andò a salutare la padrona del caffè, colla scappellata alta, tutto gentilezze,
mentre essa cambiava i gettoni e teneva d'occhio i garzoni che uscivano dalla
cucina. In quella entrò il donnone del maestro, più accesa in viso che mai.
Aveva udito il baccano dalla strada, mentre veniva a prendere Bebè.
- No, no, lui non ci ha colpa, -
le dicevano gli amici.
Gennaroni, che tornava dal banco
fuori di sé, aggiunse ch'era proprio un bebè, un pulcino bagnato, uno che non
era capace di dir due parole per un amico. Le domandava ridendo se le capitava
di dargli le sculacciate, qualche volta.
L'altra continuava a ridere,
scrollando le piume del cappello. - No, no, era così buono il poveretto!
proprio come un fanciullo! A lasciarlo fare se lo sarebbero mangiato vivo,
certe sgualdrinelle che sapeva lei! - Infine se lo prese sotto il braccio, e se
lo portò via. Gli altri se n'erano andati pure ad uno ad uno. Il basso protestò
che correva a vedere se era giunto il telegramma, e piantò lì il bicchierone
vuoto su di una pila di piattelli. Assunta rimaneva sbalordita, colla tazza a
metà piena, il cappellino di paglia e la eterna cappa grigia che la facevano
sembrare più misera. Nell'uscire barcollava perché non aveva preso altro tutto
il giorno, quasi il chiasso le avesse dato alla testa. - Che avete? - chiese
Gennaroni. - Eh, la birra! Non ci sarete avvezza! - Essa invece pensava a
quella disgraziata che l'avevano mandata via coi questurini. - Non temete, no;
che il pane non gli manca a quella lì... e il letto neppure! - conchiuse il
baritono. Tirava vento, e cominciavano a cadere i primi goccioloni della
pioggia. - Sentite, cara Assunta. Adesso dovreste fare una bella cosa:
venirvene a casa mia a scacciare insieme la malinconia! Avete visto come fanno
gli altri? Ciascuno colla sua ciascuna! Ci avete il vostro ciascuno voi? -
Ella non rispondeva, colla testa
sconvolta, il cuore stretto da un'angoscia vaga, un senso di sconcerto nello
stomaco, davanti agli occhi una visione confusa dell'albergatrice arcigna che
voleva esser pagata, dell'impiegato postale che le rispondeva - nulla! -, dei
visi sconosciuti in mezzo ai quali andava e veniva tutto il giorno, della donna
enorme che si era portato il maestro sotto il braccio - intirizzita dalla
tramontana, coi ginocchi che le si piegavano sotto. L'altro seguitava a
stordirla chiacchierando, soffiandole sul viso le sue parole calde e il fumo
del sigaro, stringendole forte il braccio sotto la pelliccia. Allo svoltare di
un'altra via essa alzava gli occhi, e si guardava intorno, balbettando: - Dove
andiamo? Dove andiamo? - come fuori di sé. Gennaroni le diceva adesso delle
parole dolci e sonore che la stordivano: - vieni meco! Sol di rose, intrecciar
ti vo' la vita... - colla chiave che s'era levata di tasca aveva aperto un
usciolino sgangherato. Nell'androne buio, prima d'accendere un fiammifero, se
la strinse sul costato come nel melodramma, di tre quarti, un braccio sulla
spalla e l'altro sotto l'ascella.
Là nel lettuccio magro e cencioso
della cameraccia nuda che prendeva lume da un cortiletto puzzolente, ella gli
narrò il povero romanzo della sua vita, per quel bisogno d'abbandono con cui
gli si era data, mentre egli sbadigliava, cogli occhi gonfi, e l'alba
insudiciava le pareti untuose, da cui pendevano appesi ai chiodi i costumi
stinti da teatro. - Aveva amato un giovane che usciva dal Conservatorio, con
due o tre spartiti pronti, e intanto s'era messo a dozzina in casa loro, per
sessanta lire al mese, tutto compreso. Gli altri pigionali erano un professore,
un impiegato al dazio, e due studenti. Sua sorella lavorava in un magazzino di
guanti; il babbo era guardia municipale; lei gli avevano consigliato d'imparare
il canto, che sarebbe stata una fortuna per tutti, e le avevano fatto lasciare
anche il mestiere d'orlatrice, col quale si sciupava le mani, per novanta
centesimi al giorno. Finché giungevano le vacanze, nove mesi dell'anno, si
stava piuttosto bene. Poi quando gli studenti se ne partivano, il professore
andava a fare i bagni, e l'impiegato desinava in un'osteria fuori porta per
risparmiare i soldi dell'omnibus, si restringevano un po' nelle spese, e il
giovane del Conservatorio s'adattava con loro, proprio come uno della famiglia.
Le domeniche andavano a spasso
insieme; qualche volta egli portava un bel cocomero, e si faceva festa, nel
terrazzino. Soleva dire scherzando: - Ce ne ricorderemo poi, quando saremo
ricchi, sora Assunta! - Era così buono! aveva negli occhi un non so che, come
vedesse lontano tante cose, e diceva che l'arte gli spingeva delle nuvole d'oro
sconfinate nel pezzettino di cielo che si vedeva al di sopra del vicoletto,
allungando il collo. La sera si metteva a sonare al buio, pratico com'era della
tastiera, ed essa stava ad ascoltare più che poteva, dietro l'uscio, quella
bella musica che le penetrava al cuore come una dolcezza.
Egli che se n'era accorto infine,
le diceva di tanto in tanto: - Le piace? dice davvero? - Voleva pure che
Assunta gli cantasse la sua musica. Un giorno che la sua voce gli era piaciuta
tanto, tanto che a lei stessa le sembrava fosse un'altra che cantasse, egli si
alzò all'improvviso dal pianoforte, e la strinse fra le braccia, tutta tremante
anche lei, senza sapere quel che si facessero.
La mamma, povera e santa donna,
non ne seppe nulla. Allorché fu impossibile nascondere quello che era avvenuto,
il giovane scappò al suo paese, per paura del babbo municipale. Ella ne fece
una malattia mortale, durante la quale la mamma sola veniva a trovarla di
nascosto. Un giorno le disse piangendo che lui se n'era andato via lontano, in
Grecia, in Turchia, molto lontano insomma! Era svanita l'ultima speranza.
All'ospedale, appena fu guarita, non vollero lasciarla. Il babbo aveva giurato
che non l'avrebbe più ricevuta in casa sua. Un avventore della guantaia dove
lavorava sua sorella le aveva procurato una scrittura di corista al Politeama.
D'allora aveva girato il mondo, da un teatro all'altro, viaggiando in terza
classe, dormendo in alberghi dove la notte venivano a bussarle all'uscio e a
minacciarla, digiunando spesso per mantenersi onesta, passando lunghe ore
nell'anticamera di un'agenzia, assediando il camerino dell'impresa per essere
pagata, impegnando la roba d'estate per coprirsi l'inverno. A Mantova s'era
ammalata d'angina, mentre provavano il Ruy Blas, e aveva perso la voce.
La mamma era morta giusto mentre era all'ospedale. Il babbo s'era rimaritato.
La sorella era andata via di casa per non stare colla matrigna.
- Un bel porco, quel tuo allievo
del Conservatorio! te lo dico io! - conchiuse Gennaroni, stirandosi le braccia.
Ora pur troppo gli era cascata
addosso quella tegola sul capo! per un momento di debolezza, per aver troppo
cuore, e non trovare il verso di dirle: - Cara mia, ogni bel giuoco vuol durar
poco! - Ella non se ne dava per intesa, aveva fatto lì il nido come una
rondine. Una che non era neanche buona a stirargli i solini, o a fargli uno
stufatino con patate. Giusto in quel momento poi che si trovava a spasso, e i
soldi volavano come avessero le ali! Vero che la poveretta non si lagnava mai,
fossero carezze o schiaffi, mangiava poco, e non chiedeva neppure un paio di
scarpe. Ma, tanto, era un altro peso. Agli amici, che le facevano l'occhietto,
Gennaroni, fra burbero e scherzoso, soleva dire: - Da cedere con ribasso, per
liquidazione! -
Avevano preso a frequentare un
caffeuzzo oscuro annesso al teatro, una specie di succursale dell'agenzia, dove
bazzicavano soltanto gli artisti a spasso, che vi facevano un gran consumo di
virginia ai ferri e d'acqua fresca, sparlando dei colleghi assenti, portandovi
le prime notizie dei fiaschi, sempre a caccia di cinque lire, e giocando alle
carte sulla parola. Gennaroni vi conduceva la sua amante di prima sera, per
risparmiare il lume; la faceva sedere nel suo cantuccio, lì vicino alla stufa,
dove nessuno andava a disturbarla, giacché il garzone del caffè era avvezzo a
non seccar la gente se prima non lo chiamavano, e si metteva a giocare a
scopone, oppure se ne andava pei suoi affari. Spesso le diceva: - Sai, mia
cara, io non sono geloso! - Ma il primo ballerino si limitava a strizzarle
l'occhio da lontano, col gomito appoggiato al banco, e il busto inarcato sotto
la giacchetta bisunta. Marangoni, all'ombra del suo enorme cappellaccio,
facendole il solletico colla barbona nel parlarle all'orecchio, le chiedeva,
colla sua bella voce che sembrava venire di sotto il tavolino: - Quando verrà
il mio quarto d'ora? - E Lupi diceva che voleva farle il ritratto, «se era
tutt'oro quello che riluceva». - Oro di coppella, com'è vero iddio! -
sghignazzava Gennaroni. Il tenore invece non parlava d'altro che di scritture e
di telegrammi che aspettava; di cabale che gli montavano contro tutti i giorni;
di gente a cui voleva rompere il muso. Dell'amore, lui, non sapeva che farne:
era buono da mettere in musica soltanto; più d'una volta cogli amici aveva
detto chiaro e tondo quel che pensava di Gennaroni, lui stupido che si era
appiccicato quel cerotto, una che tossiva sempre, come se gli fossero mancate
altre donne, a quel macaco!
Una sera capitò anche il maestro,
il quale aveva fatto san Michele lui pure, ora che al Caffè Nazionale c'era un
giocatore di bussolotti. Gennaroni si fregava le mani sbraitando: - Vedrete che
chiuderanno fra due mesi! Ve lo dico io! - Assunta si sentì come un tuffo nel
sangue appena vide entrare il maestro, e avrebbe desiderato che egli non si
accorgesse di lei, nel suo cantuccio presso la stufa. Il poveraccio era così
disfatto e scombussolato che non sapeva nemmeno come rispondere a tutti coloro
che gli facevano ressa intorno. Poi, come la scorse, cogli occhi addosso a lui,
andò a salutarla, domandandole come stava, se aveva trovato qualche cosa, nel
tempo che non s'erano più visti. Pur troppo, anche lui non aveva trovato
nulla!... se no glielo avrebbe fatto subito sapere!... Dopo che il maestro ebbe
voltate le spalle, incominciarono le osservazione sul conto di lui. - Quello lì
se ne rideva! - Era ben appoggiato! - Appoggiato a un vero pilastro! -
Baracconi disse una parolaccia.
Verso la fine di dicembre gli
avventori del Caffè del teatro sembravano ammattiti, formando dei crocchi
animati, disputandosi fra di loro, cavando ogni momento dal portafogli lettere
e telegrammi sudici, correndo sull'uscio, ogni volta che s'apriva, per vedere
se giungeva un fattorino del telegrafo. Il domani di san Stefano erano tutti lì
dalle sette, davanti la porta del Caffè, sotto la pioggia, coll'ombrello
aperto, ansiosi, guardandosi in cagnesco fra di loro - delle facce nuove che si
vedevano soltanto nelle grandi occasioni, pastrani senza pelo e stivaloni
infangati, scialli messi a guisa di pled, cappelloni di donna e sottane che
sgocciolavano sul marciapiedi.
Alcuni dei vecchi mancavano: il
tenore, un basso, rimorchiatovi da poco dal Silvani, e due o tre altri, di cui
i rimasti dicevano corna. Attraverso l'usciale si udiva come un brontolìo sordo
di rivoluzione nello stanzone vuoto, dove il Lupi beveva a piccoli sorsi un
Caffè caldo, schizzando la testata di un giornale davanti al garzone in maniche
di camicia che gli si buttava addosso per vedere, col ventre sul tavolino.
Assunta, rimasta a casa, stava
facendo cuocere due uova in una caffettiera posata sullo scaldino, quando udì
picchiare all'uscio, e le comparve dinanzi il maestro all'improvviso - così in
camiciuola com'era e ancor spettinata. Egli pure era sossopra, talché non si
avvide nemmeno dell'imbarazzo di lei.
- Lei!... Lei qui! Come ha
saputo?... - Gennaroni stesso. Siamo stati insieme -. Ella avvampò in viso,
cercando macchinalmente i bottoni della camiciuola. - Venivo a portarle una
buona notizia... Un mio amico che è incaricato di formare una compagnia pel
Cairo... m'ha promesso di scritturarla.
- Ma... Non saprei... così
lontano...
- No, no, bisogna risolversi
piuttosto... Bisogna accettare.
- È che... dovrei parlarne prima
a un'altra persona... Non potrei risolvermi da sola... così su due piedi... -
Il maestro le afferrò le mani,
quasi per forza:
- Bisogna accettare! Dica di
sì... È pel suo meglio! -
Essa non l'aveva mai visto a quel
mondo. Allora, colla gola stretta da un'angoscia vaga, si fece animo per
interrogarlo... Voleva sapere... - Gennaroni partirà stasera col diretto. Deve
imbarcarsi a Genova domani, - disse infine il maestro. - Chi gliel'ha detto? -
Lui stesso; lo sanno tutti -. La poveretta cercò una seggiola brancolando. -
No! no!... Non può essere! Non mi ha detto nulla!... Stamattina ancora!... -
Glielo dirà poi, quand'è il momento di partire... A che scopo tormentarla
avanti tempo? - È vero! è vero!... -
Allora si mise a piangere cheta
cheta nel grembiule. Poscia, quando fu un po' più calma, si asciugò gli occhi,
senza dir nulla, e si mise a preparargli la valigia, un bauletto di cuoio nero
tutto strappi e scontrini di ferrovia: le camicie di flanella, la scatola dei
polsini, le pantofole slabbrate, la pipa nella quale egli soleva fumare, il
berretto di pelo che teneva in casa, i costumi da teatro appesi ai chiodi -
ogni oggetto che toglieva dal solito posto si sentiva staccare pure dal seno
qualche cosa, dinanzi a quelle pareti nude. Il maestro l'aiutava. Gennaroni,
tornando a casa, li trovò in quelle faccende. - Bravi! Bravi! Gliel'hai detto?
- In fondo era davvero un buon diavolaccio, penetrato sino al cuore dalla
dolcezza con cui Assunta s'era rassegnata.
- Così buona! così giudiziosa,
povera ragazza! Tutto l'opposto del tuo carabiniere, eh! -
Egli voleva anche abbracciarla
dinanzi al maestro, strizzava l'occhio a costui perché li lasciasse soli. Ma
Assunta gli faceva segno di non andarsene, cogli occhi gonfi di lagrime. - Non
l'avrebbe dimenticata, no, finch'era al mondo! Del resto le montagne sole non
s'incontrano. Intanto dava una mano anche lui per aiutarla, correndole dietro
dal cassettone al letto, su cui era il baule, colle braccia piene di roba;
voleva che andassero tutti e tre insieme a desinare al Caffè, l'ultima volta, e
finir la giornata bene.
Il maestro si scusò. - Ah! ah! il
carabiniere! - Però promise di trovarsi alla stazione. - Sì, sì, benone! le
farai un po' di compagnia. Poi mi affido a te per trovarle la scrittura. È un
pulcino bagnato questa poverina, se non c'è chi l'aiuti! - Voleva lasciarle
anche una ventina di lire, caso mai le abbisognassero... Ma essa si ribellò,
per la prima volta. - Scusa! scusa! Dicevo caso mai non firmassi subito la
scrittura... Ma non c'è bisogno d'andare in collera. L'ho fatto a fin di bene
-. Ella si intenerì piuttosto. Per lei aveva fatto anche troppo! per tanto
tempo! Al Caffè poi non le riescì di mandar giù un solo boccone, mentre egli
mangiava per due e cercava di tenerla allegra. Le offerse anche di farle una
sigaretta per scioglierle quel gruppo alla gola - roba d'isterismo.
Alla stazione c'era tutta la
compagnia che partiva con lui. Dei poveri diavoli che litigavano coi facchini,
due o tre prime parti che pigliavano i posti di seconda, colla borsetta ad
armacollo, e le mamme dietro, cariche di fagotti e di scatole di cartone.
Gennaroni disse alla sua amica:
- Tienti un po' in disparte, come
tu fossi col maestro -.
Così lo vide per l'ultima volta,
col biglietto nel nastro del cappello, allegro e chiassone come al solito,
salutando questo e quello. - Addio! Ciao! Buona fortuna! -
S'era preso anche in mano la
gabbia del pappagallo di una compagna di viaggio. Dalla cancellata fuori la
stazione lo videro sbracciarsi a collocare tutto il loro arsenale di scatole e
cappellini mentre il treno fuggiva.
Di lui le rimase un bel ritratto
in fotografia, formato gabinetto, in posa di tre quarti, colla bocca
sorridente, la pelliccia sbottonata, un mazzetto di ciondoli sul ventre - e la
sua brava dedica sotto: «Ricordo imperituro!».
In quanto alla scrittura non se
ne fece nulla. L'impresario anzitutto, voleva belle ragazze e non dei cerotti
come quella lì. - Le pare, caro maestro? - Il poveraccio non si diede vinto
ancora; continuò ad arrabattarsi come un disperato per lei, correndo di qua e
di là, raccomandandola a quanti conosceva. Ma ciascuno pensava ai propri casi
in quel momento. Ora che Gennaroni aveva piantata la ragazza senza voce e senza
quattrini, doveva essere un affar serio levarsi da quella pece, uno che vi si
lasciasse prendere, per buon cuore o per altro.
Gli amici, quando essa capitava
al Caffè per aspettare il maestro che doveva portare la risposta, se la
battevano uno dopo l'altro, primo di tutti il Silvani, colla giacchetta più
stretta che mai. Il garzone stesso, così prudente di solito, veniva ogni
momento a strofinare il marmo del tavolino con un cencio, vedendo che non
ordinava nulla. Fino il maestro, a poco a poco, scoraggiato di portarle sempre
la stessa cattiva nuova, non si era fatto più vedere. Però essa gli aveva
detto: - Non si affanni tanto, poveretto, ché qualcosa ho già trovato -.
E quando egli, facendosi rosso,
era tornato sull'offerta di denaro, essa gli aveva risposto che non occorreva.
A lui glielo avrebbe detto, davvero, di tutto cuore!
Una domenica, verso la fine di
luglio, il maestro incontrò Assunta che usciva dalla bottega di un calzolaio.
Essa avrebbe voluto evitarlo, ma l'altro già le si accostava col cappelluccio
di paglia ritinto in mano. - Come va? Tanto tempo che non ci siamo più visti! -
Assunta balbettava, cercando di nascondere un fagottino che portava, fattasi di
brace in viso.
Il maestro cercava le parole
anche lui: - Almeno un vermuttino. Qui a due passi, al solito Caffè!... - Essa
non voleva, vestita a quel modo!... Infine si lasciò condurre a un tavolinetto
fuori dell'uscio, all'ombra del tendone. Dapprincipio stettero un po' in
silenzio, guardandosi in viso. Ella sembrava più grassa, disfatta, bianca come
cera, con due enormi pèsche sotto gli occhi, e le mani pallide colle vene
gonfie. Il giovanotto aveva la barba lunga, la biancheria sudicia, i calzoni
sfrangiati che cercava di nascondere sotto il tavolino. A poco a poco Assunta
gli narrò che s'era acconciata colla padrona stessa della casa; pensava alle
spese, riguardava la biancheria, teneva d'occhio la pensione, e ci aveva in
compenso vitto e alloggio.
Il tempo che avanzava poi s'era
rimessa al suo mestiere d'orlatrice. - Con lei non mi vergogno, guardi! - Anche
lui fece delle vaghe confidenze: le cose non gli erano andate sempre bene; la
stagione morta si portava via quelle poche lezioni... - Accennò pure di aver
cambiato alloggio... - Del resto i suoi abiti parlavano per lui. Assunta non
volle altro che un caffè di quattro soldi. Egli invece ordinò un giornale, un
giornale qualunque, tanto, seguitavano a discorrere con un senso invincibile di
malinconia, che pure aveva la sua dolcezza. Di tratto in tratto si guardavano
negli occhi, e ripetevano con un sorriso triste: - Guarda che piacere! -
Si udiva parlare a voce alta nel
Caffè; e degli scoppi di risa, delle discussioni tempestose, accompagnate dalla
stessa nota bassa del Marangoni che trinciava da caporione.
Assunta, allungando il collo
dentro l'usciale, lo vide seduto in mezzo a un crocchio di sfaccendati, dinanzi
ad un vassoio di bicchieri vuoti e una bottiglia d'acqua di seltz, con un
vestito nuovo del Bocconi e la barba tagliata a punta come un damerino. Da lì a
un po' se ne uscì fuori, seguìto dagli amici che gli facevano codazzo. Silvani
persino lo tirò in disparte sul marciapiede opposto, supplicandolo sottovoce
con tutta la persona umile. Il basso scrollava le spalle e il capo, colla barba
dura come una spazzola. Infine volse un'occhiata sprezzante verso il maestro,
il quale s'era fatto pallido al vederlo, e non l'aveva salutato, e cavò fuori
il borsellino, scantonando seguìto dal ballerino piegato in due. Passava della
gente in abito da festa; delle famigliuole intere che andavano a sentir la
musica al giardino pubblico. Poscia, di tratto in tratto, succedeva il silenzio
grave delle ore calde della domenica.
Infine Assunta e il maestro
lasciarono il Caffè, e si avviarono ai Boschetti, rasente al muro, nella
striscia d'ombra che orlava il marciapiedi. Assunta aveva detto ch'era libera
fino a sera, e anch'esso non temeva più di farsi vedere insieme a lei. Il largo
viale ombroso era deserto. Di tanto in tanto solo qualche coppia d'innamorati
che passeggiavano sotto i platani, cercando i sedili più remoti. Anch'essi...
Le ore scorrevano e non sapevano risolversi a lasciarsi. - Ah! se ci fossimo
conosciuti prima! - esclamò infine il maestro.
Ella alzò gli occhi su di lui, si
fece rossa, e li chinò di nuovo. Il maestro giocherellava col fagottino che
Assunta teneva sulle ginocchia.
- O piuttosto se avessi fatto il
calzolaio!... No... dico così... Son delle giornate nere... Passeranno! -
Chiamò uno che andava vendendo dell'acqua fresca, in un barilotto attorniato di
bicchieri, e offrì da bere anche a lei. L'uomo andò a mettersi in fondo al
viale, col barilotto posato a terra, come una macchietta nera nel verde.
Sembrava di essere a cento miglia dalla città, nell'ombra e nel silenzio. Poco
per volta il maestro le disse che l'aveva amata, sì, proprio! tante volte quel
segreto gli era spirato sulle labbra! Essa lo sapeva, accennando col capo che
teneva chino in aria di rassegnazione dolorosa, la quale scorgevasi anche
dall'abbandono di tutta la persona, dalla treccia allentata che le si allungava
sul collo. - Allora perché... perché ci siamo taciuti?... - La poveretta lo
guardò in tal modo, attraverso le lagrime che le scendevano chete chete per le
gote, ch'egli abbassò gli occhi.
- Sì, è vero, fu il destino!
Quell'altra non sa neppur il sacrificio che le ho fatto... per debolezza, per
bontà di cuore... e c'è chi dice per un tozzo di pane! Me lo merito. Ora essa
m'ha piantato pel Marangoni che la batte e fa lo strozzino coi suoi denari.
Come ho dovuto sembrarle spregevole, dica!...
- No... no... Era destino!...
Anch'io!...
Però sentivano entrambi una gran
dolcezza nel dirsi tutto ciò, seduti accanto sullo stesso banco. Egli aprì la
bocca due o tre volte per farle una domanda che non osava. Poi strappò un
ramoscello che pendeva, e si mise a sminuzzarlo in silenzio. Assunta più di una
volta s'era mossa per andarsene, senza averne la forza.
La sera era venuta prima che se
ne fossero accorti, una sera tepida e dolce. Assunta stava col capo chino, col
seno gonfio, le mani pallide e venate d'azzurro sulle ginocchia, come
ascoltando le parole che lui non osava pronunziare. Infine egli le prese in
silenzio una di quelle mani, in un modo eloquente. Per tutta risposta ella aprì
le braccia che si teneva sulle ginocchia, con un gesto desolato, e scotendo il
capo: - No, guardi... non posso! -
A quell'atto, per la prima volta,
il maestro la fissò in un certo modo che diceva d'aver capito ogni cosa, e
glielo disse nell'occhiata ingenua e desolata che le posò in grembo.
- Almeno le ha scritto? -
balbettò infine.
Ella rispose di no chinando il
capo rassegnato.
Gennaroni ricomparve al Caffè
verso il principio dell'inverno, masticando delle pastiglie, col fez come un
turco, e le tasche piene di bottigline di marsala, per le quali ebbe a dire
agli amici che volevano fargli festa:
- Adagio! adagio, miei cari!
Questi qui sono campioni! Voialtri non mi darete certo delle commissioni,
eh!... - To'! il maestro! Ben trovato! So, so, briccone! So che me l'hai portata
via, traditore! Dico per scherzo, sai! Non sono in collera con te, tutt'altro!
Non siamo mica dei piccioni per far sempre lo stesso paio! Specie uno come me
che ha da girare il mondo, ora che mi son dato al commercio. Non c'è altro per
guadagnar quattrini, te lo dico io! Tutto il resto... roba da pezzenti! Tanti
saluti ad Assunta. Oppure, no, non le dir nulla. A buon rendere -.
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