Casa Orlandi era tutta sossopra.
La contessina Bice spegnevasi lentamente: di malattia di languore, dicevano gli
uni: di mal sottile, dicevano gli altri.
Nella gran camera da letto, quasi
buia in tutto il quartiere illuminato come per una festa, la madre,
pallidissima, seduta accanto al letto dell'inferma, aspettava la visita del
dottore, tenendo nella mano febbrile la mano scarna e ardente della figliuola,
parlandole con quell'accento carezzevole, e quel falso sorriso con cui si cerca
di rispondere allo sguardo inquieto e scrutatore dei malati gravi. Tristi
colloqui che celavano sotto una calma apparente la preoccupazione di un morbo
fatale, ereditario nella famiglia, il quale aveva minacciato la contessa
medesima dopo la nascita di Bice - il ricordo delle cure inquiete e trepide che
avevano accompagnato l'infanzia delicata della bambina - l'ansia dei
presentimenti minacciosi che avevano quasi soffocato la maternità della
genitrice e scusato i primi traviamenti del marito, morto giovane, di un male
da decrepito, dopo avere agonizzato degli anni su di una poltrona. Più tardi un
altro sentimento aveva fatto rifiorire la giovinezza della vedova, appassita
anzi tempo fra quella culla minacciata, e quello sposo di già cadavere prima di
scendere nella tomba: un affetto profondo e occulto, inquieto, geloso, che si
mischiava a tutte le sue gioie mondane e sembrava vivere di esse, e le
raffinava, le rendeva più sottili, più penetranti, quasi una delicata voluttà
che profumava ogni cosa, una festa, un trionfo di donna elegante. Adesso
quell'altra nube paurosa, sorta a un tratto colla malattia della figlia in quel
cielo azzurro, sembrava posare simile a una gramaglia sui cortinaggi pesanti
del letto dell'inferma, e distendersi sino a incontrare degli altri giorni
neri: la lunga agonia del marito, la faccia grave e preoccupata di quello
stesso medico ch'era venuto quell'altra volta, il tic-tac di quella stessa
pendola che aveva segnato delle ore d'agonia, e riempiva ora tutta la camera,
tutta la casa, di un'aspettativa lugubre. Le parole della madre e della
figliuola, che volevano sembrar gaie e tranquille, morivano come un sospiro
nella penombra della vòlta altissima.
A un tratto il campanello
elettrico squillò nella lunga fila di stanze sfavillanti e deserte. Un
servitore silenzioso precedeva in punta di piedi il medico, vecchio amico di
casa, il quale sembrava solo calmo, nell'attesa inquieta di tutti. La contessa
si rizzò in piedi, senza poter dissimulare un tremito nervoso.
- Buona sera. Un po' tardi
oggi... Finisco adesso il mio giro. E questa ragazza com'è stata? -
S'era seduto di contro al letto;
aveva fatto togliere la ventola dal lume, ed esaminava l'inferma tenendo fra le
dita bianche e grassocce il polso delicato e pallido della fanciulla, ripetendo
le solite domande. La contessa rispondeva con un lieve tremito nervoso nella
voce; Bice, con monosillabi tronchi e fiochi, sempre fissando il medico con
quegli occhi inquieti e lucenti. Nell'anticamera si succedevano gli squilli
sommessi del campanello che annunziavano altre visite, e la cameriera entrava
come un'ombra per annunziare all'orecchio della signora il nome degli amici
intimi che venivano a chieder notizie della contessina.
A un certo momento il dottore
rizzò il capo.
- Chi è entrato adesso nella sala
accanto? - domandò con una certa vivacità.
- Il marchese Danei, - rispose la
contessa.
- La solita pozione per questa
notte, - continuò il medico quasi avesse dimenticato la sua domanda. - Bisogna
osservare a che ora cadrà la febbre. Del resto, nulla di nuovo. Diamo tempo
alla cura... -
Ma non lasciava il polso
dell'inferma, fissando uno sguardo penetrante sulla fanciulla, la quale aveva
chinato gli occhi. La madre aspettava ansiosa.
Un istante le pupille ardenti
della figlia si fissarono in quelle di lei, e Bice avvampò subitamente in viso.
- Per carità, dottore! per
carità! - supplicava la contessa, riaccompagnando il medico, senza badare agli
amici e ai parenti che aspettavano in sala chiacchierando fra di loro
sottovoce. - Come ha trovato stasera la mia ragazza? Mi dica la verità!
- Nulla di nuovo, - rispondeva
lui. - La solita febbriciattola... il solito squilibrio nervoso... -
Ma quando furono in un salottino
appartato, si piantò ritto dinanzi alla contessa, e disse bruscamente:
- La sua figliuola è innamorata
di questo signor Danei -.
La contessa non rispose sillaba.
Solo impallidì orribilmente, e per istinto si portò le mani al petto.
- È un po' di tempo che lo
sospettavo, - riprese il medico con certa rude franchezza. - Ora ne son certo.
È una complicazione nella malattia, che per la estrema sensibilità
dell'inferma, in questo momento, può farsi grave. Bisogna pensarci.
- Lui! - fu la prima parola che
sfuggì alla madre, quasi fuori di sé.
- Sì, il polso me l'ha detto. Lei
non aveva alcun indizio? Non ha mai sospettato qualche cosa?
- Mai!... Bice è così timida...
così...
- Il marchese Danei viene spesso
in casa? -
La poveretta, sotto lo sguardo
fisso e penetrante di quell'uomo che assumeva l'importanza di un giudice,
balbettò:
- Sì.
- Noi altri medici alle volte
abbiamo cura d'anime, - aggiunse il dottore sorridendo. - Forse è stata una
fortuna che quel signore sia venuto mentre io ero qui.
- Ma ogni speranza non è perduta,
dottore? Per l'amor di Dio!...
- No... secondo i casi. Buona
sera -.
La contessa rimase un momento in
quella stanza, quasi al buio, asciugandosi col fazzoletto il freddo sudore che
le bagnava le tempie. Quindi ripassò per la sala, rapidamente, salutando gli
amici con un cenno del capo, guardando appena Danei, ch'era in un canto, nel
crocchio degli intimi.
- Bice!... figlia mia!... Il
medico t'ha trovata meglio oggi, sai!
- Sì, mamma! - rispose la
fanciulla dolcemente, con quell'amara indifferenza degli ammalati gravi che
stringe il cuore.
- Di là ci sono degli amici...
che sono venuti per te... Vuoi vederli?
- Chi sono?
- Ma tutti. La zia, Augusta... il
signor Danei... Possono entrare un momentino? -
Bice chiuse gli occhi, come assai
stanca, e nell'ombra, così pallida com'era, si vide lieve rossore montarle alle
guance.
- No, mamma. Non voglio veder
nessuno -.
Attraverso le palpebre chiuse,
delicate come foglie di rosa, sentiva fisso su di lei lo sguardo desolato e
penetrante della madre. All'improvviso riaprì gli occhi, e le buttò al collo quelle
povere braccia esili e tremanti sotto la battista, con un atto ineffabile di
confusione, di tenerezza e di sconforto.
Madre e figlia si tennero
abbracciate a lungo, senza dire una parola, piangendo entrambe delle lagrime
che avrebbero voluto nascondersi.
Ai parenti e agli amici che
chiedevano premurosi notizie dell'inferma, la contessa rispondeva come al
solito, ritta in mezzo alla sala, senza poter dissimulare uno spasimo interno
che di quando in quando le mozzava il respiro. Allorché tutti se ne furono
andati, rimasero faccia a faccia Danei e lei.
Tante volte, durante la malattia
di Bice, erano rimasti soli alcuni minuti, come allora, nel vano della
finestra, scambiando qualche parola di conforto e di speranza, o assorti in un
silenzio che accomunava i loro pensieri e le loro anime nella stessa
preoccupazione dolorosa. Momenti tristi e cari, nei quali essa attingeva il
coraggio e la forza di rientrare nell'atmosfera cupa e lugubre di quella stanza
d'inferma con un sorriso d'incoraggiamento. Stettero alquanto senza aprir
bocca, colla fronte sulla mano. La contessa aveva tale espressione di tristezza
in tutta la persona, che Danei non trovava la parola da dirle. Finalmente le
tese la mano. Ella ritirò la sua.
- Sentite, Roberto... Ho da dirvi
una cosa... una cosa da cui dipende la vita di mia figlia... -
Egli aspettava, serio, un po'
inquieto.
- Bice vi ama!... -
Danei parve sbalordito, guardando
la contessa che si era nascosto il viso fra le mani, e piangeva dirottamente.
- Essa!... È impossibile!... Pensateci
bene!...
- No... È un'idea che m'ha fatto
nascere il suo medico... Ed ora ne son certa. Vi ama da morirne...
- Vi giuro!... Vi giuro che...
- Lo so, vi credo. Non ho bisogno
di cercare perché mia figlia vi ami, Roberto! - esclamò la madre tristamente.
E si abbandonò sul divano.
Roberto era commosso anche lui.
Tentò di pigliarle la mano un'altra volta. Ella la respinse dolcemente.
- Anna!...
- No... no! - rispose lei
risolutamente.
E le lagrime silenziose parevano
che le solcassero le guance delicate come degli anni, degli anni di dolore e di
gastigo che sopravvenivano tutt'a un tratto nella sua esistenza spensierata. Il
silenzio sembrava insormontabile. Infine Roberto mormorò:
- Cosa volete che faccia?...
dite... -
Essa lo guardò smarrita, con un'angoscia
indicibile, e balbettò:
- Non so!... non so... Lasciatemi
tornar da lei... Lasciatemi sola... -
Come rientrava nella camera
dell'inferma, dall'ombra del cortinaggio gli occhi della figlia luccicarono
ardenti, fissi su di lei, con un lampo incosciente che agghiacciò la madre
sulla soglia.
- Mamma, - chiese Bice, - chi c'è
ancora?
- Nessuno, figlia mia.
- Ah!... Statti con me, allora.
Non mi lasciare -.
E le teneva le mani, tremante.
- Povera bambina! Povero amore!
Guarirai presto, sai! L'ha detto il medico.
- Sì, mamma.
- E... e... sarai felice -.
La figlia le fissava sempre in
viso quello sguardo.
- Sì, mamma -.
Poi chiuse gli occhi, che
sembravano neri nelle orbite incavate. Successe un mortale silenzio. La madre
scrutava quel viso pallido e impenetrabile con uno sguardo ardente, arrossendo
e impallidendo a vicenda.
A un tratto si fece smorta come
lei, e la chiamò con un'altra voce:
- Bice! -
Il suo petto si contraeva
spasmodicamente, come se qualche cosa vi agonizzasse dentro. Poscia si chinò
sulla figliuola, posando la guancia febbrile su quell'altra guancia scarna, e
le mormorò nell'orecchio, con un soffio appena intelligibile:
- Senti, Bice... tu ami?... -
Bice spalancò gli occhi
all'improvviso, tutta una fiamma in volto. E con quegli occhi sbarrati e quasi
paurosi, affascinati dagli occhi lagrimosi della madre, balbettò con un accento
ineffabile d'amarezza, e quasi di rimprovero:
- Oh mamma!... -
Allora la sventurata, sentendosi
penetrare quella voce e quelle parole sino all'intimo del cuore, ebbe il
coraggio di aggiungere:
- Danei ha chiesto la tua mano.
- Oh mamma! oh mamma! - ripeteva
la fanciulla con lo stesso accento supplichevole e dolente, stringendosi nelle
coperte con un senso di pudore. - Mamma mia!... -
La contessa, che sembrava anche
lei nello smarrimento dell'agonia, balbettò:
- Però... se tu non l'ami... se
non l'ami... di'!... -
L'inferma ascoltava palpitante,
ansiosa, agitando le labbra senza proferir parola, con gli occhi spalancati,
enormi sul volto rifinito, che interrogavano gli occhi della madre. Tutt'a un
tratto, come quella si chinava verso di lei, l'abbracciò stretta, tremando a
verga, stringendola con tutta la forza delle sue povere braccia, con
un'effusione che diceva tutto.
La madre, in un impeto d'amore
disperato, singhiozzava:
- Guarirai! Guarirai! -
E tremava convulsivamente ancor
essa.
Il giorno dopo la contessa
aspettava Danei nel suo gabinettino, seduta accanto al caminetto, stendendo
verso il fuoco le mani così bianche che sembravano esangui, cogli occhi fissi
sulla fiamma. Quanti pensieri, quante visioni, quanti ricordi passavano dinanzi
a quelli occhi! La prima volta che si era turbata al cospetto di Roberto - il
silenzio ch'era caduto all'improvviso fra di loro - e le prime parole d'affetto
che egli le aveva sussurrato all'orecchio, abbassando la voce ed il capo - il
batticuore delizioso che soleva imporporarle le gote ed il seno, quando egli
l'aspettava nel vestibolo dell'Apollo, per vederla passare, bella, fine,
elegante, nella mantellina di raso bianco. - Poscia, le lunghe fantasticherie
color di rosa, in quel posto medesimo, le gioie trepide e intense, le attese
febbrili, nelle ore in cui Bice prendeva la lezione di musica o di disegno.
Ora, allo squillare del campanello, si rizzò con un tremito nervoso; e
immediatamente, mercé uno sforzo della volontà, tornò a sedere, colle mani in
croce sulle ginocchia.
Il marchese si fermò esitante
sull'uscio. Ella gli stese la mano che ardeva, evitando di guardarlo. Siccome
Danei, non sapendo che pensare, chiedeva della Bice, la contessa rispose dopo
un breve silenzio:
- La sua vita è nelle vostre
mani.
- Per l'amor di Dio, Anna!...
v'ingannate!... - rispose lui. - Bice s'inganna... Non può essere... non può
essere!... -
La contessa scosse il capo
tristamente.
- No, non m'inganno! Me l'ha
confessato lei... Il dottore dice che la sua guarigione dipende... da ciò!...
- Da che cosa?...
Per tutta risposta ella gli fissò
negli occhi gli occhi arsi di febbre. Allora, sotto quello sguardo, la prima
parola di lui, impetuosa, quasi brusca, fu:
- Oh!... no!... -
Ella giunse le mani.
- No. Anna! pensateci bene... Non
può essere... V'ingannate... - ripeteva Danei, agitato anche lui violentemente.
Le lagrime le soffocarono la voce
in gola. Poi stese le mani a Roberto, senza dir nulla come nei bei tempi
trascorsi. Soltanto, quel viso che gli esprimeva uno spasimo d'angoscia e una
preghiera straziante, era diventato tutt'altro in ventiquattr'ore.
Roberto chinò il capo al pari di
lei.
Erano entrambi due cuori onesti e
leali, nel significato mondano della parola, nel senso di esser sinceri in ogni
loro atto. Perché la fatalità facesse abbassare quelle teste alte e fiere,
bisognava che le avesse messe per la prima volta di fronte a un risultato che
rovesciava bruscamente tutta la loro logica, e ne mostrava la falsità. La
rivelazione della contessa aveva colpito Danei di stupore. Adesso,
ripensandoci, ne era spaventato; e in quel contrasto d'affetti e di doveri
combattentisi sotto il riserbo imposto ad entrambi dalla rispettiva posizione
che li rendeva più difficili, egli trovavasi imbarazzato. Parlò di loro due,
del passato, dell'avvenire che gli faceva paura; cercando le frasi e le parole
onde scivolare sui tanti argomenti scabrosi, per non urtare o ferire alcuno di
quei sentimenti così delicati e complessi.
- Pensateci bene, Anna! Questo
matrimonio è impossibile! -
Essa non sapeva che dire.
Balbettava solo: - Mia figlia! mia figlia! -
- Ebbene... Volete che io
parta... che mi allontani per sempre!... Sapete qual sacrifizio farei!... Ebbene,
lo volete?
- Ella ne morrebbe -.
Roberto esitò, prima d'affrontare
l'ultimo argomento. Poi mormorò abbassando la voce:
- Allora... allora non resta che
confessarle ogni cosa... -
La madre s'irrigidì in una
contrazione nervosa, con le dita increspate sul bracciuolo della poltrona. E
rispose con voce sorda, chinando il capo:
- Lo sa!... Lo sospetta!...
- E nondimeno?... - riprese Danei
dopo un breve silenzio.
- Ne sarebbe morta... Le ho fatto
credere che s'ingannava.
- E lo ha creduto?
- Oh! - esclamò la contessa con
un triste sorriso. - L'amore è credulo... Lo ha creduto!
- E voi! - chiese Roberto con un
tremito che non poté dissimulare nella voce.
- Io ho già tutto sacrificato a
mia figlia -.
Poi gli stese la mano, e
soggiunse:
- Sentite com'è calma?
- Siete certa che sarà sempre
così calma?
Ella rispose:
- Sempre! -
E sentì freddo nella nuca, alla
radice del capelli.
Si alzò vacillante, e si strinse
il capo di lui sul petto.
- Ascoltate, Roberto, ora è la
madre che vi abbraccia! Anna è morta. Pensate a mia figlia; amatela per me e
per essa. Ella è pura e bella come un angelo. La felicità la farà rifiorire.
Voi l'amerete come non avete mai amato... Dimenticherete ogni cosa... siate
tranquillo! -
Roberto, pallidissimo, non
rispose verbo.
Il matrimonio della contessina
Bice fu annunciato officialmente pochi giorni dopo che essa entrò in
convalescenza. Amici e parenti venivano a congratularsi nello stesso tempo dei
due fortunati avvenimenti. Il marchese Danei era uno sposo convenientissimo, e
se qualche indiscreto arrischiò delle osservazioni sulla disparità degli anni -
o altro - fu messo subito a tacere dal coro unanime delle signore che si
sollevavano scandolezzate. La fanciulla risanava davvero, raggiante di vita
nuova, colla sincerità, la credulità, l'oblio, l'egoismo della felicità, che
espandeva nel seno della madre, la quale trovava la forza di sorriderle. Il
medico si fregava le mani, borbottando:
- Io non ci ho alcun merito. Fo
come Pilato. Questa benedetta gioventù se ne ride della scienza. Adesso ecco le
mie prescrizioni: - Recipe: L'inverno a San Remo o a Napoli. L'estate a Pegli o
a Livorno. Una scappata a Roma, nel carnevale, e un bel maschiotto alla fine
della cura -.
La contessa, alla figliuola che
avrebbe voluto condurla seco, aveva risposto:
- No. Io e il dottore non ci
abbiamo più nulla a fare in questo viaggio. Tutta la mia pretesa è che siate
felici -.
E sorrideva agli sposi, col suo
sorriso un po' triste. La figliuola, a volte, aveva inconsciamente degli
sguardi acuti che correvano come un lampo dal fidanzato alla madre. A quelle
parole, senza saper perché, l'abbracciava ogni volta strettamente,
nascondendole il viso in seno.
La contessa aveva detto che
quella sarebbe stata l'ultima sua festa; e le sue spalle bianche e delicate
mostraronsi realmente un'ultima volta allo sposalizio, nelle sale scintillanti
di lumi e affollate d'amici e parenti come nei giorni più tristi in cui erano
venuti a chieder notizie della Bice. Roberto, allorché baciò la mano della
contessa, non poté dissimulare un certo turbamento. Poscia quando l'ultima
carrozza fu partita, e non rimase a piè dello scalone che il piccolo coupé
del marchese, e la carretta inglese che portava alla stazione il bagaglio degli
sposi, mentre Bice era andata a cambiarsi d'abito, rimasti soli un momento, la
contessa e Roberto:
- Fatela felice! - disse lei.
Danei era nervoso; abbottonava
macchinalmente il soprabito da viaggio e tornava a cavarsi i guanti. Non disse
nulla.
Madre e figlia s'abbracciarono
teneramente, a lungo. Infine la contessa respinse quasi bruscamente la
figliuola, dicendo:
- È tardi. Perderete il treno.
Andate, andate! -
La contessa Orlandi aveva tossito
un poco quell'inverno, e di tanto in tanto aveva avuto bisogno del medico.
Costui, onde non spaventarla, la sgridava, perché essa soleva passare la
mattinata in chiesa - a salvarsi l'anima e perdere il corpo - diceva lui. Il
buon uomo pigliava la cosa leggermente, per rassicurarla, ma in realtà era
inquieto, e ingannandosi a vicenda con una finta gaiezza, pensavano entrambi a
una minaccia più grave. Bice scriveva che stava bene, che si divertiva tanto,
che era tanto felice, e più tardi accennò anche vagamente a un altro
avvenimento che avrebbe affrettato il loro ritorno prima che finisse l'anno.
La contessa telegrafò di non
farne nulla, di aspettare l'avvenimento là dove si trovavano, protestando che
temeva per la figliuola lo strapazzo del viaggio. Piuttosto sarebbe andata lei
stessa a raggiungerli. Però non andava mai, cercando mille pretesti, differendo
di giorno in giorno quel viaggio, quasi le pesasse. I telegrammi si
succedevano. Infine Roberto ebbe un dispaccio: - Arrivo stasera -.
La prima persona che Anna vide
sul marciapiedi della stazione, giungendo, fu Roberto che l'aspettava, solo.
Ella si premeva con forza il manicotto sul cuore, quasi le mancasse il respiro.
Il marchese le baciò la mano, sul guanto, e le diede il braccio, mentr'essa
balbettava:
- Bice?... Come sta? -
Fuori era fermo il piccolo coupé
del marchese, col servitore accanto allo sportello. Ella esitò un istante, al
momento di montare insieme a lui. Poi si strinse nel suo cantuccio, chiusa
nella pelliccia, col velo sul viso.
- Bice sta bene, - rispondeva
lui, -...per quanto è possibile... Sarà tanto contenta! - Sembrava che cercasse
le parole, col viso rivolto allo sportello, impaziente d'arrivare. Sfilavano le
case e le botteghe illuminate. A un tratto successe l'oscurità,
nell'attraversare una piazza. Tutti e due istintivamente, si scostarono e
tacquero.
Bice era corsa ad incontrare la
madre, e le si buttò al collo con un diluvio di carezze e di parole sconnesse.
Era sofferente, e Roberto le diede il braccio per salire le scale. La contessa
veniva dopo, un po' stanca anch'essa, soffocata dalla pelliccia greve.
Allorché furono nel salotto, in
piena luce, ella fu colpita dall'aspetto di Bice, dalla sua veste da camera
larghissima, dalle mani venate d'azzurro, posate sui bracciuoli della poltrona
dove s'era lasciata cadere come sfinita, ma raggiante di una serena felicità.
Roberto si chinava per parlarle nell'orecchio. Senza avvedersene si appartavano
entrambi spesso e volentieri, discorrendo sottovoce fra di loro, presso la
fiamma del caminetto che li colorava di un'aureola rosata, lontani dal mondo,
lontani da tutti, dimenticando ogni cosa...
Dopo il primo sbigottimento di
quella sera, la contessa sembrava più calma. Allorché trovavasi sola con
Roberto, e lui parlava, parlava, quasi avesse paura del silenzio, ella
ascoltava col sorriso distratto, sprofondata nella poltrona, accanto al fuoco
che lumeggiava d'azzurro i capelli neri, col fine profilo opaco inquadrato
nella luce al pari di un cammeo.
Però un nube sembrava sorgere fra
madre e figlia, nell'intimità della famiglia: una freddezza incresciosa e
insormontabile che agghiacciava le affettuose espansioni: un imbarazzo che
rendeva moleste le premure di Roberto per l'una o per l'altra, e spesso anche
la presenza fra di loro - come un'ombra del passato che offuscava gli occhi
della figlia, che faceva impallidire la madre, che turbava anche Roberto, di tanto
in tanto. Una sfumatura d'amarezza accennavasi a volte nelle parole più
semplici, nei sorrisi che si evitavano, negli sguardi che si cercavano
sospettosi.
Una sera che Bice s'era ritirata
prima del solito, e Roberto era rimasto nel salotto insieme alla contessa, per
farle compagnia, il silenzio piombò all'improvviso, quasi minaccioso. Anna
stava a capo chino, dinanzi al fuoco che spegnevasi, presa da un brivido,
tratto tratto, e il lume posato sul caminetto le accendeva dei riflessi dorati
alla radice dei capelli, sulla nuca che sembrava accendersi anch'essa di fiamme
vaghe. Come Roberto si chinò a prender le molle, essa trasalì vivamente, e si
alzò di scatto per augurargli la buona notte, accusando un po' di stanchezza.
Il marchese l'accompagnò sino all'uscio, in preda anche lui a un vago
turbamento. In quella apparve Bice, come un fantasma, vestita del suo
accappatoio bianco.
Madre e figlia si guardarono, e
la prima rimase senza parola, quasi senza fiato. Roberto, il meno imbarazzato
di tutti e tre, chiese:
- Che hai, Bice?
- Nulla... Non potevo dormire...
Che ora è?
- Non è tardi. Tua madre stava
per ritirarsi... dice di sentirsi stanca...
- Ah, - rispose Bice. - Ah... - E
non disse altro.
Anna, ancora tremante, balbettò
con un triste sorriso:
- Sì... sono stanca.. Alla mia
età... figliuoli miei!...
- Ah, - ripeté Bice.
Allora la madre, facendosi
pallida come una morta, come soffocata da un'angoscia ineffabile, aggiunse con
quello stesso sorriso doloroso:
- Non mi credete?... Non mi
credi, Bice?... -
E rialzando alquanto i capelli
sulle tempie, mostrò che quelli di sotto erano tutti bianchi.
- Oh... È un pezzo... tanto
tempo!... -
Bice, con uno slancio affettuoso,
le buttò le braccia al collo, e le cacciò la testa in seno, senza dir altro. E
le mani della madre sentirono che tremava tutta quanta, ancor essa. Roberto, il
quale sembrava sulle spine, s'era levato per andarsene, quasi vedesse di esser
di troppo fra quelle due donne, e nell'istante in cui i suoi occhi
s'incontrarono in quelli di Anna, arrossò, e parve divampare in quell'istante
un ricordo del passato.
La contessa Anna passò due
settimane in casa della figlia, dove si sentiva estranea, accanto a Bice,
accanto a lui! Come erano mutati! Quando egli le dava il braccio per andare a
tavola, quando la figliuola le diceva - Mamma! - senza guardarla, e arrossiva
se parlava di suo marito! - Dimenticherete, siate tranquillo! - ella aveva
detto a Roberto. E non avevano dimenticato del tutto, né l'uno né l'altra!...
Chiudeva gli occhi e rabbrividiva
a quel pensiero... Qualche volta, all'improvviso, la sorprendevano anche degli
impeti di collera, di un'altra gelosia pazza. Le aveva rubato perfino il cuore
di sua figlia, colui! Tutto le aveva tolto quell'uomo!
Una sera si udì un gran trambusto
per la casa. Cocchieri e servitori erano stati spediti in fretta; il medico e
un'altra donna erano giunti premurosi, ed erano entrati subito nella camera di
Bice. E nessuno era venuto a cercare di lei, sua figlia stessa non la voleva al
suo capezzale, in quel momento. - No, nessuno aveva dimenticato! - Quand'egli
venne ad annunziarle la nascita della sua nipotina, quell'uomo!... Quando lo
vide così commosso e raggiante... - Non l'aveva mai visto così! - Quando lo
vide al capezzale di Bice, che era supina sul letto, come fosse già morta, con
una lagrima di tenerezza per lui soltanto negli occhi socchiusi... degli occhi
che non cercavano che lui!... Allora sentì un odio implacabile contro
quell'uomo che accarezzava la sua figliuola dinanzi a lei, e a cui Bice
soltanto sorrideva, anche in quel punto.
Come misero il suo nome alla
neonata, ed essa la tenne al battesimo, disse sorridendo: - Ora posso morire -.
Bice andava rimettendosi
lentamente. Però il suo organismo delicato vibrava ancora. Nei lunghi giorni di
convalescenza le venivano dei pensieri neri, degli impeti d'irritazione sorda e
irragionevole, degli scoramenti improvvisi, quasi tutti l'abbandonassero.
Allora guardava muta, cogli occhi neri, e diceva al marito con accento indescrivibile:
- Dove sei stato? - Dove vai? -
Perché mi lasci sola? -
Ogni cosa la feriva; sembrava
ingelosirsi anche di quel resto di eleganza ch'era sopravvissuto nella madre
sua. Era arrivata a dirle, cercando di dissimulare la febbre che le si accendeva
suo malgrado negli occhi: - Quando partirai? -
La madre chinò il capo, quasi
sotto il peso di un gastigo inevitabile.
Ma Bice tornava poi in sé, e
pareva chiedere perdono a tutti colle sue parole e le sue carezze affettuose.
Appena incominciò ad alzarsi da letto, la contessa fissò il giorno della
partenza. Nel lasciarsi, madre e figlia, alla stazione, erano commosse
entrambe, abbracciandosi senza dire una parola, all'ultimo momento, quasi
dovessero lasciarsi per sempre.
La contessa giunse tardi a casa
sua, di sera, affranta, intirizzita dal freddo. La casa vuota e deserta era
fredda ancor essa, malgrado il gran fuoco acceso, malgrado le lumiere
solitarie, nelle stanze malinconiche.
La salute della contessa Anna
declinò rapidamente. Da prima ne accusò la stanchezza del viaggio, le
commozioni, la stagione rigida. Stette circa tre mesi fra letto e lettuccio, e
il medico tornò a visitarla tutti i giorni.
- Non è nulla - ripeteva lei. -
Oggi mi sento meglio. Domani m'alzerò -.
Alla figliuola scriveva
regolarmente, senza accennare però alla gravità del male che l'uccideva. Verso
il principio dell'autunno parve migliorare davvero. Ma a un tratto peggiorò in
guisa che i familiari si credettero obbligati a telegrafare al marchese.
Roberto giunse il giorno dopo,
spaventato.
- Bice non sta bene, - disse al
dottore che l'aspettava. - Sono inquieto anche per lei. Non sa nulla... Ho
temuto che la notizia... l'agitazione... il viaggio...
- Ha ragione... Anche la salute
della marchesa ha bisogno di molti riguardi... È una malattia gentilizia, pur
troppo!... Io stesso non avrei preso su di me tale responsabilità... E se non
fosse stata la gravità del caso...
- Molto grave? - chiese Roberto.
Il dottore scosse il capo.
L'inferma, appena le annunziarono
la visita del genero, entrò in una grande agitazione.
- E Bice? - chiese appena lo
vide. - Perché non è venuta?
Egli balbettava, quasi pallido
quanto lei, sentendosi anch'esso un sudore freddo alla radice dei capelli.
- Siete stato voi... a dirle che
non venisse?... - seguitava lei colla voce tronca e soffocata.
Egli non le aveva mai udito
quella voce, né visto quegli occhi. Una donna, china sul capezzale, sforzavasi
di calmare l'inferma. Infine essa tacque, abbassando le palpebre, stringendo
forte le mani sul petto.
Volle confessarsi la sera stessa.
Dopo che si fu comunicata fece chiamare di nuovo il genero, e gli strinse la
mano, quasi per chiedergli perdono.
Nella stanza vagava l'odore
dell'incenso - l'odore della morte; soffocato di tratto in tratto da un odore
più acuto di etere, penetrante, che pigliava alla gola. Delle ombre livide
sembravano errare sul volto della moribonda.
- Ditele... - balbettò la
poveretta. - Dite a mia figlia... -
L'affanno la vinceva,
soffocandole le parole nella strozza, facendole stralunare gli occhi deliranti.
Allora accennò che non poteva più, con un moto del capo desolato.
Di tanto in tanto bisognava
sollevare di peso sui guanciali quel povero corpo consunto, nell'angoscia
suprema dell'agonia. Ella però faceva segno che Roberto non la toccasse. Le si
erano quasi sciolti i capelli, tutti bianchi.
- No... no... - furono le ultime
sue parole che si udirono gorgogliare indistinte. Giunse le mani per chiudere
la battista che le si era aperta sul petto, e così passò, colle mani in croce.
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