RACCONTI E BOZZETTI
Mi rammento, nell'ultima eruzione
dell'Etna, di avere assistito ad uno di quei semplici episodi che vi colpiscono
più profondarnente della catastrofe istessa. Era lo spettacolo di un casolare,
in fondo alla valle, che la lava stava per seppellire. Davanti al casolare,
c'era un cortiletto, cinto da un muricciuolo, il quale aveva arrestato per poco
la corrente, e le scorie gli si ammonticchiavano addosso adagio adagio;
sembrava si gonfiassero, come un rettile immane irritato, e scoppiavano in
larghi crepacci infuocati. Allora il casolare ne era improvvisamente
rischiarato, e si vedevano le finestre spalancate, una tettoia accanto alla
porta, e un albero nel cortiletto. L'immensa valle era tutta nera di scorie
fumanti, che si squarciavano qua e là, e avvampavano nelle tenebre, e le scorie
irrompevano da quei crepacci, con un acciottolio prolungato e sinistro, come di
un'immensa distesa di tegole che rovinasse. Una delle finestre del casolare si
era illuminata, e dava un aspetto di cosa viva a quella casuccia abbandonata in
mezzo a tanta desolazione; ma ciò che colpiva maggiormente era quel cortiletto
deserto e sgombro d'ogni cosa, senza un cane, né una gallina, né un pezzo di
legno, quasi spazzato da un vento furioso. Di tanto in tanto vi si vedeva
comparire un uomo, il quale sembrava nero nel riflesso ardente della lava, e
piccin piccino per la grande distanza. Egli si affacciava sotto la tettoia, e
guardava. Dal poggio dove eravamo, si scorgevano anche col cannocchiale altri
uomini piccini e neri, che formicolavano sul tetto, e ne levavano le tegole, i
travicelli, le imposte, tutto ciò che potevasi strappare di dosso alla povera
casa, la quale pareva sempre più desolata a misura che la spogliavano nuda
prima di abbandonarla. E intanto dal poggio gli spettatori, seccati dalla
cenere che li accecava, e dalle emanazioni che toglievano il respiro,
s'impazientivano del lungo tempo che ci metteva la lava a soverchiare l'altezza
del muricciuolo, e calcolavano, coll'orologio in mano, il tempo che ci avrebbe
messo a circondare la casuccia. Tutt'a un tratto l'albero accanto alla porta
avvampò come una fiaccola, e la lava si rovesciò nel cortile.
E nella immensa valle nera non si
vide altro che il rosseggiare qua e là delle lave che irrompevano, accompagnate
dall'acciottolio sinistro delle scorie che precipitavano. Alle volte, mentre la
corrente infuocata si ammonticchiava a poco a poco per 50 metri d'altezza, non
si udiva né si vedeva più nulla, tranne il fruscio soffocato della pioggia di
cenere, che stampavasi come uno sterminato nuvolone nero sul pallido cielo di
luna nuova, e le fiamme che si accendevano di tratto in tratto nella valle, e
indicavano il corso della corrente di fuoco. Ah! quanti alberi se ne andavano
in quelle fiamme! e quanti filari di vigne zappati, potati, accarezzati,
guardati cogli occhi assorti nei castelli in aria della povera gente! e quante
cannucce con le immagini di sant'Agata miracolosa, che non erano valse ad
arrestare il fuoco! e quante avemarie biascicate colle labbra tremanti!
E noi che correvamo ad assistere
a quel triste spettacolo in brigate chiassose! e le strade della montagna che
erano popolate di notte come alla vigilia di una festa, e i cocchieri che
facevano scoppiettare allegramente le fruste perché non avevano né vigne né
case, e la loro vigna era quella provvidenza dell'eruzione che avrebbe dovuto
non finir più, se voleva Dio! e le bettole affollate e fumanti, e i campi lungo
le siepi, e le storielle dettagliate del disastro che si raccontavano per
renderne più piccante lo spettacolo a coloro che spendevano 20 lire per andarlo
a vedere! - Quante ricchezze aveva ingoiate il fuoco, quanti campi aveva
distrutto, quanto erano distanti i boschi del barone A. e quanto potevano
valere i nocciuoleti del marchese B. minacciati dell'eruzione. - Insomma i
particolari più desolanti, come il pepe della pietanza, che vi facevano
sospirare dal piacere pensando che non ci avevate nemmeno un palmo di terra da
quelle parti.
Un tale, il giorno prima, vi
possedeva una vigna che gli fruttava 3000 lire all'anno, una ricchezza, sebbene
non avesse altro, per sé e per la sua numerosa famiglia. Tutt'a un tratto
vennero a dirgli che il fuoco si divorava la sua ricchezza, e lo lasciava
povero e pazzo, come si dice. Egli accorse a cavallo dell'asino, e trovò il
vignaiuolo affaccendato a levare le imposte del palmento, e le tegole del
tetto, le doghe delle botti, tutto ciò che si poteva salvare, come avevano fatto
quei del casolare. Il padrone, giungendo alla porta senz'uscio del palmento,
dinanzi alla sua vigna che gli fumava e gli crepitava sotto gli occhi, filare
per filare, domandò al vignaiuolo con la faccia bianca; - Perché avete levato
le tegole e le imposte, e le doghe delle botti? - Per salvarle dal fuoco -
rispose il contadino. - Il fuoco fra tre ore sarà qui. - Lasciate stare ogni
cosa, - disse il padrone. - Io non ho più bisogno di palmento, né avrò più cosa
metterci nelle botti. Io non ho più nulla . - Egli non aveva nemmeno la zappa
da camparsi la vita, come il suo vignaiuolo. Poi baciò il cancello della vigna,
che ancora rimaneva in piedi, e se n'andò, tirandosi dietro l'asinello.
Io non ho assistito a quella
scena, ma essa mi è rimasta stampata dinanzi agli occhi più nettamente del
casolare che ho visto distruggere dalle lave. E quando mi avviene di sentire di
qualche altra catastrofe, penso a quei poveretti che si sono voltati a guardare
da lontano la vigna inondata e la casuccia distrutta, ed hanno detto; - Io non
ho più cosa metterci nelle botti quest'anno, né nel granaio. Io non ho più
nulla, - come quel tale che aveva baciato per l'ultima volta il cancello della
sua vigna, e se n'era andato tirandosi dietro l'asinello.
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