Nel palazzo Dolfini tutt'a un
tratto era calata una nube di tristezza. La malattia di donna Vittoria, che
durava da circa una settimana, s'era aggravata nella notte. Il medico, prima
d'andarsene, aveva scritto un'ultima ordinazione sul tavolino dell'anticamera,
volgendo le spalle all'uscio, dinanzi al servitore serio e grave, di già in
cravatta bianca sino dalle dieci di mattina. I parenti e gli amici intimi
arrivavano, uno dopo l'altro, col viso lungo; attraversavano in punta di piedi
tutta l'infilata delle stanze oscure sino al salotto dove era il marito
dell'inferma, in piedi, fra un crocchio di intimi che scambiavano qualche
parola a bassa voce, e li accoglieva con una stretta di mano silenziosa che
rispondeva alle mute interrogazioni. Di tanto in tanto un domestico in fretta;
una cameriera socchiudeva discretamente l'uscio della camera buia del tutto. Là
dentro a intervalli si udiva come un soffio di parole mormorate da voci che
sembravano di un altro mondo; e il fruscìo dei vestiti dava l'immagine di un
battere d'ali.
Era una pleurite che donna
Vittoria aveva presa all'uscire da una festa, in mezzo al suo drappello di
eleganti che si affrettavano a metterle la pelliccia su le spalle, a darle il
braccio, ad aprirle lo sportello del legno tiepido e profumato come un nido.
Ella aveva sentito in quel momento un brivido scenderle per le belle spalle
nude, ancora ansanti per il valzer, sotto la lontra del mantello. Poi s'era
messa a letto e non s'era più levata. Il suo medico, il medico della società,
era venuto da principio a far quattro chiacchiere, sprofondato nella gran
poltrona ai piedi del letto, buttando giù svogliatamente, prima d'andarsene,
senza togliersi i guanti, due o tre righi della sua bella scrittura di signora
su di un foglietto medioevo con la corona a cinque foglie. Però dopo due o tre
giorni s'era fatto serio, e il marito l'accompagnava nel salotto, fermandosi a
parlare tutti e due un momento nel vano della finestra. Alla porta era una vera
processione di carrozze, di amici, di servitori in livrea, che lasciavano una
parola, un nome, una carta di visita, delle quali il portinaio ogni sera recava
un vassoio tutto pieno in anticamera, colla lista fitta di condoglianze e
d'augùri, insieme col bollettino del giorno accomodato in guisa da poter
passare sotto gli occhi dell'inferma, la quale voleva leggere tutti i giorni i
nomi di coloro che erano venuti a domandare della sua salute; e alle volte gli
occhi ardenti di febbre si fermavano su di una firma, e si velavano di lagrime.
Ogni sera miss Florence lasciava
il romanzo che stava leggendo, e scendeva con la bimba nella camera di donna
Vittoria, la quale le accoglieva con un sorriso pallido. La figliuola, una
ragazzina bianca e delicata, con lunghe trecce color d'oro pendenti giù per le
spalle, e le attaccature fini di già, quasi fosse una donnina, andava a baciare
la mamma in punta di piedi, col passo discreto di ragazzina bene educata. Poi
le augurava la buona notte in inglese o in tedesco, secondo la giornata, e se
ne andava dietro all'istitutrice, diritta ed impettita. Infine, la vigilia,
donna Vittoria aveva trattenuto la ragazzina per mano, e le aveva parlato,
nella sua lingua nativa, due o tre parole che accusavano la febbre, col sorriso
triste nel viso color di cera. La bimba ascoltava seria e zitta, coi
grand'occhi azzurri spalancati. Più tardi il medico era venuto due volte e
aveva chiesto un consulto. Nel salotto, il vai e vieni degli intimi era stato
più affaccendato ed ansioso. Nella sala accanto, dietro la tenda dell'uscio, si
udivano i medici a consulto, la conversazione era di tratto in tratto
interrotta da qualche parola misteriosa seguìta da brevi silenzi. Nel cortile,
il frastuono degli staffieri e delle carrozze contrastava col silenzio solenne
degli altri giorni, come qualcosa fosse mutato in quella casa. Sino a notte
avanzata lo stesso coupé che aveva ricondotto la signora dal ballo aspettò
attaccato nel cortile, co' suoi due fanali accesi che si riverberavano
sull'acqua della fontana. Il giorno dopo arrivò la visita insolita di una
lontana parente, mezza beghina, che il legno era andata a prendere; e dinanzi
al suo vestito quasi umile, gli usci dorati si spalancarono premurosi. Ella
andò ad assidersi al capezzale dell'inferma, con un'aria d'intimità quasi
materna, chiedendole della salute, chiacchierando di mille cose con la voce
pacata della donna che vive nella pace della chiesa. Parlò di se stessa, de'
suoi piccoli guai di tutti i giorni, del solo conforto che si trova nella
religione. Giusto cominciava allora la Quaresima, l'epoca della penitenza dopo
i peccati del Carnevale. Alle volte le malattie sono avvertimenti che il
Signore ci dà perché ci si rammenti di lui. Per questo i buoni cristiani
antichi usavano far venire il Viatico appena fossero malati da più di otto
giorni; non è giusto aspettare all'ultimo momento per riconciliarsi con Dio. Si
era visto tante volte, con tanti malati gravi, che già il miglior rimedio è una
buona confessione.
- Quando? - chiese soltanto donna
Vittoria, bianca come il merletto del suo guanciale.
- Ma... più presto è, meglio è!
Dio non si fa aspettare.
- Va bene! - mormorò l'inferma.
E non aggiunse altro; e seguitava
a fissare il volto scialbo della vecchietta con gli occhi immobili, ardenti.
Appena questa se ne fu andata,
fece chiamare suo marito.
Aveva un altro viso; un viso in
cui ad un tratto fossero passati vent'anni di malattia e fosse discesa una
calma di morte. La voce le si era fatta profonda e rauca, come qualcosa
cominciasse a mancare in lei.
- Vorrei vedere i miei amici...
tutti i miei amici... - mormorò.
E la sfilata incominciò: tutti
quelli che erano passati a chieder notizie di lei; tutti quelli che poterono
essere informati del desiderio dell'inferma; così, come si incontravano, amici
e conoscenti, in visita, dal confettiere, fra una pasta e un bicchierino di
madera, al Corso, con una parola buttata là fra tante altre di chi veniva a
dare il buon giorno allo sportello della carrozza. Nella sala tornarono a
sfilare dei lunghi strascichi di seta, dei passi che facevano scricchiolare gli
stivalini verniciati, delle ondate di profumi leggeri e delicati nell'atmosfera
grave, delle osservazioni brevi scambiate a bassa voce nell'uscire con un segno
del capo, stringendo il manicotto sul petto, e con la mazzettina in mano.
Calava la sera, una sera tiepida e dorata di primavera. Per la via si udiva il
rumore non interrotto delle file delle carrozze che tornavano dal passeggio. Solo
la camera dell'inferma, che dava sul giardino, rimaneva in gran pace. Un
domestico portò una lampada accesa.
Giungeva ancora qualcheduno in
ritardo, col viso interrogativo, che il marito introduceva, uno per volta, con
un cenno del capo e qualche parola lenta. Poi lui si lasciava cadere nella gran
poltrona del medico ai piedi del letto, come vinto dalla stanchezza; e stava a
guardare l'inferma, di già coi segni della morte sul viso all'ombra della
ventola ricamata. Ella salutava gli amici con una occhiata, con un sorriso
triste, con qualche parola breve e dolce che sembrava una carezza, e ad ogni
nuovo arrivo le si rischiarava il viso, quasi girassero il paralume dall'altra
parte. Indi tornava ad oscurarsi, come si riaffacciasse a lei il sentimento del
suo stato. Ad ogni momento voleva sapere che ora fosse.
- E il signor Ginoli non si fa
vedere? - chiese infine.
Il marito non rispose; si
guardarono un istante. Ella non distolse gli occhi, col viso immobile e
pallido. E con quegli occhi in un istante si dissero tutto. Il marito, quando
passò nelle altre stanze e la lasciò sola un momento, aveva le spalle curve
come gli pesassero addosso cent'anni.
Allora l'inferma, fra una visita
e l'altra, chiamò la cameriera, e le disse due o tre parole che la ragazza sola
poté udire, tanto le era mancata la voce. La cameriera ascoltava, impassibile,
ai piedi del letto, stecchita nel suo grembiulino di seta nera che le serrava
il petto magro. Poi, al momento di andare, si chinò all'improvviso, e baciò la
mano della padrona scoppiando in lacrime.
- Va! - disse donna Vittoria,
accarezzandole i capelli. - Va. Non piangere -.
Si udì il rumore di un legno che
usciva dal portone. Poscia, ad intervalli, una specie di silenzio d'attesa. In
quel silenzio le poche parole che si scambiavano due o tre persone lì presenti,
facevano quasi trasalire. L'inferma allora fissava l'uscio con gli occhi
lucenti, gli occhi che soli sembravano vivi in quell'ombra. Ad un tratto si udì
il legno che tornava, poi un passo leggero sul tappeto, ed entrò un giovanotto
sulla trentina, biondissimo, bianco tanto che sembrava pallido, con un
soprabito scuro abbottonato fin sotto il mento, e la lente pendente sul petto a
un filo che non si vedeva, come un bottone d'acciaio piantato lì.
Nell'anticamera egli aveva domandato al domestico:
- Come sta?...
- Male, male assai - rispose questi.
Il giovanotto entrò col passo
incerto e l'occhio smarrito. Nelle altre stanze non incontrò nessuno.
- Oh, Ginoli! - disse l'inferma,
con un sorriso.
Egli non rispose, aspirando fortemente,
quasi gli fosse mancato il fiato nel salire la scala in fretta. Infine
balbettò:
- Va meglio, non è vero? giacché
mi hanno lasciato passare... - Ella accennò di sì col capo, due o tre volte,
poscia balbettò:
- Stasera mi sento un po' male...
ma ho visto tanta gente... e sono stanca. Però fa piacere rivedere gli amici...
-
La contessa Bruni, che era
rimasta sino a quel momento, si alzò per accomiatarsi.
- Addio, - disse donna Vittoria,
come essa si fermava a stringerle la mano a lungo.
Rimasero una signora attempata,
amica di casa, che si era offerta di vegliare la notte, e due altri, marito e
moglie, zii per parte di madre di donna Vittoria. La zia parlava di cure
portentose, di guarigioni insperate. Gli altri tacevano, senza ascoltare.
- Verrete domani? - disse lei,
voltando il capo verso Ginoli.
Egli balbettò di sì.
Ella stette a guardarlo, quasi
colpita da quelle parole istesse. E ad un tratto due lagrime le scesero
lentamente sulle guance.
- Quando sarà giorno? - riprese.
E voltò la testa dall'altra parte, senza aspettare la risposta.
Di tanto in tanto la cameriera
attraversava la camera, senza far rumore, o si udiva il passo leggero di un
servitore nella sala accanto. Allora levavano il capo tutti insieme, senza
sapere perché.
Soltanto l'inferma mormorava a
lunghi intervalli:
- Mi sento male, mi sento male
assai -.
Una volta Ginoli, come fuori di
sé, si alzò per congedarsi. Ma ella se ne avvide, e gli disse, con gli occhi
sempre rivolti al cielo del letto:
- Ve ne andate di già... -
Si udì un campanello per la
strada, e uno scalpiccìo che si avvicinava. Poi fu aperto bruscamente l'uscio
della camera, quasi dicessero a Ginoli:
- Ora andatevene -.
L'inferma volse il capo
ottenebrato dall'agonia, e gli stese la mano agitando le labbra come per
mormorare parole inintelligibili. Egli la strinse: era fredda. E se ne andò
barcollando come un ubbriaco. Nel salotto s'imbatté nel marito, e si guardarono
un istante, immobili. In quel momento si udì in anticamera il campanello del
viatico; il marito chinò il capo, pallidissimo. L'altro si dileguò rapidamente.
Attraverso la lunga fila di
stanze deserte e silenziose, passava solo il suono di quel campanello
squillante.
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